Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9634 del 14/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 9634 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

Data Udienza: 14/11/2013

SENTENZA

sul ricorso proposto
da
Ricciardi Carmelo, nato il 10 ottobre 1958
avverso l’ordinanza del Tribunale di Taranto del 12 marzo 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Enrico
Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

i

RITENUTO IN FATTO
1. – Con ordinanza del 12 marzo 2013, il Tribunale di Taranto ha in parte
rigettato in parte dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’interessato avverso
l’ordinanza del Gip del Tribunale di Taranto del 4 febbraio 2013, con la quale era stata
rigettata l’istanza di dissequestro di beni mobili e immobili sottoposti a sequestro
preventivo in forza di decreto del 21 settembre 2010, in relazione ai reati di cui agli
artt. 81, secondo comma, 646, 640, 61, nn. 2) e 7), cod. pen., 2634 codice civile, 4

2. – Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per
cassazione.
Il ricorrente premette che l’oggetto del sequestro erano quote sociali e beni
aziendali di due società nonché una sala per ricevimenti e che con il sequestro era stata
autorizzata la prosecuzione delle attività societarie, con particolare riferimento alla
gestione di detta sala ricevimenti, con la nomina del custode e amministratore
giudiziario. Vi erano state, poi, proroghe delle indagini preliminari e vi era stata
un’istanza di dissequestro motivata sulla considerazione che il ritardo nella chiusura
delle indagini preliminari e la conseguente persistenza del sequestro avevano
determinato un effetto negativo sulla gestione economica delle società in questione e,
in particolar modo, sulla gestione della sala ricevimenti. Il Gip aveva rigettato l’istanza
sul rilievo che non sussiste un obbligo giuridico, per le aziende sottoposte a sequestro,
di mantenere gli standard reddituali precedenti e che la facoltà d’uso della sala
ricevimenti richiesta dall’indagato avrebbe rappresentato una evidente elusione del
sequestro. Il Tribunale ha in parte dichiarato inammissibile l’appello proposto, sul
rilievo della completa eterogeneità del thema decidendum proposto al giudice a quo
con l’istanza relativa alla sostituzione rispetto ai motivi di appello. Questi ultimi erano,
infatti, riferiti alla successiva emanazione di un sequestro preventivo per equivalente
che non era menzionato nell’istanza originaria perché era stato notificato ed eseguito
nei confronti dell’indagato odierno ricorrente solo successivamente. In particolare, il
Tribunale aveva rilevato che in sede di appello non è possibile presentare i motivi in
un momento successivo alla presentazione dell’appello, ne limitarsi ad esporli per la
prima volta al collegio in sede di discussione.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza la difesa sostiene che le
argomentazioni illustrate nei motivi aggiunti d’appello non erano nuove ma erano già
state enunciate nell’atto introduttivo d’appello depositato il 23 febbraio 2013 e che si
trattava dell’illustrazione di una situazione di fatto venutasi a creare successivamente

del d.lgs. n. 74 del 2000.

alla proposizione dell’istanza di dissequestro. Ad avviso del ricorrente, l’esecuzione di
un sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente aveva comportato un
ridimensionamento dei presupposti dell’iniziale decreto di sequestro preventivo,
perché aveva riguardato anche i soci non amministratori che avevano denunciato il
ricorrente stesso per truffa aggravata e approvazione indebita. Sostiene la difesa che
il Tribunale avrebbe il dovere di esaminare qualsiasi elemento attinente alla legittimità
del mantenimento della misura, compreso il cambiamento della situazione di fatto

in cui dichiara inammissibile l’appello avente ad oggetto il provvedimento di rigetto da
parte del Gip della richiesta di concessione della facoltà d’uso della sala ricevimenti. Si
osserva, in particolare, che non sarebbe stata fornita alcuna motivazione sulle ragioni
per le quali, alla luce dell’andamento negativo degli affari, non appariva opportuna la
concessione di detta facoltà d’uso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – Il primo motivo di gravame – con il quale si lamenta, in sostanza, che il
Tribunale non avrebbe preso in considerazione il fatto nuovo costituito dal sequestro
preordinato alla confisca per equivalente che avrebbe colpito non solo l’indagato
odierno ricorrente ma anche i soci non amministratori della società che lo avevano
denunciato per truffa aggravata e appropriazione indebita – è formulato in modo non
sufficientemente specifico.
Nel ricorso non si chiarisce, infatti, quale sia la pertinenza di tale sequestro,
disposto su beni diversi da quelli oggetto del presente procedimento, con il sequestro
preventivo qui in esame. Né un tale nesso pertinenziale può essere evinto dalla sola
circostanza che il nuovo sequestro porrebbe in qualche modo in discussione la
credibilità delle accuse mosse dai denuncianti all’indagato odierno ricorrente,
trattandosi di un rilievo del tutto generico e neanche compiutamente sviluppato nel
ricorso.
Correttamente, dunque, il Tribunale adito ha evidenziato che con l’istanza
presentata al Gip non era stato prospettato alcun elemento idoneo incidere sul quadro
cautelare delineato con il decreto applicativo del sequestro preventivo.
Deve del resto osservarsi che, nel procedimento conseguente all’appello contro
provvedimenti in materia di sequestro preventivo, la produzione di documentazione
relativa ad elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti è legittima, a
condizione che sia rispettato l’ambito del devolutum (Cass., sez. 2, 14 febbraio 2013,

2.2. – Con un secondo motivo di doglianza, l’ordinanza è censurata nella parte

n. 12245, rv. 255539; sez. 1, 23 giugno 2006, n. 26299); l’oggetto della cognizione è,
infatti, delimitato dai motivi e dagli elementi su cui è fondata la richiesta al giudice di
prime cure e su cui questo ha deciso (ex multis, sez. 5, 17 maggio 2006, n. 25595).
Tali orientamenti sono stati più di recente ribaditi con l’enunciazione del principio
secondo cui, stante la natura devolutiva del giudizio sull’appello cautelare, la
cognizione del giudice è circoscritta entro il limite segnato non solo dai motivi dedotti
dall’impugnante, ma anche dal

decisum del provvedimento gravato, sicché con

sottoposta al giudice di primo grado, né al giudice ad quem è attribuito il potere di
estendere d’ufficio la sua cognizione a questioni non prese in esame dal giudice a quo
(sez. 1, 2 luglio 2012, n. 43913, rv. 253786).
3.2. – Del pari generico è il secondo motivo di ricorso, perché con esso ci si
limita ad asserire, senza fornire alcun dato concreto sul punto, che la gestione della
sala ricevimenti da parte dell’amministratore giudiziario avrebbe portato ad una
diminuzione degli utili rispetto alla precedente cessione.

E ciò a prescindere dall’ulteriore profilo di inammissibilità evidenziato dallo
Tribunale e rappresentato dal fatto che il provvedimento del pubblico ministero
riguardante le modalità di esecuzione del sequestro preventivo e anche il
provvedimento con cui lo stesso pubblico ministero, nell’esercizio del potere di
fissazione delle modalità esecutive del sequestro, rigetta la richiesta di immissione
nella disponibilità dell’immobile oggetto di sequestro preventivo sono impugnabili con
la procedura dell’incidente di esecuzione e non con lo strumento dell’opposizione di cui
all’art. 263, comma 5, cod. proc. pen. Correttamente, dunque, il Tribunale ha rilevato
che il provvedimento di rigetto da parte del Gip della richiesta di concessione della
facoltà d’uso è stato emesso dall’autorità giudiziaria competente, senza che tale vizio
di competenza fosse stato eccepito dal ricorrente, e non è comunque qualificabile fra
le ordinanze in materia di sequestro preventivo per le quali previsto l’appello di cui
all’art. 322 bis cod. proc. pen.; con la conseguenza che la richiesta di concessione
della facoltà d’uso potrà al più essere nuovamente avanzata al pubblico ministero.
4. – Il ricorso deve perciò essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso
senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla
declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc.

l’appello non possono proporsi motivi nuovi rispetto a quelli avanzati nell’istanza

pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della
somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2013.

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