Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9912 del 10/11/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 9912 Anno 2016
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: CASSANO MARGHERITA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MOTOC VICTOR N. IL 05/10/1970
avverso l’ordinanza n. 503/2015 TRIB. LIBERTA’ di VENEZIA, del
05/06/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARGHERITA
CASSANO;
Q-cio e.2Qcl2e
_
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 10/11/2015

Ritenuto in fatto.

LH 5 giugno 2015 il Tribunale di Venezia, costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p.,
respingeva l’appello proposto da Motoc Victor avverso l’ordinanza del gip del
locale Tribunale che il 2 maggio 2015 aveva respinto la richiesta di revoca della

56, 629 c.p. 71. n. 203 del 1991, 110, 81 cpv. c.p., 12 d. lgs. n. 286 del 1998, 110
81 cpv., 629 c.p. 7 1. n. 203 del 1991, reati tutti per i quali era intervenuta, in primo
grado, al’esito di giudizio abbreviato, condanna alla pena di otto anni e quattro
mesi di reclusione.
Il Tribunale osservava che: a) l’attività criminosa non poteva ritenersi esaurita
nel 2011, epoca in cui erano soltanto cessate le operazioni di intercettazione
telefonica; b) l’organizzazione di stampo mafioso era ancora operativa, atteso che
non erano stati identificati tutti i suoi componenti e taluni esponenti risultavano
latitanti; c) il sodalizio, caratterizzato da una diffusa ramificazione anche in altri
Stati esteri, poteva contare su altri apporti; d) Motoc non aveva mai rescisso i
legami con il sodalizio di appartenenza; e) non era stato acquisito alcun elemento
obiettivo da cui inferire una diminuita o cessata pericolosità sociale, tenuto conto
anche del complessivo comportamento processuale dell’imputato, improntato alla
negazione anche di circostanze obiettive.
3.Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il
difensore di fiducia, Motoc, il quale lamenta violazione di legge e vizio della
motivazione in ordine alle ragioni poste a base del provvedimento adottato, atteso
che il giudizio formulato non è suffragato da elementi obiettivi e non risponde ai
principi di proporzionalità e adeguatezza.

Osserva in diritto.

Il ricorso è manifestamente infondato.
Il suo esame impone una premessa.
1. Il giudice, sia in fase di applicazione di una misura cautelare che in sede di

riesame, ha il dovere di effettuare una valutazione globale e complessiva della
vicenda cautelare alla stregua di una serie di parametri di apprezzamento, di natura
1

misura cautelare, disposta in ordine ai delitti di cui agli artt. 416 bis, 110 81 cpv.,

tanto oggettiva che soggettiva, quali sono delineati dagli ara. 274 e 275 c.p.p.. Ne
consegue che sia l’applicazione che il mantenimento delle misure cautelari
personali non può in nessun caso fondarsi esclusivamente su una prognosi di
colpevolezza, né mirare a soddisfare le finalità tipiche della pena — pur nelle sue ben
note connotazioni di polifunzionalità — né, infine, essere o risultare in itinere priva
di un suo specifico e circoscritto scopo. Esiste, quindi, un nesso inscindibile tra la
misura e la funzione cautelare che essa deve assolvere. Ciò comporta che la

gradualità, così da riservare alla più intensa limitazione della libertà, attuata
mediante le misure di tipo custodiale il carattere residuale di extrema ratio.
Nel novero dei parametri legislativamente delineati si iscrivono anche i principi
di proporzionalità e adeguatezza che sono destinati a spiegare i loro effetti tanto
nella fase genetica della applicazione della misura, che nel suo aspetto funzionale
della relativa protrazione.
In forza del canone di adeguatezza il giudice deve porre in correlazione logica la
specifica idoneità della misura a fronteggiare le esigenze cautelari che si ravvisano
nel caso concreto e il paradigma di gradualità.
Alla stregua del criterio di proporzionalità ogni misura deve essere
proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa
essere irrogata.
L’intero sistema così delineato, imperniato sui principi di flessibilità e
individualizzazione delle misure, si fonda sulla tendenziale preclusione di qualsiasi
forma di automatismo o presunzione. Esso esige, invece, che le condizioni e i
presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà
personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione
concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor
sacrificio, così da realizzare una piana individualizzazione della coercizione
cautelare» (cfr. Corte Cost., sentenza n. 265 del 2010). Ed è del tutto evidente che i
postulati della flessibilità e della individualizzazione che caratterizzano l’intera
dinamica delle misure restrittive della libertà, non possono che assumere
connotazioni “bidirezionali”, nel senso di precludere tendenzialmente qualsiasi
automatismo (Sez. Un. n. 16085 del 31 marzo 2011).
Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori costituzionali, la Consulta
ha ritenuto che non sia, peraltro, necessario rimuovere integralmente la presunzione
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compressione della libertà personale abbia luogo secondo un paradigma di rigorosa

introdotta dal novellato art. 275, comma 3, c.p.p., ma solo il suo carattere assoluto,
che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del
“minore sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione solo relativa di
adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del
procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso
considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede,

censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze
cautelari nel grado più intenso.
2.Tanto premesso, il Collegio ritiene che il primo motivo di ricorso sia
manifestamente infondato.
Il Tribunale, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha valorizzato,
ai fini del rigetto della domanda del ricorrente, il ruolo di vertice del gruppo
operativo di Bologna ricoperto da Motoc, condannato in primo grado, all’esito di
giudizio abbreviato, in ordine a tutti i reati a lui ascritti (416 bis, 110, 81 cpv., 56,
629 c.p., aggravato ai sensi degli artt. 7 1. n. 203 del 1991 e 4 1. n. 146 del 2006; 81
cpv., 110, 48, 479, 483, 494 c.p.), le modalità di consumazione dei delitti,
protrattisi ben oltre l’agosto 2011 (data di cessazione delle sole operazioni di
intercettazione telefonica) ed espressivi di un più ampio contesto di criminalità
organizzata, l’intensità del dolo sotteso alle condotte illecite, la mancanza di
elementi da cui inferire l’intervenuta rescissione dei legami con il sodalizio di
stampo mafioso, il perdurante stato di latitanza di alcuni dei membri
dell’associazione mafiosa.
Sulla base di questi elementi ha ritenuto, sulla base di una corretta esegesi
dell’art. 275, comma 3, c.p.p., pienamente conforme ai principi enunciati dalla
Corte Costituzionale (sent. n. 48 del 2015) che non siano stati acquisiti elementi
idonei a dimostrare la cessazione delle esigenze cautelari.
3.Del pari manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
I giudici, con discorso giustificativo pienamente rispettoso del disposto
normativo e logicamente sviluppato, hanno argomentato che unica misura adeguata
e proporzionata a contenere la perdurante elevata pericolosità sociale manifestata d
Motoc sia quella della custodia cautelare in carcere, tenuto conto dell’intensità del
vincolo associativo, dell’articolazione del disegno criminoso in cui si inquadrano i

3

per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non

Trasmessa copta ex art. 23
n. 1 ter L. 8-8-95 n. 332
‘soma, lì

110 ilAR. 201d

comportamenti illeciti, delle loro concrete modalità di realizzazione, del
significativo lasso di tempo di consumazione dei delitti.
I rilievi difensivi, lungi dal confrontarsi criticamente con le considerazioni
svolte nell’ordinanza impugnata, ripropongono censure cui il Tribunale competente
ex art. 310 c.p.p. ha fornito compiuta e coerente risposta.
4.Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la

prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost.
sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle
ammende.
La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94, comma
1 ter, disp. att. c.p.p.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle
ammende.
Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al
Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p.
Così deciso, in Roma, il 10 novembre 2015.

condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di

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