Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9623 del 29/01/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 9623 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ORILIA LORENZO

Data Udienza: 29/01/2014

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DE NUZZO ARMANDO N. IL 21/09/1938
CARROZZO IMMACOLATA N. IL 06/12/1938
avverso la sentenza n. 1126/2012 CORTE APPELLO di LECCE, del
13/02/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/01/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LORENZO ORILIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
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RITENUTO IN FATTO

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La Corte di Appello di Lecce con sentenza 13.2.2013 ha confermato la
colpevolezza dei coniugi De Nuzzo Armando e Carrozzo Immacolata per concorso in
violazioni della normativa edilizia e paesaggistica, consistenti nella realizzazione nel
Comune di Porto Cesareo, località Lido Canne, in assenza di permesso di costruire e
dei necessari nullaosta, di un nuovo piano in sopraelevazione di mq. 51,72. Per
quanto ancora interessa, la Corte di merito ha disatteso la tesi difensiva fondata sulla
estraneità degli imputati alla condotta criminosa, ha ritenuto correttamente impartito

l’ordine di demolizione, da intendersi riferito alle opere che avevano formato oggetto
di condanna e ha negato il vincolo della continuazione tra i fatti in contestazione e
quelli per cui il De Nuzzo aveva riportato una precedente condanna con sentenza del
Tribunale di Lecce sez. Nardo in data 12.1.2005.
Gli imputati, tramite difensore, ricorrono per cassazione denunziando tre motivi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Col primo motivo denunziano, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) cpp,
l’inosservanza della legge penale in relazione all’art. 44 lett. c) DPR n. 380/2001 e
181 D. Lvo n. 42/2004 nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Si contesta in particolare la decisione laddove ha ritenuto la responsabilità degli
imputati sol perché proprietari senza verificare l’effettivo contributo causale
apportato dagli stessi, contributo che nel caso di specie, era assolutamente da
escludersi tenuto conto che essi, per ragioni di età, non si interessavano più delle
vicende della proprietà, avendone lasciato il godimento, la gestione e la disponibilità
a figli e nipoti, come dimostrato dal fatto che le chiavi erano in possesso della figlia.
Il motivo è infondato.
Essendo stato denunciato il vizio motivazionale si rende opportuno ricordare che
il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene solo alla
coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo
logico argomentativo. Al giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo
sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti
maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste
operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le
impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo
deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di
merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre
uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e
spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (cass. Sez. 6,
Sentenza n. 9923 del 05/12/2011 Ud. dep. 14/03/2012 Rv. 252349).

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Ebbene, nel caso di specie, la Corte d’Appello ha motivato il giudizio di
responsabilità dei ricorrenti considerando la loro qualità di proprietari e il loro ruolo in
occasione dei precedenti abusi edilizi riguardanti il piano terra (De Nuzzo era stato
condannato e la moglie aveva presentato domanda di condono); la Corte di merito
inoltre, attraverso un tipico accertamento in fatto, ha affermato che il suolo ove
insisteva l’edificio era recintato e da ciò ha desunto che qualunque opera all’interno
del terreno dovesse essere acconsentita dai proprietari, tanto più se si trattava di un
ulteriore piano sovrastante l’abitazione già esistente, con tutti i problemi di stabilità e

tenuta oltre gli incomodi costituiti dalla presenza di un cantiere che avrebbe impedito
di fruire dell’abitaziOne a pian terreno per un tempo consistente. Ha poi osservato
che la dedotta anzianità degli imputati, lungi da rappresentare un sintomo di
disinteresse per le vicende dell’immobile, andava invece valorizzata in senso
opposta, proprio per il maggior tempo libero che essi avevano per godere
dell’abitazione per periodi più lunghi: sulla base di tali considerazioni ha ritenuto
privo del minimo principio di prova la tesi difensiva fondata sull’avvenuto affidamento
della gestione dell’immobile ad altri in ragione dell’età. Ha considerato poi come dato
neutro il fatto che la figlia degli imputati si sia fatta nominare custode, osservando
che la polizia giudiziaria aveva nominato l’unica persona che si era presentata per
consentire l’accesso all’immobile, evidentemente inviata dai genitori all’uopo
contattati.
Il ragionamento seguito dalla Corte d’Appello appare non solo logicamente
coerente ma del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in
tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario o comproprietario, non
formalmente committente delle opere abusive, può dedursi da indizi quali la piena
disponibilità della superficie edificata, l’interesse alla trasformazione del territorio, i
rapporti di parentela o affinità con l’esecutore del manufatto, la presenza e la
vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi
anche in sanatoria, la fruizione dell’immobile secondo le norme civilistiche
sull’accessione nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano
trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche
morale alla realizzazione del fabbricato (cass. Sez. 3, Sentenza n. 25669 del
30/05/2012 Ud. dep. 03/07/2012 Rv. 253065; Sez. 3, Sentenza n. 33540 del
19/06/2012 Ud. dep. 31/08/2012 Rv. 253169).
La censura tende in definitva a riproporre una non consentita rivisitazione dei
fatti.

2. Col secondo motivo i ricorrenti denunziano, sempre ai sensi dell’art. 606
comma 1 lett. b) cpp, l’inosservanza della legge penale in relazione all’art. 31 DPR n.
380/2001 e, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. c), l’inosservanza degli artt. 547 e
130 cpp, dolendosi della mancata enunciazione, nel dispositivo, della correzione della

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sentenza di primo grado in ordine alla individuazione della porzione di immobile
oggetto di demolizione, che comprende, come indicato in motivazione, le opere in
contestazione, cioè quelle che hanno costituito oggetto di accertamento e di
condanna, con esclusione quindi delle opere realizzate nel 2001 e per le quali era già
intervenuta sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione.
Secondo i ricorrenti la sentenza impugnata, con riferimento all’ordine di
demolizione, è illogica e contraddittoria laddove ha ritenuto che la sopraelevazione

autonoma con autonoma via di accesso, mentre invece, in un precedente passaggio,
nel motivare sulla responsabilità dei prevenuti, aveva affermato che, essendo il
terreno recintato e chiuso con cancello, qualunque opera all’interno del medesimo
avrebbe dovuto essere autorizzata dai proprietari tanto più se si trattava della
costruzione di un ulteriore piano sovrastante l’abitazione esistente al primo piano,
con tutti i connessi problemi di stabilità e tenuta. Secondo i ricorrenti, delle due
l’una: o si tratta di una abitazione autonoma che può essere autonomamente
demolita oppure si tratta della costruzione di un ulteriore piano di un immobile già
esistente, per la cui costruzione e, quindi ovviamente, per la cui demolizione si
pongono problemi di stabilità e tenuta, non potendosi variare la qualificazione
oggettiva dell’immobile ed i connessi problemi di stabilità a seconda che si tratti di
dover provare la responsabilità dei prevenuti ovvero di escludere la possibilità di
revoca dell’ordine di demolizione per i manufatti realizzati nel 2009.
Il motivo è anch’esso infondato.
La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado ritenendo che la
formula “ordina la demolizione delle opere abusive” adoperata dal Tribunale si
riferisce ovviamente alle opere in contestazione, cioè a quelle che hanno costituito
oggetto di accertamento e di condanna perché – ha chiarito – l’espressione usata dal
primo giudice può essere interpretata anche nel senso che la demolizione debba
interessare tutta la abitazione al primo piano, ma solo essa.
Non vi era dunque nessun errore materiale da correggere, avendo la Corte di
merito interpretato in maniera logicamente coerente il senso dell’ordine di
demolizione impartito dal primo giudice.
Parimenti, nessuna illogicità si rinviene tra l’affermazione circa la recinzione del
terreno su cui insiste il manufatto con conseguente necessità di autorizzazione del
proprietario per ogni intervento all’interno del terreno (pag. 3 sentenza) e la
successiva affermazione circa l’autonomia della abitazione realizzata ad anni di
distanza e dotata di autonoma via di accesso (pag. 4) perché tale ultima
affermazione non esclude affatto che la via di accesso fosse posta anch’essa
all’interno del terreno recintato, così come logicamente doveva esserlo anche
l’abitazione in sopraelevazione oggetto del presente giudizio.

realizzata nel 2009 potesse essere agevolmente demolita, trattandosi di abitazione

Lo stesso vale per la questione della statica, perché la Corte di merito aveva
posto il problema con riferimento alla sopraelevazione e quindi evidentemente si
riferiva al sovraccarico dell’edificio per effetto della creazione di un nuovo piano,
come si evince agevolmente dalla lettura della sentenza. Nessuna illogicità quindi
sussiste con la successiva affermazione circa la agevole demolizione dell’opera,
attività che non presenta alcun aggravio della statica, ma anzi un alleggerimento.

3. Con la terza censura, denunziando l’inosservanza derart. 81 nonché la
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, i ricorrenti si dolgono della

omessa unificazione dei reati col vincolo della continuazione rispetto alle violazioni di
cui alla precedente condanna (emessa con la sentenza della Corte d’Appello di Lecce
n. 1496/2005), criticando il giudice di merito per avere preso in considerazione, al
fine di escludere identità del disegno criminoso con i fatti precedenti, il solo dato
temporale, cioè uno solo dei criteri elaborati dalla giurisprudenza.
Il motivo è infondato.
Tra gli indici rivelatori dell’identità del disegno criminoso non possono non essere
apprezzati la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la tipologia
dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le condizioni di
tempo e di luogo. Anche attraverso la constatazione di alcuni soltanto di detti indici purché siano pregnanti e idonei ad essere privilegiati in direzione del riconoscimento
o del diniego del vincolo in questione – il giudice deve accertare se sussista o meno la
preordinazione di fondo che cementa le singole violazioni (Cass. Sez. 1, 20 aprile
2000, n. 01587; cass. 5.11.2008 n. 44862; cfr. altresì. più di recente, Sez. 1,
Sentenza n. 11564 del 13/11/2012 Cc. dep. 12/03/2013 Rv. 255156).
Inoltre, per aversi unicità del disegno criminoso occorre che in esso risultino
ricomprese le diverse azioni od omissioni sin dal primo momento e nei loro elementi
essenziali, nel senso che, quando si commette la prima azione, già si sono deliberate
tutte le altre, come facenti parte di un tutto unico. Le singole condotte, quindi,
devono essere ricollegate ad un’unica previsione, di cui i diversi reati costituiscano la
concreta realizzazione, cosicché i reati successivamente commessi devono essere
delineati fin dall’inizio nelle loro connotazioni essenziali, non potendo identificarsi il
requisito psicologico indicato nell’art. 81 c.p. con un generico programma
delinquenziale ai fini dell’applicazione della disciplina del reato continuato.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha dato rilievo determinante all’intervallo
temporale, considerando la notevole distanza temporale rispetto ai fatti accertati nel
2001 e, sulla base di tale dato ha ritenuto inverosimile che De Nuzzo, nel momento
in cui edificava l’abitazione a piano terra, già prevedesse di realizzare, otto anni
dopo, un’ulteriore e separata abitazione al primo piano.
Trattasi di un ragionamento non solo corretto in diritto, perché ha valorizzato
uno degli indici richiesti, ma anche logicamente coerente, laddove, in considerazione

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del tempo trascorso, ha escluso il collegamento delle singole condotte ad un’unica
previsione: la critica dunque non appare idonea a scalfirlo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 29.1.2014.

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