Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 997 del 17/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 997 Anno 2014
Presidente: FOTI GIACOMO
Relatore: SERRAO EUGENIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
POSTIGLIONE GIANCARLO N. IL 28/11/1977
avverso l’ordinanza n. 157/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
25/09/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EUGENIA SERRAO;
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Data Udienza: 17/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. In data 25/09/2012 la Corte di Appello di Napoli, in accoglimento della
richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da Postiglione Giancarlo
in relazione alla custodia cautelare dal medesimo subita, nella forma della
detenzione in carcere, dal 1/01/2009 e, nella forma degli arresti domiciliari, sino
al 4/06/2010, riconosceva al medesimo la somma di euro 87.371,31. La Corte di
appello riferiva che l’accusa che aveva dato causa alla detenzione era quella di
tentata estorsione in concorso, aggravata anche dall’art.7 I. 12 luglio 1991,

genesi della identificazione del Postiglione quale autore della richiesta estorsiva
risultava estremamente confusa, non connotata dalla necessaria univocità, non
avendo la persona offesa riconosciuto tale imputato come autore dei fatti.
1.1. In ordine alla quantificazione dell’indennizzo, la Corte faceva uso del
cosiddetto criterio matematico, ritenuto comprensivo di tutte le possibili ed
ordinarie conseguenze dannose connesse all’ingiusta privazione della libertà, in
difetto di prova di ulteriori pregiudizi. Osservava, altresì, che non vi era stata
alcuna allegazione, con riferimento allo strepitus fori, tale da far ritenere che
l’eventuale diffusione della notizia della vicenda giudiziaria avesse comportato la
propalazione di notizie strettamente riguardanti la persona dell’istante; che
nessuna allegazione vi era stata con riferimento all’attività lavorativa e
commerciale svolta all’epoca dell’arresto, al volume di affari prima e dopo la
restrizione e alla prova della causalità tra la detenzione e la flessione economica
asserita; che risultava provata unicamente la costituzione del nucleo familiare
del Postiglione, senza alcun elemento concreto circa conseguenze dirette e
derivate per i singoli componenti al di là dell’evidente e immaginabile disagio
connesso allo status detentionis, già ricompreso nel calcolo aritmetico; che,
quanto al danno alla salute, la sindrome depressiva, già preesistente rispetto alla
detenzione in quanto collegata a problemi lavorativi, aveva avuto una nuova
insorgenza e durata circoscritta allo stato detentivo inframurario, venendo
gradualmente a scemare durante la detenzione domiciliare per cessare anche
prima della liberazione dalla restrizione, con ciò evidenziando il diretto
collegamento tra tale stato depressivo e l’ingiusta detenzione, con conseguente
comprensione di esso nella somma determinata con calcolo aritmetico.
2. Avverso tale ordinanza ricorre per cassazione Giancarlo Postiglione, per il
tramite del difensore di fiducia; deduce violazione di legge e vizio motivazionale
per avere la Corte limitato la determinazione del quantum al solo computo
matematico dei 521 giorni di detenzione sofferti ingiustamente; l’ordinanza ha
travisato il dato di fatto inerente alla reale gravità della depressione,
diagnosticata dal consulente tecnico del Giudice per le indagini preliminari,
2

n.203; che da tale accusa il Postiglione era stato assolto il 4/06/2010 perché la

dichiarandola incompatibile con il regime di vita carcerario; la motivazione risulta
illogica e contraddittoria laddove non commisura l’indennizzo anche alle
conseguenze personali e familiari, alla perdita della reputazione, notoriamente
derivante per la pubblicazione dell’arresto nei giornali locali e regionali, alla
grave sindrome depressiva ampiamente documentata nel giudizio di merito,
affermando che il computo aritmetico è già comprensivo di tutte le possibili e
ordinarie conseguenze dannose connesse all’ingiusta privazione della libertà.
2.1. Con motivi aggiunti il ricorrente ha sottolineato la contraddittorietà e

stato detentivo non si è tradotta in una malattia vera e propria e non riconosce
le privazioni e lo scompiglio della famiglia, di una figlia senza padre, messi tutti
direttamente e indirettamente alla gogna nnediatica trattandosi di un arresto
riportato dai giornali e persino nel web.
3. Il Procuratore Generale, nella persona del dott. Giovanni D’Angelo, ha
chiesto il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. I principi fondamentali cui aver riguardo nella determinazione
dell’indennizzo dovuto a colui che abbia subito una detenzione ingiusta, sono
stati chiariti con due pronunce rese dalle Sezioni Unite di questa Corte, la prima
delle quali (Sez. U, n.1 del 13/01/1995, Min. Tesoro in proc. Castellani,
Rv.201035) ha svincolato la liquidazione dall’esclusivo riferimento a parametri
aritmetici o comunque da criteri rigidi, stabilendo che si deve basare su una
valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della
custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali
e familiari scaturite dalla privazione della libertà; la seconda (Sez. U n.24287 del
9/05/2001, Min. Tesoro in proc. Caridi, Rv.218975) che ha chiarito le modalità di
calcolo del parametro matematico al quale riferire, in uno con quello equitativo,
la liquidazione dell’indennizzo, nel senso che esso è costituito dal rapporto tra il
tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art.315, comma 2, cod.proc.pen. e il
termine massimo della custodia cautelare, di cui all’art.303, comma 4, lett.c)
cod.proc.pen., espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso
in giorni, di ingiusta restrizione subita.
2. Al fine di delineare l’oggetto della decisione risulta, poi, necessario
premettere che il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di
riparazione è sottratto al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il
giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento, senza
sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che,
3

illogicità della motivazione laddove afferma che la depressione insorta durante lo

discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non
abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia
liquidato in modo simbolico la somma dovuta (Sez. 4, n.10690 del 25/02/2010,
Cammarano, Rv. 246424).
3. Con specifico riguardo al giudizio di riparazione per ingiusta detenzione,
questa Corte ha, poi, costantemente affermato che qualora la perdita di libertà,
pur limitata nel tempo, abbia avuto effetti devastanti e le conseguenze personali
e familiari abbiano assunto rilievo preponderante, dovrà darsi prevalenza al
e

equitativo

non

al

solo

criterio

nummario

(Sez. 4, n.49832 del 14/02/2012, Bagnolini, Rv. 254083). Principio più volte
affermato da questa Corte è, infatti, quello secondo il quale il criterio aritmetico
individuato dalla giurisprudenza di legittimità costituisce solo una base utile per
sottrarre la determinazione dell’indennizzo ad un’eccessiva discrezionalità del
giudice e garantire una tendenziale uniformità di giudizi; tale criterio, pertanto,
può subire variazioni in aumento o in diminuzione in ragione di specifiche
circostanze che devono essere prese in esame per adattare la liquidazione al
concreto.

caso

(Sez. 4, n. 10123 del 17/11/2011,

Amato,

Rv. 252026;

Sez. 4, n. 34857 del 17/06/2011, Giordano, Rv. 251429).
4. Sul piano più strettamente processuale, l’obbligo per il giudice di merito
di prendere in esame ogni ulteriore pregiudizio dedotto dal ricorrente si desume
dal rilievo per cui, se è vero che la riparazione per ingiusta detenzione si
differenzia dal risarcimento del danno da illecito sia per il profilo sostanziale della
non necessaria integralità del ristoro, desumibile dalla fissazione di un tetto
limite

ai

sensi

dell’art.315,

comma

2,

cod.proc.pen.

(Sez. 4, n. 39815 del 11/07/2007, Bevilacqua, Rv. 237837), sia per il correlato
profilo processuale dell’esclusione dell’onere della prova in merito all’entità del
danno, desumibile dall’aggettivo ‘equa’ utilizzato dal legislatore (art.314, comma
1, cod.proc.pen.), è però costante l’affermazione di questa Corte che, nel
procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, il principio dispositivo, per il
quale la ricerca del materiale probatorio necessario per la decisione è riservata
alle parti, tra le quali si distribuisce in base all’onere della prova, è temperato dai
poteri istruttori del giudice, il cui esercizio d’ufficio, eventualmente sollecitato
dalle parti, si svolge non genericamente ma in vista di un’indagine specifica,
secondo un apprezzamento della concreta rilevanza al fine della decisione,
insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della correttezza del
procedimento logico (Sez. 4, n. 18848 del 21/02/2012 , Ferrante, Rv. 253555).
4.1. Corollario di tale principio non può che essere l’onere della parte di
allegare l’esistenza del danno, la sua natura ed i fattori che ne sono causa e,
d’altro canto, il dovere del giudice di prendere in esame tutte le allegazioni della
4

criterio

parte in merito alle conseguenze della privazione della libertà personale e,
dunque, di esaminare se si tratti di danni causalmente correlati alla detenzione e
se sia stata fornita la prova, anche sulla base del fatto notorio o di presunzioni,
di dette conseguenze.
5. Nel caso in esame, la Corte di Appello di Napoli ha motivato la propria
decisione di adottare, nel caso in esame, il criterio di liquidazione esclusivamente
matematico, sia sul presupposto che alcune allegazioni costituissero ordinarie
conseguenze dannose connesse all’ingiusta privazione della libertà, sia sul

6. Le censure mosse dal ricorrente in merito alla contraddittorietà della
motivazione del provvedimento impugnato con riguardo alle ulteriori
conseguenze, allegate nella domanda, appaiono infondate laddove lamentano
l’omesso esame della lesione della reputazione e della lesione all’integrità psicofisica del ricorrente, avendo la Corte fornito (pag.4) congrua, completa e logica
indicazione dei motivi per i quali ha ritenuto tali conseguenze dannose, per come
allegate e provate, ricomprese nell’indennizzo liquidabile con il metodo
aritmetico.
7. Le censure mosse alla motivazione con riguardo alle altre conseguenze di
natura personale e familiare risultano, del pari, infondate, considerato che
l’istante si era limitato a dedurre e documentare la presenza nel nucleo familiare
di una figlia in tenera età e che dal provvedimento impugnato è dato rilevare che
la Corte di Appello, evidenziando che il criterio nummario appare adeguato nelle
situazioni in cui non sia fornita adeguata prova di ulteriori pregiudizi, pur
ritenendo provata la costituzione del nucleo familiare, non ha, nel caso concreto,
ritenuto sussistente la prova di tali ulteriori pregiudizi, affermando che ‘alcun
elemento concreto è stato fornito circa le conseguenze dirette, ad esempio, di
salute, che siano derivate per i singoli componenti, al di là dell’evidente e
immaginabile disagio connesso allo status detentionis’.
7.1. Ritiene la Corte che, nel caso in esame, l’allegata e documentata
presenza nel nucleo familiare di una figlia in tenera età sia stata correttamente e
senza contraddizioni valutata dalla Corte territoriale come circostanza inidonea a
fondare un giudizio positivo in merito alla sussistenza di pregiudizi di natura
familiare ulteriori rispetto a quelli ordinariamente derivanti dalla privazione della
libertà, correlata alla durata dell’ingiusta detenzione.
7.2. Le conseguenze personali e familiari menzionate dall’art.643
cod.proc.pen., al quale rimanda in materia di ingiusta detenzione l’art.315,
comma 3, cod.proc.pen. devono, infatti, essere oggetto di specifico esame da
parte del giudice di merito, svolgendo la funzione di adeguare la riparazione alle

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presupposto che di altri pregiudizi non fosse stata fornita prova adeguata.

peculiarità del caso concreto, purchè siano dedotte e provate nella loro funzione
individualizzante del caso concreto.
8. Al fine di chiarire le ragioni di tale affermazione di principio, è opportuno
richiamare le origini nell’ordinamento dell’istituto della riparazione per ingiusta
detenzione.
8.1. Tali origini si rinvengono in un intervento della Corte Costituzionale
(Corte Cost. n.1 del 15/01/1969) sulla questione di legittimità costituzionale
dell’art.571, comma 2, dell’allora vigente codice di rito penale per contrasto con

fosse stato assolto, in sede di revisione, per effetto della sentenza della Corte di
Cassazione o del giudice di rinvio, limitando il diritto stesso al caso che l’errore
giudiziario fosse stato commesso in una sentenza irrevocabile di condanna (art.
576 cod.proc. pen.) e riconosciuto poi attraverso un giudizio di revisione, mentre
non sarebbe stato possibile ravvisare alcuna differenza qualitativa circa la
sussistenza di un “errore” fra questa ipotesi e quelle di errore commesso in una
qualsiasi pronunzia giurisdizionale e riconosciuto poi in un grado, od in una fase
successiva del giudizio, di errore commesso cioe’ dal giudice istruttore con la
sentenza di rinvio a giudizio ed il mandato di cattura emesso contro l’imputato,
riconosciuto poi attraverso l’assoluzione con formula piena nel dibattimento.
8.2. In tale pronuncia la Corte osservava che la legge da cui traeva origine
la norma sottoposta al vaglio di legittimità non potesse dichiararsi
incostituzionale perchè solo parzialmente attuativa dei principi costituzionali,
segnatamente dell’art.24 Cost., spettando al legislatore risolvere se l’istituto
della riparazione degli errori giudiziari dovesse restringersi ai casi di carcerazione
ove intervenga o sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, o dovesse
invece comprendere qualunque caso di carcerazione preventiva, ingiustamente
scontata, oltreché dettare norme attuative circa i limiti di tempo per la
proposizione della domanda, il riconoscimento con pronuncia giudiziaria della
sussistenza dell’errore, forme e misure della riparazione, competenza e
procedura. Il successivo dibattito dottrinario e giurisprudenziale metteva in luce
come dallo stretto collegamento dell’art.24, comma 2, con gli artt. 2 e 13 della
Costituzione trasparisse che l’ordinamento aveva recepito come valori primari ed
essenziali la tutela del principio di solidarietà e della libertà personale, alla cui
stregua nella nozione di errore giudiziario dovevano ricomprendersi tutte le
ipotesi di custodia cautelare che, essendo risultate ex post obiettivamente
ingiuste, rivelavano l’erroneità della misura restrittiva adottata in quanto lesiva
del bene della libertà personale.
8.3. Il codice di procedura penale approvato con d.P.R. 22/09/1988, n.447
ha introdotto, dunque, la disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione
6

l’art.24 Cost., in quanto tale norma riservava il diritto alla riparazione solo a chi

ampliando lo spettro delle ipotesi nelle quali la persona ingiustamente privata
della libertà ha diritto a ricevere dallo Stato una somma di natura indennitaria,
nel rispetto della direttiva contenuta nell’art. 2, comma 1, n. 100 della legge
delega del 16 febbraio 1987, n.81, che imponeva al legislatore delegato di
“adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e
relative ai diritti della persona e al processo penale” e, per la materia che qui
interessa, all’art. 5, paragrafo 5, della CEDU e all’art. 9, paragrafo 5, del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici, che prevedono il diritto ad un

8.4. Successive pronunce della giurisprudenza di legittimità e del giudice
delle leggi hanno definito gli ambiti di applicazione dell’istituto (Corte Cost. n.214
del 5/06/2013; Sez. U, ord. n.25084 del 19/07/2006 e Corte Cost. n.219
dell’11/06/2008; Corte Cost. n.413 del 13/12/2004; n.231 dell’8/07/2004;
n.284 del 10/07/2003; n.109 del 24/03/1999; n.446 del 16/12/1997; n.310 del
18/07/1996; n.248 del 20/05/1992), conformandone il testo ai principi
costituzionali ed alle norme interposte di matrice convenzionale, con particolare
riguardo, tuttavia, ai presupposti di operatività della riparazione. L’assenza, nel
medesimo periodo, di interventi correttivi del testo dell’art.643 cod.proc.pen., al
quale le norme sulla riparazione per ingiusta detenzione rimandano per i criteri
di determinazione della somma da liquidare, può ritenersi indice significativo
della conformità di tale disposizione ai principi costituzionali e convenzionali ed,
in particolare, ai diritti fondamentali consacrati nella CEDU, il cui rispetto è
imposto al legislatore nazionale dall’art.117 Cost.
8.5. I principi di matrice pattizia fungono, poi, al contempo, da parametri del
giudizio di legittimità costituzionale delle norme interne (Corte Cost. nn.348 e
349 del 2007; Sez. U civili nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 2004; Cass. penale
Sez. 1, n. 35616 del 22/09/2005 , Cat Berro, Rv. 232115; Sez. 1,
n. 32678 del 12/07/2006,

Somogyi,

Rv. 235036;

Sez. 1, n. 2800 del 01/12/2006 Cc., dep. 25/01/2007, Dorigo, Rv. 235447) e da
criteri ermeneutici ai quali il giudice di merito deve informare l’interpretazione
del diritto interno. Spetta, dunque, al giudice di merito il compito ermeneutico
della norma nazionale, sperimentando una interpretazione che sia conforme alla
disposizione conferente della CEDU così come interpretata dalla Corte di
Strasburgo (Corte Cost. n.311 del 26/11/2009).
9. Con particolare riguardo ad un’interpretazione dell’art.643 cod.proc.pen.,
in quanto richiamato dall’art.315 cod.proc.pen., che sia conforme al principio
consacrato nell’art.8 CEDU, secondo il quale non può esservi ingerenza
dell’autorità pubblica nella vita privata e familiare se non a determinate
condizioni e per determinati fini, occorre considerare che nelle decisioni della
7

indennizzo in caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione.

Corte EDU, esso è volto essenzialmente a tutelare l’individuo dalle ingerenze
arbitrarie dei pubblici poteri, ma impone anche degli obblighi positivi aventi ad
oggetto il rispetto effettivo della vita familiare. Così, laddove risulti provata
l’esistenza di un legame familiare, lo Stato deve per principio agire in modo tale
da consentire a questo legame di svilupparsi e deve adottare tutte le misure
necessarie affinché, ad esempio, un genitore possa riunirsi con il proprio figlio. Il
confine tra obblighi positivi e negativi dello Stato non si presta ad una precisa
definizione, godendo lo Stato di un certo margine di discrezionalità, ma sempre

24/02/2009, Errico c. Italia).
9.1. Sebbene nelle sentenze della Corte di Strasburgo tale principio si trovi
affermato ed interpretato, prevalentemente, in materia di adozione (Corte EDU,
25/09/2012, Godelli c.Italia; 27/04/2010, Moretti e Benedetti c.Italia), di
affidamento di minori (Corte EDU, 2/11/2010, Piazzi c.Italia), di procreazione
assistita (Corte EDU, 28/08/2012, Costa e Pavan c.Italia), con specifico
riferimento al diritto del genitore a non essere privato del rapporto con il figlio la
Corte ha affermato che le misure adottate dallo Stato che interrompono tale
relazione costituiscono un’ingerenza nella vita privata e familiare e, pur se
giustificate dal fine di perseguire uno scopo legittimo, devono essere
proporzionate all’obiettivo perseguito (Corte EDU 4/12/2012, Hamidovic c.
Italia).
9.2. Più in generale, la Corte EDU ha affermato che l’art.8 ha
essenzialmente per oggetto lo scopo di proteggere l’individuo da interferenze
arbitrarie ad opera delle autorità pubbliche. Ciascuno Stato non deve limitarsi
all’astensione da tali interferenze; infatti, a questo obbligo negativo possono
aggiungersi degli obblighi positivi diretti al rispetto effettivo della vita privata e/o
familiare; il confine tra obblighi positivi e negativi posti a carico dello Stato ai
sensi dell’art.8 non si presta a una definizione precisa ma, in entrambi i casi, si
deve tener conto del necessario equilibrio tra gli interessi generali e gli interessi
dei singoli e lo Stato ha, in ogni caso, un margine di apprezzamento (Corte EDU
3/05/2011 Sipos c. Romania).
10. Una lettura della norma che qui si assume violata conforme a tale
principio e, per altro verso, costituzionalmente orientata impone,
conseguentemente, all’interprete l’obbligo positivo di riconoscere il più efficace
strumento di tutela per fornire ristoro alla lesione del diritto inviolabile alla vita
privata e familiare derivante dalla privazione della libertà personale. La Carta
costituzionale, infatti, impone di impedire la costituzione di situazioni prive di
tutela che possano pregiudicare l’attuazione del ‘nucleo irriducibile’ dei diritti
inviolabili (Corte Cost. n. 252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e
8

nell’ottica di un giusto contemperamento degli interessi in gioco (Corte EDU

n.267 del 1998). Se è, poi, incontestabile che una riparazione di carattere
patrimoniale, venendo a monetizzare il sacrificio di una libertà inviolabile, ne
costituisca un ‘pallido rimedio’, tale argomento non può valere certamente ad
escludere la via della tutela risarcitoria o indennitaria quando, di fatto, essa sia
l’unica praticabile nell’ordinamento. Nella giurisprudenza della Consulta si
richiama anche l’esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno subito nei
valori propri della persona, anche in riferimento all’art. 2 Cost. (Corte Cost. n.
233 del 7/05/2003). Se, quindi, la legge rinviene nel ristoro indennitario un

atti e delle condotte tramite i quali diritti inviolabili sono parzialmente sacrificati,
tale ristoro diviene, a queste condizioni,
costituzionalmente necessario (Corte Cost. n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n.
307 del 1990) e spetta al giudice, nella fase della liquidazione, il compito di
trovare il ristoro adeguato alla sofferenza incolpevolmente patita dall’individuo
(Corte Cost. n.219 del 2/04/2008).
10.1. Il giudice nazionale, tenuto a stabilire l’entità dell’indennizzo spettante
a colui che sia stato, lecitamente ma ingiustamente, privato della relazione
familiare, è dunque chiamato ad attribuire un valore a tale ingerenza
dell’autorità nella vita familiare e non può trascurare, nel dare concreta
attuazione agli obblighi positivi imposti dai principi convenzionali, di esaminare
l’ulteriore incidenza dannosa che simile privazione possa aver comportato
rispetto alle ordinarie conseguenze derivanti dalla privazione della libertà,
illustrando le ragioni per le quali ritenga di non accedere al criterio equitativo al
fine di adeguare l’indennizzo alle peculiarità del caso concreto.
11. Applicando tale principio al caso in esame, al di là dell’allegazione della
presenza, nel nucleo familiare del Postiglione, di un figlio in tenera età ai
momento dell’arresto, il ricorrente non risulta aver sottoposto alla Corte
territoriale allegazioni e prove concernenti pregiudizi ulteriori ed individualizzanti
che la privazione della funzione genitoriale ha comportato rispetto alle
conseguenze familiari che si possono ritenere ristorate mediante il ricorso al
criterio aritmetico.
11.1. Se ne deve trarre la conseguenza che la Corte territoriale ha fornito
congrua e logica motivazione in merito all’insussistenza dei presupposti per
procedere alla liquidazione con criterio diverso da quello aritmetico, con
conseguente rigetto del ricorso e condanna del ricorrente, a norma dell’art.616
cod.proc.pen, al pagamento delle spese processuali.
12. Le ragioni della decisione e la circostanza per cui il Ministero non ha
svolto difese pregnanti in merito ai motivi di ricorso inducono a disporre la
compensazione delle spese di difesa tra le parti private.
9

corretto punto di bilanciamento tra gli interessi confliggenti, ossia la liceità degli

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, il 17/12/2013

Presidente

Il Cu1i:re est.

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