Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9887 del 15/10/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 9887 Anno 2014
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: PAOLONI GIACOMO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
i. CERFEDA Donato, nato a Trani (BA) il 28/06/1965
2. LOGOLUSO Antonio, nato a Trani (BA) il 29/04/1946
avverso la sentenza in data 22/06/2012 della Corte di Appello di Bari;

esaminati gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita in pubblica udienza la relazione del consigliere dott. Giacomo Paoloni;
udito il pubblico ministero in persona del sostituto Procuratore Generale dott.
Alfredo Pompeo Viola, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.
Motivi della decisione
i. Con la sentenza suindicata la Corte di Appello di Bari ha confermato la
decisione resa all’esito di giudizio abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Trani, con la
quale Donato Cerfeda e Antonio Logoluso sono stati riconosciuti colpevoli del reato di
falsa testimonianza per le deposizioni da entrambi rese nella causa civile risarcitoria
promossa nei confronti del Comune di Trani dal coniuge e tutore di Edda Bologna,
interdetta e invalida civile totale, per essere la stessa caduta a causa dell’improvviso
“sprofondamento” delle mattonelle del marciapiede sottostante la sua abitazione,
riportando le lesioni rilevate presso l’ospedale cittadino (frattura del collo femorale in
cardiopatica cronica). Testimonianze mendaci, per le quali ai due imputati è stata inflitta
la pena (con le attenuanti generiche) di un anno di reclusione ciascuno, integrate:
dall’assunto del Logoluso di aver soccorso la dolorante Bologna dopo la caduta in strada,
accompagnandola a casa e ivi aspettando l’ambulanza che la portava in ospedale;
dall’assunto del Cerfeda, genero della Bologna, di aver visto cadere la suocera mentre
l’attendeva in macchina sotto casa, di averla aiutata insieme ad uno sconosciuto (il
Logoluso), riportandola a casa e poi andando via con l’ignoto soccorritore, convinto che
non si trattasse di nulla di grave (solo in seguito apprendendo che la donna era stata
trasferita in ospedale).
Richiamandosi alle condivise valutazioni delle emergenze processuali espresse
dalla sentenza del g.u.p., la Corte territoriale ha puntualizzato le seguenti evenienze:

Data Udienza: 15/10/2013

2. Con unico atto d’impugnazione del comune difensore i due imputati hanno
proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, deducendo le violazioni
di legge appresso sintetizzate.
2.1. Violazione degli artt. 191 e 195 co. 7 c.p.p. in relazione alla ritenuta
utilizzabilità probatoria di circostanze derivanti da fonte anonima.
Ignorando i rilievi esposti con l’appello, La Corte territoriale ha impropriamente
valorizzato a fini accusatori (al pari del primo giudice) il dato anamnestico riportato dal
certificato del pronto soccorso della signora Bologna. Al riguardo, a fronte della limitata
idoneità intellettiva dell’anziana (interdetta e invalida), i giudici del gravame si sono
limitati a formulare una semplice illazione, secondo cui a riferire le circostanze della
caduta della donna (in casa per motivi accidentali) potrebbe essere stato anche un
familiare della signora o altra persona. Non essendo stato identificato il familiare o tale
altra persona, il contenuto del referto sanitario deve ritenersi provenire da fonte
anonima e, come tale, non ha valenze probatorie (art. 195 co. 7 c.p.p.).
2.2. Erronea applicazione dei canoni di valutazione della prova (art. 192 c.p.p.) e
manifesta illogicità della motivazione.
Anche tralasciando l’inutilizzabile dato anamnestico enunciato dai documenti
sanitari, la Corte di Appello ha fondato la penale responsabilità dei due imputati sulla
contraddittorietà delle loro testimonianze. Ma tale supposta contraddittorietà non può
divenire, in mancanza di elementi di riscontro, un dato sintomatico della falsità di tutte e
due le dichiarazioni testimoniali. Falsità che, se mai, sarebbe riferibile ad uno soltanto
dei prevenuti, soltanto quando si accerti quale deposizione sia vera e quale sia mendace.
Accertamento che i giudici di merito non hanno compiuto.
3. Entrambi gli illustrati motivi di impugnazione sono manifestamente infondati e
i ricorsi di Donato Cerfeda e Antonio Logoluso vanno dichiarati inammissibili.
3.1. Erroneamente i ricorrenti (primo motivo di ricorso) assimilano i due atti
medici vagliati dai giudici di merito, il referto del pronto soccorso e la cartella clinica
relativa al ricovero della infortunata Battaglia, ad una semplice testimonianza
asseritamente apprezzabile ai sensi dell’art. 195 c.p.p. e, in particolare, del 7 0 comma
della norma in punto di mancata individuazione della fonte de relato della
testimonianza. Premesso che si è proceduto al giudizio con le forme del rito abbreviato e
2

a) non può dubitarsi della veridicità del referto del pronto soccorso e della cartella
clinica dell’ospedale, in cui si precisa che la stessa Bologna (o chi l’ha seguita in ospedale,
stante il suo stato di scarsa lucidità) ha riferito di una sua caduta accidentale in casa;
b) è affatto improbabile che la donna, per le sue condizioni di invalidità sia uscita
da casa senza l’ausilio di altra persona, camminando da sola sul marciapiede;
e) è inspiegabile che l’anziana, che per la tipologia della dolorosa frattura subita
non avrebbe potuto muoversi, non sia stata condotta subito in ospedale, pur essendovi
l’immediata disponibilità dell’auto del genero, ma sia stata riaccompagnata a casa dallo
stesso genero Cerfeda e dal soccorritore Logoluso;
d) ancor meno plausibile è la circostanza che il Cerfeda si sia allontanato dalla
dimora della donna, dove sarebbe rimasto ad attendere l’ambulanza il Logoluso, pur
estraneo alla famiglia (in pratica uno sconosciuto).
Considerate la sicura pertinenza delle mendaci dichiarazioni dei due imputati
all’oggetto della causa civile promossa dal tutore della Bologna e la loro rilevanza ai fini
della decisione (il giudice civile, ritenute inattendibili le testimonianze degli imputati, ha
rigettato la domanda risarcitoria), la Corte di Appello ha ribadito la conclusione del
g.u.p., secondo cui le non veridiche dichiarazioni del Cerfeda e del Logoluso sono state
sorrette da univoca volontà colpevole (dolo) in quanto dettate dal “proposito di
consentire alla Bologna un risarcimento del danno che non le spettava”.

P. Q. M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro mille ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Roma, 15 ottobre 2013

che la Corte di Appello (come in precedenza il giudice di primo grado) non ha focalizzato
la prova del mendacio dei due imputati sui soli atti medici in questione, valorizzando una
serie di altri elementi storici e logici asseveranti la totale inattendibilità degli assunti
dichiarativi dei due imputati, gli atti sanitari in questione costituiscono atti pubblici,
siccome provenienti da struttura sanitaria pubblica o comunque redatti da persone
esercenti un servizio di pubblica necessità (la cartella clinica è munita anche di fede
privilegiata) con valenze dimostrative (cioè di attestazione) dei contenuti in essi
rappresentati. Con l’ovvio effetto che gli stessi integrano documenti suscettibili di essere
validamente apprezzati sul piano probatorio ai sensi dell’art. 234 c.p.p. in relazione al
principio del libero convincimento del giudice (cfr.: Sez. 3, 29.1.2008 n. 11100, rv.
239080; Sez. 5, 16.4.2013 n. 31858, rv. 244907; Sez. 5, 22.6.2013 n. 35104,1v. 257124).
Non sottacendosi che -come constatano le due conformi decisioni di merito- sia il
referto che la cartella clinica attribuiscono direttamente alla Battaglia (più che ad un suo
eventuale familiare o accompagnatore) la descrizione delle modalità dell’infortunio
(avvenuto in casa) e che la consulenza medica ordinata dal giudice civile ha rilevato la
compatibilità delle lesioni patite dalla donna con una caduta in casa, la Corte di Appello
ha in ogni caso fondato il giudizio di falsità delle due testimonianze degli imputati anche
(come riconoscono gli stessi ricorrenti) sui connotati di implausibilità dianzi riassunti e
dotati, per quel che rileva in questa sede, di univoco peso probatorio a dimostrazione
delle mistificate modalità descrittive della dinamica dell’infortunio patito dalla donna, sì
che lo stesso non può ritenersi (come sostenuto da entrambi gli imputati) avvenuto in
strada a causa delle disconnesse mattonelle del marciapiede su cui la donna transitava.
3.2. I rilievi concernenti la pretesa vaghezza della contraddittorietà delle due
testimonianze degli imputati posta in luce dalla sentenza impugnata (secondo motivo di
ricorso), oltre che generici, sono privi di serio pregio. La Corte di Appello, infatti, non ha
evidenziato le sole discrasie reciproche delle due dichiarazioni testimoniali su evenienze
tra loro non conciliabili (secondo i rispettivi racconti), ma ha sottolineato gli autonomi
elementi, fattuali e logici, che accreditano l’immanente intrinseca distonia narrativa di
ciascuna delle due incriminate testimonianze, isolatamente considerate.
All’inammissibilità dei ricorsi segue ope legis la condanna dei due ricorrenti alla
rifusione delle spese processuali del grado di giudizio e di ciascuno di essi al versamento
di una somma in favore della cassa delle ammende, che si reputa equo stabile in euro
1.000 (mille) pro capite.

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