Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9838 del 17/11/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 9838 Anno 2016
Presidente: GRILLO RENATO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Fontana Gelso, nato a Bu g nara ( Aq) il 10/9/1963

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di L’A q uila in data
27/1/2014 ;
visti g li atti, il provvedimento impu g nato ed il ricorso ;
sentita la relazione svolta dal consi g liere Enrico Men g oni ;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore g enerale Felicetta Marinelli, che ha chiesto il ri g etto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27/1/2014, la Corte di appello di L’A q uila, in parziale
riforma della pronuncia emessa il 25/9/2012 dal Tribunale di Sulmona, irro g ava
a Gelso Fontana la pena di due anni di reclusione e 300,00 euro di multa in
ordine al reato dì cui a g li artt. 3, comma 8, e 4, n. 5, I. 20 febbraio 1958, n. 75 ;
allo stesso – q uale g estore di fatto del locale “Gli an g eli della notte” – era
contestato di aver favoritop comun q ue sfruttato la prostituzione di alcune donne
che lì lavoravano.

Data Udienza: 17/11/2015

2. Propone ricorso per cassazione il Fontana, a mezzo del proprio difensore,
deducendo tre motivi:
– inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 184, 468, 495, comma 4
cod. proc. pen., 24, comma 2, Cost.. La Corte di appello non avrebbe accolto la
censura relativa all’ordinanza con la quale il Tribunale di Sulmona – in violazione
dell’art. 468 cod. proc. pen. – aveva revocato numerose prove testimoniali
indotte dalla difesa; la motivazione sul punto risulterebbe carente ed illogica;
– inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 512, 512-bis, 526, comma

basata prevalentemente sulle dichiarazioni di due donne (che lavoravano nel
locale) acquisite ex art. 512 cod. proc. pen. pur difettandone i presupposti e
malgrado l’opposizione del difensore;
– violazione ed errata applicazione degli artt. 3, n. 8 e 4, n. 5, I. n. 75 del
1958. La sentenza avrebbe riconosciuto a carico del Fontana condotte non
provate, atteso che difetterebbe ogni riscontro in tal senso; nessun teste
avrebbe confermato l’ipotesi accusatoria e, al più, il pagamento del danaro
avrebbe costituito il corrispettivo – per il locale – dei mancati guadagni derivanti
dall’assenza della dipendente, allontanatasi con il cliente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato.
Con riguardo al primo motivo, si osserva che l’art. 495, comma 4, cod. proc.
pen. stabilisce che il Giudice, sentite le parti, può revocare con ordinanza
l’ammissione di prove che risultano superflue o ammettere prove già escluse;
proprio in questi termini ha operato il Tribunale di Sulmona, che – nel revocare
in parte la prova per testi indotta dalla difesa – ha emesso un provvedimento
validato dalla Corte di appello con motivazione congrua e priva di ogni illogicità.
In particolare, il Collegio di merito ha innanzitutto sottolineato – giusta verbale
dell’udienza 25/9/2012 – che la difesa aveva richiesto l’escussione del teste
Ciarlante, indicato in lista al numero 18 «accanto ai testi Coppola, Bottiglia,
Lepore, Gentili e Dulinskaite Viktorija, la cui escussione era stata richiesta per
“riferire sull’andamento dei fatti relativo all’episodio del 13/6/2007 all’interno del
locale”»; di seguito, la sentenza ha evidenziato che due di questi soggetti erano
stati già escussi (Coppola e Lepore) e che, comunque, la circostanza comune a
tutti non rivestiva più alcun interesse, in quanto relativa al capo b) della rubrica
dal quale l’imputato era stato assolto già in primo grado.
Dal che la conclusione – non manifestamente illogica e, pertanto, non
censurabile in questa sede – per cui il primo Giudice avrebbe revocato

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1-bis cod. proc. pen.. La Corte di appello avrebbe confermato una condanna

l’ordinanza ammissiva, quanto al Ciarlante, perché evidentemente superflua
con riguardo alla contestazione di cui allo stesso capo b).
4. Del tutto infondata, poi, risulta anche la seconda doglianza.
Con riguardo alla lettura dei verbali delle dichiarazioni rese da Oleana Zhyla
e Tatiana Zidkova, disposta ex art. 512 cod. proc. pen. per sopravvenuta
impossibilità di ripetizione, la Corte di appello ha affermato che – alla luce degli

imprevedibili, quale l’avvenuto allontanamento delle due donne per destinazione
ignota, come da verbali di vane ricerche acquisiti al fascicolo. Orbene, questa
motivazione – sia pur molto succinta – non sembra superabile con la censura di
cui al secondo motivo, con la quale, lungi dal negarsi il contenuto dei citati
verbali, ci si limita ad affermare, in termini generici, che nel caso di specie non
ricorrerebbero i presupposti di cui alla norma in esame, come costantemente
interpretata da questa Corte; «nulla di tutto ciò riguarda la fattispecie oggetto
del procedimento de quo». Senza indicazione alcuna, quindi, di eventuali
elementi che – conosciuti già all’epoca dell’acquisizione delle sommarie
informazioni – avrebbero reso invero necessaria un’escussione delle stesse
donne a mezzo di incidente probatorio, così precludendo il successivo intervento
della norma in oggetto.
5.

Da rigettare recisamente, da ultimo, anche il motivo in punto di

responsabilità.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella,
n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa
Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.
606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di
spessore tale da risultare percepibile ictu ocuii; ciò in quanto l’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,
dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa
volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato

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atti processuali – tale impossibilità doveva addebitarsi a circostanze

alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo
hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il

provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed
invero, dietro l’apparenza di una violazione di legge, lo stesso invoca al Collegio
una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie già
esaminate dai Giudici di merito (in particolare, le deposizioni testimoniali ed i
verbali di sommarie informazioni assunte), in parte anche riportate per stralci,
sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
La doglianza, inoltre, oblitera che la Corte di appello ha confermato la
condanna del ricorrente in forza di una motivazione adeguata, priva di illogicità e
fondata su precise risultanze istruttorie; in particolare, ha richiamato 1) le parole
della Zhyla e della Zidkova, esplicite nell’ottica dell’imputazione (e non smentite
nel presente ricorso); 2) le dichiarazioni dei vari clienti (in particolare, Colangelo,
Lepore e Minchella), che hanno riferito di aver pagato somme cospicue al
Fontana – circa 250 euro – «per condurre le ragazze al di fuori del locale e stare
con loro una notte»); 3) le intercettazioni telefoniche, «dalle quali emerge
l’attività di reclutamento dell’imputato»; infine, 4) i servizi di appostamento della
polizia giudiziaria. Sì da concludere che il ricorrente «si occupava del
reclutamento, gestiva gli appuntamenti delle donne all’interno ed esterno del
locale, riscuoteva il denaro e si occupava del recupero in caso di
inadempimento»; in tal modo confutando la tesi difensiva – riproposta anche in
questa sede – secondo cui i compensi consegnati dai clienti al Fontana avrebbero
rappresentato soltanto l’equivalente del mancato guadagno derivante al locale
dall’uscita della dipendente con l’avventore. E così, ancora, confermando il
giudizio di colpevolezza a carico del ricorrente, pur ribadendosi il principio,
costante in questa sede di legittimità, in forza del quale la responsabilità
dell’imputato – conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea,
in applicazione dell’art. 6 della CEDU – non può basarsi unicamente o in misura
significativa su dichiarazioni acquisite, seppure legittimamente, ai sensi dell’art.
512 cod. proc. pen. (per tutte, Sez. 6, n. 2296 del 13/11/2013, Frangiamore,
Rv. 257771; Sez. 1, n. 14807 del 4/4/2012, Vrapi, Rv. 252269); nel caso di

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giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al

specie, invero, numerose sono risultati gli elementi probatori a carico del
Fontana, e degli stessi la sentenza di appello ha dato adeguata indicazione.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2015

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processuali.

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