Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9929 del 13/02/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 9929 Anno 2014
Presidente: GARRIBBA TITO
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Giancone Gioacchino, nato a Palma di Montechiaro il 14/10/1968

avverso l’ordinanza del 10/06/2013 del Tribunale di Agrigento;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Giovanni D’Angelo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’indagato l’avv. Manlio Morcella, che ha concluso chiedendo
l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Agrigento, adito ai sensi
dell’art. 322 cod. proc. pen., riformava parzialmente, riducendo l’ammontare
dell’importo confiscabile fino alla concorrenza di euro 273.312,50, e confermava
nel resto il decreto del 16/05/2013 con il quale il Giudice per le indagini

Data Udienza: 13/02/2014

preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto l’applicazione della misura del
sequestro preventivo per equivalente delle somme di denaro – originariamente
fino alla concorrenza di euro 295.065,90 – accreditate sul conto corrente del
comune di Lampedusa e Linosa, concernenti tre mandati di pagamento emessi in
favore di Gioacchino Giancone e Giuseppe Gabriele, entrambi sottoposti ad
indagini in relazione ad un episodio di corruzione, loro addebitato al capo 11),
nelle vesti, rispettivamente, (per il Giancone) di responsabile dello sportello
unico per le attività produttive del comune di Lampedusa e (per il Gabriele) di

particolare ai due prevenuti (ai quali era stato contestato anche un altro episodio
corruttivo, descritto al capo 8, con riferimento al quale non era disposto alcun
sequestro in quanto si era ritenuto non determinabile il prezzo del reato – v. pag.
22 ord. impugn.), era stato ascritto di avere compiuto, nelle indicate qualità di
pubblici ufficiali, a far data dall’estate del 2010, una serie di atti contrari ai loro
doveri di ufficio in favore di Carmen Vego, amministratrice e legale
rappresentante della “Immobiliare Carmen” di Vego Carmen & C. s.a.s., dietro
l’accettazione della promessa del trasferimento in proprietà, a titolo di
corrispettivo, della metà delle unità immobiliari da realizzare ex novo mediante
la demolizione di altro edificio e ricostruzione dello stesso.
Rilevava il Tribunale come – escluso che l’applicazione di tale misura reale
avesse violato il divieto di bis in idem con riferimento a precedenti misure
adottate nei riguardi degli stessi indagati – gli elementi acquisiti durante le
indagini avessero dimostrato la sussistenza sia del fumus commissi delicti, che
del periculum in mora, coincidente con la confiscabilità di quelle somme ai sensi
dell’art. 322 ter, comma 2, cod. pen.; e come il vincolo reale dovesse essere
ridotto fino alla somma innanzi precisata, così diversamente determinato
l’ammontare del prezzo promesso ai due indagati in base all’accordo corruttivo
oggetto dell’addebito riportato nel capo 11).

2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il Giancone, con atto
sottoscritto dal suo difensore avv. Giuseppe Laricella, il quale ha dedotto i
seguenti tre motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 649 e 297 cod. proc. pen., per
avere il Tribunale del riesame erroneamente disatteso l’eccezione difensiva
diretta a far valere, nel caso di specie, il divieto di bis in idem, essendo stato il
Giancone destinatario di altro provvedimento di sequestro preventivo delle stesse
somme di denaro, in precedenza annullato dal medesimo Tribunale, a suo tempo
basato su elementi fattuali immodificati rispetto al momento dell’adozione del
nuovo decreto genetico della misura reale.
2

v

dirigente dell’ufficio tecnico comunale della medesima amministrazione. In

2.2. Violazione di legge, in relazione alle norme di diritto penale sostanziale
oggetto di addebito, per avere il Tribunale siciliano confermato il provvedimento
applicativo della misura reale, senza considerare l’impossibilità di configurare i
due delitti oggetto di addebito, dato che le delibere sindacali, alla cui adozione
l’indagato aveva, secondo l’ipotesi accusatoria, concorso, non erano illegittime, e
che, comunque, il Giancone non era pubblico ufficiale né incaricato di pubblico
servizio, bensì solo un professionista privato con un contratto di consulenza con il
comune di Lampedusa.

proc. pen., per avere il Tribunale agrigentino confermato il provvedimento di
sequestro preventivo su somme di denaro calcolate sulla base del valore degli
immobili realizzandi e non ancora realizzati dal concorrente corruttore in uno dei
due episodi delittuosi contestati.

3. Con memoria depositata il 07/11/2013 altro difensore del Giancone, l’avv.
Manlio Morcella è tornato ad insistere per l’annullamento dell’ordinanza
impugnata, richiamando, in particolare, gli aspetti sviluppati con il primo dei
motivi contenuti nell’originario ricorso e prospettando, rispetto ad esso, anche la
violazione di legge in relazione all’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., per
inosservanza del principio di diritto sancito dalla Cassazione con la sentenza di
annullamento del precedente provvedimento di sequestro preventivo avente ad
oggetto le stesse somme di denaro.

4. Ritiene la Corte che il ricorso vada accolto, per le ragioni di seguito esposte.

4.1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Se è vero che, secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza di questa
Corte, anche in materia di misure reali è configurabile il cosiddetto giudicato
cautelare, nel senso che il divieto di bis in idem derivante da una precedente
pronuncia di annullamento nel merito (o non anche per mere ragioni processuali)
del Tribunale del riesame può essere superato solo quando si prospettino nuovi
elementi di valutazione e di inquadramento dei fatti, acquisiti da ulteriori sviluppi
delle indagini pur se riguardanti circostanze precedenti alla decisione preclusiva
(così, tra le molte, Sez. 5, n. 5959/12 del 14/12/2011, Amico, Rv. 252151; Sez.
2, n. 34607 del 26/06/2008, Pavan, Rv. 240703), è anche vero che tale forma di
preclusione non opera laddove le misure cautelari reali, oggetto dei due
provvedimenti, siano di diversa natura ovvero laddove la loro applicazione sia
finalizzata al soddisfacimento di diverse esigenze e, dunque, sia condizionata
dalla sussistenza di differenti presupposti.

3
(-,

2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 322 ter cod. pen. e 125 cod.

Di tale regula iuris – che, pur non desumibile direttamente da alcuna norma
del codice di rito, è comunque agevolmente riconoscibile alla luce di quelle
disposizioni che, in caso di assenza sopravvenuta degli originari requisiti
legittimanti una misura, consentono il mantenimento del sequestro preventivo ad
altro scopo (v. art. 323, comma 1, cod. proc. pen.) o la trasformazione del
sequestro preventivo in quello conservativo (v. art. 323, comma 4, cod. proc.
pen.) oppure del sequestro probatorio in sequestro conservativo o preventivo (v.
art. 262, commi 3 e 3, cod. proc. pen.) – è stato fatto buon governo dal

Giancone del provvedimento di applicazione, ex art. 322 ter, comma 2, cod.
pen., del sequestro preventivo per equivalente delle somme di denaro sopra
indicate, lungi dall’essere ostacolata dall’adozione di un sequestro probatorio di
altri beni personali appartenenti al prevenuto o di un sequestro preventivo di
altro importo nella disponibilità di un coindagato, non fosse neppure preclusa dal
fatto che, in precedenza, altro decreto di sequestro preventivo su quelle
medesime somme di denaro fosse stato annullato (giudicando in sede di rinvio
ex art. 627 cod. proc. pen.) dallo stesso Tribunale, in quanto tale secondo
provvedimento era stato preso ai sensi dell’art. 321, comma 1, cod. proc. pen.,
sul presupposto che il denaro rappresentasse il profitto del reato di abuso di
ufficio: l’identità dell’oggetto del vincolo non comporta alcuna violazione del
divieto di bis in idem, trattandosi di sequestri preventivi adottati con riferimento
a distinti presupposti applicativi e di diverse funzioni cautelari.
E’ appena il caso di aggiungere che del tutto irrilevante appaiono tanto il
richiamo, contenuto nel ricorso, all’art. 297 cod. proc. pen. che attiene
specificamente alla disciplina delle misure cautelari personali; quanto quello,
contenuto nella memoria presentata il 07/11/2013 nell’interesse del ricorrente,
all’art. 627 cod. proc. pen., disposizione la cui efficacia si era esaurita nell’ambito
del giudizio di rinvio svoltosi, come si è avuto modo di chiarire, dinanzi al
Tribunale di Agrigento con riferimento all’annullamento di altro precedente
provvedimento di sequestro.

4.2. La gran parte delle doglianze formulate dai ricorrenti con il secondo
motivo è stata avanzata sostanzialmente per fare valere asseriti vizi di
motivazione del provvedimento gravato, e, dunque, è stata presentata per
ragioni diverse da quelle consentite, tenuto conto che l’art. 325 cod. proc. pen.
stabilisce che contro i provvedimenti in materia di sequestro preventivo gli
interessati possano proporre il ricorso per cassazione esclusivamente per
violazione di legge.

4

Tribunale di Agrigento, il quale ha evidenziato come l’emissione nei confronti del

E’ esclusa, dunque, la sindacabilità della contraddittorietà ed illogicità
manifesta della motivazione, in altre parole, il controllo di legittimità non si
estende all’adeguatezza delle linee argomentative ed alla congruenza logica del
discorso giustificativo della decisione: sindacato, nel caso di specie, sollecitato
dai ricorrenti, i quali hanno, in pratica, chiesto (peraltro in forma molto generica)
una inammissibile rivalutazione degli elementi di prova acquisiti, la cui capacità
dimostrativa era stata già verificata dai giudici di merito con risultati valutativi
esposti in una corretta motivazione, sviluppata in termini coerenti e privi di

Manifestamente infondata appare, poi, l’unica reale violazione di legge
denunciata dal ricorrente con il secondo motivo del suo atto di impugnazione,
quello concernente l’impossibilità di riconoscere, nella fattispecie, il
commissi delicti

fumus

non essendo soggettivamente riferibili al Giancone la

commissione di reati propri: censura a proposito della quale, anche a voler
prescindere da altre considerazioni sulla sua ammissibilità, in quanto a suo
tempo formulata con l’istanza di riesame senza però l’allegazione di alcun
elemento dimostrativo a sostegno, basta qui considerare, da un lato, la
correttezza della soluzione privilegiata dai Giudici di merito, i quali hanno
osservato come al prevenuto sia stato contestato un reato in concorso con il
dirigente di un ufficio tecnico comunale (sul punto v. pag. 15 ord. impugna.); e
come, in ogni caso, sia pacifico che debba considerarsi pubblico ufficiale anche il
libero professionista cui l’ente pubblico affidi un incarico comportante lo
svolgimento di attività amministrative in senso oggettivo, proprie dell’ente (in
questo senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 11265 del 07/10/1998, P.G. e Ordine, Rv.
211748).

4.3. Il terzo motivo del ricorso è, invece, fondato.
Il Tribunale di Agrigento ha ritenuto di confermare il decreto di sequestro
preventivo per equivalente, adottato ai sensi del combinato disposto degli artt.
322 ter cod. pen. e 321, comma 2, cod. proc. pen., avente ad oggetto le somme
di denaro sopra indicate (formalmente presenti sui conti correnti del comune di
Lampedusa ma destinate, per l’emissione di appositi mandati di pagamento, agli
indagati), in quanto corrispondenti al valore del ‘prezzo’, promesso dal corruttore
ai due pubblici ufficiali corrotti, costituito dalla metà dei realizzandi e non ancora
realizzati immobili, la cui cessione in proprietà era stata, appunto, promessa al
Giancone e al Gabriele (ovvero alla società Labproject facente capo ai due
indagati) quale ‘corrispettivo’ per il compimento di atti contrari ai loro doveri di
ufficio (v. pagg. 16-20 ord. impugn.).

5

‘Ì

deficit argomentativi.

Ritiene questo Collegio che, in una siffatta specifica situazione, non sia
possibile l’applicazione della disciplina della confisca per equivalente, di cui al
citato art. 322 ter, e, perciò, non sia giustificata l’applicazione della misura del
sequestro preventivo propedeutica all’adozione del provvedimento ablativo.
E’ ben noto come la disposizione dell’art. art. 322 ter sia stata introdotta nel
codice penale per adeguare il nostro sistema sanzionatorio penale alle regole
fissate da convenzioni e trattati internazionali, che, per contrastare il fenomeno
criminale della corruzione, avevano previsto la necessità di introdurre negli

contro la pubblica amministrazione, riconoscendo la possibilità della confisca di
beni, nella disponibilità del reo, di valore pari al profitto o al prezzo di tali illeciti,
laddove l’ablazione diretta di tali profitto o prezzo non fosse stata possibile. Con
tale forma di confisca ‘per equivalente’ si è inteso, in pratica, scongiurare il
rischio che il responsabile di così gravi reati possa beneficiare degli ‘effetti’
economici di quei delitti, laddove non sia possibile ovvero risulti molto
difficoltosa l’individuazione dei beni costituenti il prezzo dell’illecito – vale a dire
quanto dato o promesso per indurre, istigare o determinare il pubblico agente a
commettere il reato – ovvero il profitto dell’illecito – cioè i beni che ne
rappresentano la conseguenza economica diretta ed immediata -; in altri termini
è possibile affermare che il legislatore ha voluto evitare che “la corruzione
paghi”, consentendo la confisca anche di quelle utilità che l’agente abbia
acquisito come conseguenza indiretta e mediata della iniziativa criminosa, ad
esempio laddove tale utilità rappresenti la trasformazione od il frutto
dell’investimento dei beni acquisiti per effetto diretto del reato.
Con riferimento alla corruzione, reato a concorso necessario e con duplice
schema, la disciplina codicistica è stata differenziata a seconda che si faccia
riferimento alla posizione ‘passiva’ del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio corrotto oppure a quella ‘attiva’ del soggetto corruttore, dato
che il comma 1 dell’art. 322 ter è applicabile (tra gli altri) ai reati di cui agli artt.
318, 319, 320 e 322 bis, comma 1, cod. pen., mentre il comma 2 dello stesso
art. 322 ter è riferibile esclusivamente alla corruzione attiva, sanzionata dall’art.
321 cod. pen.
Ora, è fondato ritenere che, quando il legislatore codicistico ha stabilito, nel
comma 1 dell’art. 322 ter, che è consentita “la confisca di beni di cui il reo ha la
disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto” – così nel
testo vigente dopo la più recente modifica operata dall’art. 1 della legge n. 190
del 2012 – laddove la confisca diretta dei “beni che ne costituiscono il profitto o il
prezzo… non è possibile”, abbia dato per scontato che il profitto o il prezzo siano
materialmente individuabili ovvero siano stati conseguiti dal reato.
6

(/

ordinamenti statuali strumenti atti ad ‘aggredire’ il patrimonio dell’autore di reati

A tale risultato interpretativo conducono l’esegesi tanto letterale quanto logicosistematica della disposizione in esame. Ed infatti, è la stessa lettera della norma
a lasciar intendere che il prezzo o il profitto del reato vi siano stati, ma non ne
sia possibile la loro materiale ablazione. D’altro canto, va osservato che se
l’istituto della confisca ‘per equivalente’ ha la finalità – come si è sottolineato – di
evitare che il pubblico agente possa indebitamente avvantaggiarsi delle difficoltà
che l’autorità dovesse incontrare nell’individuare i beni che, costituenti il profitto
o il prezzo del reato, sarebbero destinati alla confisca diretta, non vi è ragione

facenti parte del patrimonio del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
servizio, in quanto questi abbia effettivamente conseguito il profitto o il prezzo
dell’illecito, o, comunque, lo stesso sia stato materialmente individuabile (si
pensi al caso in cui il prezzo, di cui sia stata accettata la promessa, venga
materialmente individuato nelle mani nel corruttore che si sta recando
all’incontro con il corrotto, per fargliene consegna). Con la conseguenza che se come nella fattispecie è accaduto – il prezzo della corruzione sia stato solo
promesso ma non materialmente ricevuto dal pubblico agente, né sia altrimenti
individuabile materialmente, non è possibile disporre la confisca per equivalente
di altri beni nella disponibilità di tale soggetto, perché l’adozione di un siffatto
provvedimento ablatorio, oltre a risultare il frutto di una forzata esegesi della
norma, dunque in violazione del principio di determinatezza del precetto penale,
avrebbe un ingiustificato effetto afflittivo, in quanto ‘sanzione’ sproporzionata
rispetto alla ratio ed alle finalità della norma che ne prevede l’applicazione (in
senso sostanzialmente conforme Sez. 6, n. 4179/13 del 27/11/2012, Mazzoni,
Rv. 254242).
Non appare, perciò, condividibile il diverso epilogo interpretativo privilegiato in
altra pronuncia di questa Corte, secondo cui, nel delitto di corruzione, sarebbe
assoggettabile a confisca obbligatoria ex art. 322 ter, comma 1, cod. pen., quale
prezzo del reato, l’utilità materialmente corrisposta al corrotto o,
alternativamente, quella promessa, se la dazione non ha luogo, talché quanto
effettivamente consegnato determinerebbe solamente il limite di valore
confiscabile (in questo senso Sez. 6, n. 30966 del 14/06/2007, Puliga, Rv.
236983): perché, seguendo fino in fondo questa impostazione, in caso di
confisca per equivalente, si arriverebbe irragionevolmente a ‘sanzionare’ in
maniera più severa la condotta del pubblico agente che abbia solo accettato la
promessa di denaro o di altra utilità, rispetto a quella di chi abbia materialmente
percepito solo una parte del prezzo promesso.
A non differenti conclusioni ermeneutiche si perviene laddove si confronti la fin
qui considerata disposizione, dettata dal comma 1, rilevante nel caso oggi
7

per non ritenere che, intanto sia possibile aggredire altri beni, di pari valore,

all’esame di questo Collegio, con quella del comma 2 dello stesso art. 322 ter
cod. pen., in quanto, al contrario di quanto sostenuto in passato (v. Sez. 6, n.
31691 del 05/06/2007, Becagli, Rv. 237623, il cui percorso argomentativo
riecheggia quello della già citata sentenza `Puligag, anche con riferimento
all’ipotesi delittuosa della corruzione attiva, la confisca di beni nella disponibilità
del corruttore di valore corrispondente al profitto, di cui non sia possibile la
confisca diretta, presuppone sempre che il profitto di tale reato vi sia stato
ovvero sia stato conseguito dal prevenuto: poiché solo a tale condizione è

corruttore possa avvantaggiarsi dei “frutti economici” della sua iniziativa illecita,
laddove quelli costituenti diretta conseguenza del delitto non siano apprensibili
(in senso conforme Sez. 6, n. 4297 del 10/01/2013, P.M. e Orsi, Rv. 254484, con
la quale la Corte ha significativamente annullato il decreto di sequestro
preventivo, disposto nell’ambito di un procedimento per corruzione connessa
all’aggiudicazione di pubblici appalti, in un caso in cui l’appalto era stato
aggiudicato ma non vi era stato un effettivo affidamento, né svolgimento di alcun
lavoro da parte del corruttore; contra Sez. 2, n. 21027 del 13/05/2010, P.M. in
proc. Ferretti, Rv. 247115, con una massima che, tuttavia, non sembra
rispecchiare le peculiarità della vicenda sottostante, riguardante un appalto di
lavori pubblici ottenuto corrompendo un pubblico ufficiale, appalto che aveva
avuto un inizio di esecuzione e rispetto al quale era, perciò, concretamente
identificabile per il corruttore un già conseguito profitto del reato).
D’altro canto, la “clausola di salvezza” contenuta nella parte finale del comma
2 dell’art. 322 ter (per cui la confisca per equivalente viene disposta su beni di
valore corrispondente al profitto “e, comunque, non inferiore a quello del denaro
o delle altre utilità date o promesse” al pubblico agente) – lungi dall’accreditare
la diversa tesi secondo la quale il legislatore avrebbe inteso parificare, anche ai
fini dell’operatività della confisca per equivalente su beni nella disponibilità del
corrotto, i casi di consegna ai casi di mera promessa del prezzo – ha la sola
finalità di facilitare la individuazione del “quantum” da assoggettare a confisca
per equivalente laddove l’entità del profitto, effettivamente esistente e
conseguito dal corruttore, non sia agevolmente determinabile: clausola
giustificata da una sorta di presunzione, rispondente alla logica economica di
qualsivoglia affare corruttivo, per cui è possibile ragionevolmente ritenere che, ai
fini della confisca, il profitto, se sussistente ma non facilmente determinabile,
non possa, comunque, essere inferiore al prezzo dato o promesso al corrotto.

4.4. L’accertata totale assenza, nel caso di specie, del fondamentale
presupposto giustificativo del sequestro preventivo per equivalente ai sensi

8

(ti

giustificabile una forma di ablazione ‘allargata’, finalizzata ad impedire che il

dell’art. 322 ter, comma 1, cod. pen., impone l’annullamento senza rinvio tanto
dell’ordinanza impugnata quanto dell’originario decreto di applicazione di quella
misura cautelare reale, con il conseguente dissequestro delle somme a suo
tempo assoggettate al vincolo e la loro restituzione all’avente diritto.
Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti esecutivi previsti dall’art.
626 cod. proc. pen.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché il decreto emesso il 16
maggio 2013 dal G.i.p. del Tribunale di Agrigento e dispone il dissequestro e la
restituzione all’avente diritto delle somme sottoposte a vincolo.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen.
Così deciso il 13/02/2014

P.Q.M.

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