Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9607 del 14/11/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 9607 Anno 2014
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto
da
Calcagni Franco Maria, nato il 5 agosto 1947
Montesi Alberto, nato il 28 marzo 1959
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 31 maggio 2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Enrico
Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avv.ti Aldo Turconi e Corrado Limentani, in sostituzione dell’avv.
Ruggero Tumbiolo, per Calcagni; Carlo Clementini, per Montesi.

Data Udienza: 14/11/2013

RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 22 giugno 2010, il Tribunale di Como – per quanto qui
rileva – ha ritenuto gli imputati Calcagni Franco Maria e Montesi Alberto colpevoli dei
seguenti reati: A) art. 44, comma 1, lettere b) e c), del d.P.R. n. 380 del 2001,
perché, nell’ambito dei lavori di ristrutturazione di un edificio ad uso residenziale, ex
filanda, il primo nella sua qualità di legale rappresentante della società proprietaria
dell’edificio e committente delle opere, il secondo nella sua qualità di progettista e

permesso di costruire e in violazione del piano di recupero approvato e convenzionato,
in area soggetta a vincolo ambientale: a) effettuavano l’innalzamento delle linee di
gronda e di colmo, la modifica dell’andamento delle falde di copertura e la modifica
della sagoma dell’edificio; b) destinavano ad uso residenziale il piano sottotetto, in
difformità dal piano di recupero; c) realizzavano alcuni terrazzini al piano sottotetto,
una finestra sul fronte Nord al piano terra e un’apertura trapezoidale al piano terra; B)
art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004 (così riqualificata l’originaria imputazione
ex art. 181, comma 1-bis, dello stesso d.lgs.), perché, nelle qualità sopraindicate,
realizzavano senza le prescritte autorizzazioni o in difformità dalle stesse, tali opere su
un immobile in area soggetta al vincolo ambientale ai sensi dell’art. 136 del d.lgs. n.
42 del 2004 e del decreto ministeriale 15 aprile 1958.
Il solo Montesi è stato ritenuto responsabile anche del reato di cui agli artt. 81,
secondo comma, e 481 cod. pen. (capo F dell’imputazione), perché, con più azioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di progettista delle
opere descritte al capo precedente, negli elaborati grafici allegati alla pratica edilizia
relativa al permesso di costruire, effettuava le seguenti false attestazioni: a)
raffigurava i prospetti privi di quote, con differenza sostanziale rispetto ai prospetti
allegati al piano di recupero; b) rappresentava i prospetti ovest con un dislivello pari a
metri 20,65, a fronte di un dislivello di metri 19,40 risultante dal piano di recupero; c)
riportava come esistente una colonna di quattro balconi, accompagnata dalla dicitura
“balconi già autorizzati”; d) non rappresentava 4 finestre e una tettoia esistenti,
mentre aggiungeva due finestre, una balconata continua, un balcone al piano
inferiore, un portone, tutti non rilevati nel piano di recupero; e) rappresentava come
prolungata la balconata già esistente al primo piano.
Con sentenza del 31 maggio 2012, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento
del ricorso del pubblico ministero: ha ritenuto sussistente, quanto al capo A), la sola
ipotesi di reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001; ha
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direttore dei lavori, nonché di socio di tale società, in totale difformità o assenza del

ritenuto sussistente, quanto al capo B), il delitto di cui all’articolo 181, comma

1-bis,

del d.lgs. n. 42 del 2004, per il particolare interesse pubblico dell’area su cui sorge il
manufatto; e ha rideterminato le pene in aumento, considerando tale ultimo reato
quale reato base, in quanto più grave in astratto. In accoglimento del ricorso
dell’imputato Montesi ha, inoltre, revocato, limitatamente alla sua posizione, la
subordinazione della riconosciuta sospensione condizionale della pena alla rimessione
in pristino dello stato dei luoghi.

per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rileva l’erronea applicazione degli
articoli 5 e 47 cod. pen., con riferimento alla ritenuta consapevolezza dell’imputato
circa l’illegittimità del permesso di costruire n. 9 del 2005 rilasciato dal Comune e
delle successive varianti, nonché delle autorizzazioni paesaggistiche aventi ad oggetto
i lavori di ristrutturazione edilizia. Si contestano, in particolare, gli assunti secondo cui
il permesso di costruire n. 9 del 2005 sarebbe un provvedimento di rango inferiore
rispetto alla convenzione originaria e, conseguentemente, non consentirebbe di
superare le previsioni contenute nel piano di recupero, risalente al 1997. Si contesta
altresì l’assunto secondo cui il fatto che il progetto allegato alla richiesta di permesso
di costruire del 2005 presentasse alcuni elementi differenziali rispetto all’originario
piano di recupero avrebbe imposto di richiedere una variante dello stesso. Lamenta, in
particolare, il ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe considerato il fatto che egli
non dispone di nozioni tecnico-giuridiche tali da consentirgli di cogliere la presunta
illegittimità degli atti amministrativi in questione; non trattandosi di profili di
illegittimità macroscopica.
2.2. – Si lamentano, in secondo luogo, la carenza e la manifesta illogicità della
motivazione, nonché la violazione di legge, in relazione all’esistenza di un vincolo
paesaggistico ex art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 sull’area
in cui sorge il manufatto. Rileva il ricorrente che la presenza di un tale vincolo non era
stata indicata neppure nelle autorizzazioni rilasciate dal Comune. Né si sarebbe
considerato che la violazione di tale vincolo è sanzionata solo nei casi previsti dall’art.
181, comma 1-bis, lettera b), cioè quando i lavori hanno comportato un aumento dei
manufatti superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento della medesima superiore a 750 m 3 , ovvero, ancora,
abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai 1000 m 3 ;
ipotesi che non si sarebbero verificate nel caso di specie.
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2. – Avverso la sentenza l’imputato Calcagni ha proposto personalmente ricorso

3. – La sentenza è stata impugnata anche dai difensori dell’imputato Calcagni.
3.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano l’inosservanza e l’erronea
applicazione dell’art. 5 della legge regionale n. 1 del 2001, 1, nonché dell’articolo
32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale e la mancanza
e manifesta illogicità della motivazione quanto alla necessità del piano di recupero alla
data di rilascio del permesso di costruire n. 9 del 2005. Non si sarebbe considerato, in
particolare, che il richiamato art. 5 della legge regionale n. 1 del 2011 ha eliminato
l’obbligo del piano di recupero per gli interventi da realizzarsi nel centro storico. Si
sostiene, altresì, che, in ogni caso, gli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ammessi con semplice permesso di costruire, a condizione che siano rispettati i
caratteri tipologici e formali originari e che non modifichino la destinazione d’uso;
destinazione che nel caso di specie non sarebbe incoerente con la classificazione della
zona A1, sussistendo un divieto di destinazione relativamente alle sole attività
artigianali, di distribuzione commerciale e agricole. Nel caso di specie, dunque,
l’intervento assentito con il permesso di costruire n. 9 del 2005, che aveva natura di
ristrutturazione edilizia e non aveva comportato un mutamento di destinazione d’uso,
non doveva ritenersi subordinato alla pianificazione attuativa.
3.2. – Con un secondo motivo di doglianza si rilevano l’erronea applicazione
dell’art. 8 della legge regionale n. 14 del 1984, dell’art. 7 della legge regionale n. 23
del 1997, dell’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, degli articoli 10.13.2 e
10.16.1 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, nonché la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Si lamenta, in particolare,
che la Corte d’appello avrebbe riconosciuto che il permesso di costruire non prevedeva
la trasformazione del sottotetto in volume abitabile ed avrebbe effettuato una
valutazione di fatto circa il mutamento di destinazione del sottotetto stesso, sul rilievo
della presenza di rifiniture e della presenza di terrazzini non previsti nel progetto. Non
si sarebbe considerato, in particolare, che, in forza delle disposizioni di legge regionale
sopra citate, vi è la possibilità, in sede di esecuzione di un piano attuativo, di
introdurre modifiche planovolumetriche senza alterazione delle caratteristiche
tipologiche di impostazione dello strumento attuativo e senza incidere sul
dimensionamento globale degli insediamenti e operare una diminuzione della
dotazione di aree per servizi pubblici di interesse pubblico generale. Né si sarebbe
considerato, secondo la difesa, che l’innalzamento delle linee di gronda e di colmo non
avrebbe inciso sull’altezza dell’edificio, visto che tale altezza si misurerebbe sino
all’intradosso del solaio di copertura dell’ultimo vano abitabile e non fino alla falda o al

colmo. Quanto all’affermazione secondo cui la rappresentazione dello stato di fatto
nelle tavole a corredo del permesso di costruire sarebbe difforme da quello
rappresentato nel piano di recupero, la difesa sostiene che nel capo d’imputazione non
si contesta di legittimità del titolo edilizio perché fondato su una falsa
rappresentazione dello stato di fatto, ma solo perché questo sarebbe stato rilasciato in
difformità dal piano di recupero quanto all’innalzamento del limite di gronda e di
colmo, alla modifica dell’andamento delle falde e alla destinazione d’uso residenziale

3.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si deducono la mancanza, la
contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione circa l’equiparazione tra
illegittimità del titolo e assenza di titolo edilizio. Tale equiparazione sarebbe, in
particolare, un’inammissibile ingerenza sull’attività amministrativa e, comunque, non
potrebbe mai portare a superare la presunzione di legittimità degli atti amministrativi;
con la conseguenza che mai potrebbe essere ritenuto sussistente l’elemento
psicologico della contravvenzione, quantomeno qualora la violazione delle norme
urbanistiche non fosse grossolana o macroscopica.
3.4. – Si contesta, con un quarto motivo di ricorso, la motivazione circa la
presenza di variazioni essenziali o in totale difformità e circa l’asserita realizzazione
del sottotetto in difformità dal permesso di costruire. La difesa evidenzia che, a
differenza dell’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 54 della legge regionale n. 12
del 2005 – che sarebbe, a suo dire, applicabile nella presente fattispecie – non dà
alcun rilievo, ai fini della qualificazione delle variazioni come essenziali o meno, alla
circostanza che l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico. Ne conseguirebbe sempre secondo la difesa – che le modifiche dell’altezza inferiore al metro non
potrebbero essere considerate quali variazioni essenziali. Quanto ai mutamenti della
destinazione d’uso – prosegue la difesa – questi configurano variazioni essenziali sono

del sottotetto.

nel caso in cui comportino una carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse
generale e l’interessato non provveda a reperire ulteriori aree necessarie ai sensi degli
artt. 54 e 51 della richiamata legge regionale n. 12 del 2005. Né sarebbero
configurabili, nel caso di specie, lavori eseguiti in totale difformità.
3.5. – Con un quinto motivo di doglianza, si deducono la mancanza, la
contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione della
norma incriminatrice e degli artt. 41 e 54 della legge regionale n. 12 del 2005, in
relazione alle singole opere asseritamente realizzate in difformità e, in particolare: ai
terrazzini al piano sottotetto, alla finestra sul fronte Nord e all’apertura trapezoidale al

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11’\\\

piano terra. Si lamenta, inoltre, che non si sarebbe tenuta in considerazione l’evidente
assenza dell’elemento psicologico.
3.6. – Il sesto motivo di impugnazione è riferito alla condanna per il capo B)
dell’imputazione. Si contesta, innanzitutto, la configurabilità di un vincolo
paesaggistico sull’area, perché la stessa si trovava in zona

Al in virtù del piano

regolatore generale. Si contesta, altresì, la ricostruzione interpretativa secondo cui i
beni individuati in base a decreti legittimamente emanati nella vigenza della legge n.
1497 del 1939 sarebbero a tutt’oggi ancora sottoposti a vincolo. E ciò perché il testo
unico n. 490 del 1999 doveva ritenersi meramente compilativo ed aveva, perciò,
creato una cesura tra il vecchio regime e quello attualmente vigente in forza dell’art.
146 del d.lgs. n. 42 del 2004. Se ne deduce – secondo la difesa – l’insussistenza sia
del vincolo di cui all’art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004, per la vicinanza dell’immobile al
lago, sia di quello derivante dal decreto ministeriale del 15 aprile 1958. Quanto, poi,
alle singole opere realizzate, queste non sarebbero difformi dal permesso di costruire
rilasciato, neanche ai fini paesaggistici.
3.7. – Con un settimo motivo di doglianza, si denunciano la mancanza, la
contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione nonché la violazione delle
disposizioni incriminatrici quanto alla sussistenza del dolo relativamente al reato di cui
all’art. 181, comma

1 bis, del d.lgs. n. 42 del 2004. Tale ultima disposizione si

applicava – secondo la difesa – nella sua versione vigente al momento dei fatti – che
risalgono, sempre secondo la difesa, al 19 aprile 2005 – esclusivamente con
riferimento agli immobili dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato sulla base della nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 42
del 2004 e non con provvedimenti emanati sulla base della disciplina previgente.
Mancherebbe, inoltre, una motivazione circa la sussistenza del dolo del reato in
capo all’imputato Calcagni.
3.8. – Proprio sul profilo del dolo si incentra l’ottavo motivo di ricorso, con cui si
prospettano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della
motivazione, perché non si sarebbe considerato che Calcagni: aveva agito sul
presupposto della sussistenza di validi ed efficaci titoli costituiti dalle autorizzazioni
ambientali e della concessione edilizia, non aveva predisposto gli elaborati contestati
come falsi, non aveva mai presentato richieste di concessione in sanatoria ma solo
varianti in corso d’opera, aveva sempre indicato come non abitabile il piano sottotetto,
era stato rassicurato dal progettista e dagli altri tecnici circa la piena legittimità del
progetto e delle varianti.

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3.9. – In via subordinata, si rilevano l’erronea applicazione dell’art. 165 cod.
pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto
alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimessione in
pristino. Non si sarebbe precisato, in particolare, cosa dovesse intendersi per “pristino
stato” né quali interventi dovessero, in concreto, essere eseguiti. Né si sarebbe
adeguatamente risposto all’obiezione difensiva secondo cui la potestà di intervenire
sul manufatto è di esclusiva competenza della società committente, soggetto giuridico
autonomo e diverso dalla persona fisica del condannato; con la conseguenza che
l’eventuale inottemperanza dalla società avrebbe esposto l’incolpevole imputato, suo
malgrado, alla privazione della libertà personale.
4. – La sentenza è stata impugnata, tramite i difensori, anche dall’imputato
Montesi, il quale propone, fra gli altri, motivi di ricorso analoghi a quelli proposti dal
coimputato circa la vigenza del piano di recupero e circa la configurabilità del vincolo
paesaggistico.
4.1. – Quanto alla pretesa partecipazione dell’imputato all’attività di
progettazione e di realizzazione dei lavori avente ad oggetto i terrazzini e la
destinazione residenziale del sottotetto, si deducono il travisamento del fatto e la
violazione dell’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005. Rileva, in particolare, la
difesa che l’imputato aveva predisposto la variante che prevedeva la realizzazione di
terrazzini, ma tale variante non aveva avuto alcun effetto perché non era stata
approvata e, dunque, non aveva nulla a che vedere con la ristrutturazione edilizia per
destinare a residenza la ex filanda. Non si sarebbe considerato, in particolare, che,
quanto alla posizione del progettista non rileva lo stato di realizzazione delle opere,
ma il solo contributo in sede progettuale, senza che i giudici abbiano indicato in quali
elaborati grafici a firma dell’imputato risultasse una destinazione abitativa del locale
sottotetto.
4.2. – Si deducono anche la violazione e la falsa applicazione dell’art. 481 cod.
pen., perché non si sarebbe considerato che le relazioni tecniche e le tavole
progettuali allegate alla richiesta del permesso di costruire non hanno valore
probante, tanto che la pubblica amministrazione è tenuta a verificarne la veridicità;
con la conseguenza che la condotta del progettista sarebbe inidonea a ingannare la
pubblica amministrazione. Quest’ultima, del resto, avrebbe potuto facilmente
verificare la difformità fra gli elaborati redatti dall’imputato e il piano di recupero.

4.3. – Si rileva, infine, l’intervenuta prescrizione dei reati contestati, con
particolare riferimento al reato di cui all’art. 481 cod. pen., perché si sarebbe
consumato prima del rilascio del permesso di costruire n. 9 del 14 aprile 2005.
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. – I ricorsi di Calcagni Franco Maria sono infondati.
5.1. – Il motivo di doglianza sub 3.1. ha carattere pregiudiziale, perché con
esso si sostiene, in sostanza che – in forza dell’art. 5 della legge regionale n. 1 del

generale – non vi è necessità di piano di recupero per interventi quali quelli realizzati
nel caso di specie.
Tale ricostruzione non è condivisibile, anche a prescindere dall’ulteriore
considerazione che – come si vedrà – le opere oggetto dell’imputazione sono
comunque illegittime perché configurano variazioni essenziali ai sensi dell’art. 31 del
d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto creano un organismo edilizio integralmente diverso
per utilizzazione e per caratteristiche planovolumetriche e tipologiche.
Come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello, il piano di recupero è
uno strumento urbanistico dotato di efficacia giuridica equivalente al piano
particolareggiato, dal quale si differenzia perché è finalizzato non tanto alla
complessiva trasformazione del territorio, quanto al recupero del patrimonio ediliziourbanistico esistente, con interventi rivolti alla conservazione, alla ricostruzione e alla
migliore utilizzazione del patrimonio stesso. Il piano di recupero, inoltre, è
gerarchicamente subordinato al piano regolatore e al programma di fabbricazione.
Nella specie, il piano era stato adottato con delibera n. 33 del 30 novembre 1996, che
aveva mutato in residenziale l’originaria destinazione all’attività produttiva
dell’edificio, a condizione che l’altezza, la sagoma e la consistenza planovolumetrica
dell’originario edificio restassero inalterate. Al piano era seguita la convenzione
attuativa stipulata il 9 ottobre 1997, che prevedeva una serie di oneri a carico della
parte, quali la cessione a titolo gratuito di alcune aree, la realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria, l’assunzione degli oneri di urbanizzazione secondaria. Per tali
opere dovevano essere presentati progetti esecutivi al fine di del rilascio del permesso
di costruire.
Tale essendo la situazione di fatto descritta in sentenza, deve rilevarsi che le
modifiche della normativa e della pianificazione generale richiamate dal ricorrente – e,
in particolare l’art. 5 della legge della Regione Lombardia n. 1 del 2001 e l’art. 32.4.4
delle norme tecniche attuative di cui alla variante al piano regolatore generale

2001, nonché dell’art. 32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore

adottata il 25 gennaio 2003 – non fanno venire meno la necessità del piano di
recupero, perché si riferiscono evidentemente alle attività edilizie che si svolgeranno a
partire dalla loro entrata in vigore. Del resto – come correttamente evidenziato dalla
Corte d’appello – diversamente opinando, la società dell’imputato avrebbe dovuto
richiedere nuovamente al Comune l’approvazione del mutamento di destinazione della
filanda, posto che quello autorizzato con il piano di recupero aveva perso efficacia.
Venendo più specificatamente all’interpretazione del richiamato art. 5 della

rileva – che il piano regolatore generale individuasse gli ambiti e le tipologie di
intervento soggetti a preventivo piano attuativo, nonché le zone di recupero. Tale
previsione deve essere interpretata nel senso che essa non fa venire meno la
disciplina previgente e, dunque, mantiene inalterata l’efficacia di atti amministrativi
precedentemente adottati, anche perché si riferisce a un meccanismo, quello del piano
attuativo, in tutto per tutto assimilabile a quello adottato nel caso di specie. Coerente
con tale previsione è il richiamato art. 32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del
piano regolatore, secondo cui vi è la possibilità di fare ricorso alla concessione edilizia
convenzionata proprio nei casi – come quello di specie – in cui l’intervento di
ristrutturazione comporti anche mutamenti di destinazione d’uso.
Se ne conclude che la difformità degli interventi realizzati rispetto al piano di
recupero assume in ogni caso rilevanza penale. A tale considerazione deve
aggiungersi peraltro – come già anticipato e come si vedrà più dettagliatamente nel
prosieguo – che, anche a prescindere da tali considerazioni il permesso di costruire in
base al quale le opere sono state realizzate è comunque illegittimo, perché è frutto di
una falsa rappresentazione della consistenza dell’immobile posta in essere dal
progettista.
Ne deriva l’infondatezza del motivo di ricorso.
5.2. – Il motivo di doglianza sub 3.2. è anch’esso infondato.
Infatti, le disposizioni di legge e la normativa tecnica richiamate dalla difesa
ricorrente (art. 8 della legge regionale n. 14 del 1984, art. 7 della legge regionale n.
23 del 1997, art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, artt. 10.13.2 e 10.16.1 delle
norme tecniche di attuazione del piano regolatore), sono invocate in riferimento
all’ipotesi, evidentemente diversa da quella in esame, in cui non vi sia una modifica
nel dimensionamento dell’insediamento, perché consentono, limitatamente a tale
ipotesi, la possibilità di introdurre variazioni planovolumetriche.

legge regionale n. 1 del 2001, va premesso che esso prevedeva – per quanto qui

Come bene evidenziato dalla Corte d’appello, nel caso di specie vi sono state
modifiche della falda delle linee di gronda che hanno inciso sull’altezza dell’edificio e
hanno comportato una modifica della capacità insediativa, per la creazione ex novo di
un sottotetto a destinazione residenziale. Le argomentazioni difensive si fondano, del
resto, sul falso presupposto che, mancando l’altezza minima prevista dalle norme
igienico-sanitarie per rendere il sottotetto abitabile, questo non potrebbe comunque
considerarsi abitabile e non sarebbe dunque dotato di destinazione residenziale. La
falsità di tale presupposto è evidente; ciò che conta non è infatti che l’altezza
realizzata sia inferiore a quella minima prevista per i locali abitabili, ma che il
sottotetto sia stato realizzato per essere destinata in concreto a fini abitativi, pur
essendo privo dell’altezza regolamentare. E tale illegittima destinazione emerge sia
dalla circostanza che lo stesso sottotetto è stato posto in commercio come abitativo
sia dall’ulteriore considerazione che esso è dotato di terrazzini in falda sul lato
prospiciente al lago, la cui presenza è evidentemente incompatibile con la destinazione
al deposito di materiale di cantiere o a ripostiglio prospettata dalla difesa. Si tratta
infatti – come evidenziato dai giudici di primo e secondo grado – di terrazzini dotati di
impermeabilizzazione e muniti di pluviale, rifiniti con le caratteristiche tipiche degli
esterni degli immobili residenziali.
Quanto alla specifica censura secondo cui l’innalzamento delle linee di gronda e
di colmo non avrebbe inciso sull’altezza dell’edificio, visto che tale altezza si
misurerebbe sino all’intradosso del solaio di copertura dell’ultimo vano abitabile e non
fino alla falda o al colmo, è sufficiente qui osservare che la stessa prende le mosse da
un presupposto di fatto che si pone in contrasto con l’analitica valutazione delle
risultanze istruttorie operata dalla Corte d’appello. È infatti proprio il sottotetto
abusivamente realizzato l’ultimo vano abitabile dell’edificio rispetto al quale l’altezza
dell’edificio stesso deve essere misurata, anche seguendo il criterio richiamato dalla
difesa; con l’evidente conseguenza che, nel caso di specie, si è realizzato un abusivo
incremento dell’altezza stessa.
Le considerazioni già svolte sub 5.1 circa la necessità nel caso di specie del
piano di recupero rendono irrilevante l’ulteriore considerazione difensiva relativa al
fatto che il titolo edilizio sarebbe illegittimo, secondo quanto riportato
nell’imputazione, solo perché in contrasto con detto piano di recupero. Infatti, anche a
prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità – di cui si dirà – il contrasto con il piano
di recupero è di per sé ampiamente sufficiente a rendere illegittimo il titolo edilizio in
questione.

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5.3. – Il motivo di doglianza sub 3.3. è, invece, inammissibile per manifesta
infondatezza.
La difesa muove, infatti, da un presupposto puntualmente smentito nella
motivazione della sentenza impugnata, laddove si evidenzia che l’illegittimità del
permesso di costruire è, nel caso di specie, macroscopica ed induce a ritenere
sussistente con certezza il reato anche sotto il profilo soggettivo.

E ciò, perché il

ottenuto sulla base di una falsa rappresentazione della consistenza iniziale
dell’immobile; c) è stato comunque violato, quanto meno attraverso la destinazione
d’uso residenziale del piano sottotetto, che non era prevista né dal piano di recupero,
né dallo stesso permesso di costruire.
I riferimenti al superamento della presunzione di legittimità degli atti
amministrativi – anche a prescindere dalla loro correttezza sul piano giuridico risultano, dunque ultronei, in presenza di violazioni consapevoli e macroscopiche della
legge, del piano di recupero, del titolo abilitativo.
5.4. – Il motivo di ricorso sopra riportato sub 3.4. – con cui si contesta la
motivazione della sentenza circa la presenza di variazioni essenziali o in totale
difformità e circa l’asserita realizzazione del sottotetto in difformità dal permesso di
costruire – è infondato.
La difesa sostiene, in particolare, che, a differenza dell’art. 32 del d.P.R. n. 380
del 2001, l’art. 54 della legge regionale n. 12 del 2005 – che sarebbe, a suo dire,
applicabile nella presente fattispecie – non dà alcun rilievo, ai fini della qualificazione
delle variazioni come essenziali o meno, alla circostanza che l’area sia assoggettata a
vincolo paesaggistico. Ne conseguirebbe – sempre secondo la difesa – che le
modifiche dell’altezza inferiore al metro non potrebbero essere considerate quali
variazioni essenziali.

permesso di costruire: a) si pone in contrasto con il piano di recupero; b) è stato

Deve richiamarsi, anche su questo punto, l’analitica motivazione fornita dalla
Corte d’appello, la quale ribadisce che, nel caso di specie, il permesso di costruire non
prevedeva la trasformazione del sottotetto in volume abitabile. In punto di diritto, la
stessa Corte evidenzia, poi che l’articolo 31, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001
assimila agli interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire
l’esecuzione di volumi edilizie oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un
organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
realizzabile. Correttamente la stessa Corte distrettuale ritiene che nel caso di specie vi
sia stata una trasformazione sostanziale dell’originaria costruzione tale da
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interrompere il nesso di riferibilità all’originario progetto autorizzato dell’immobile
concretamente realizzato; con la conseguenza che non possono trovare applicazione
né l’ipotesi meno grave di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 44 del d.P.R. n. 380
del 2001, né la previsione dell’art. 54 della legge regionale n. 12 del 2005 richiamata
dalla difesa. E ciò, a prescindere dall’ulteriore considerazione che, nel caso di specie,
le opere sono state realizzate in presenza di vincolo paesaggistico, tanto che trova
applicazione anche l’art. 32, comma 3, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, a norma

eseguiti in difformità solamente parziale, si considerano come variazioni essenziali e,
quindi, in difformità totale (sez. 3, 17 febbraio 2010, n. 16392, rv. 246960; in senso
analogo, sez. 3, 22 settembre 2011, n. 36095, rv. 251263).
5.5. – Anche il motivo di doglianza sub 3.5. è infondato.
Con esso, si deducono, infatti, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta
illogicità della motivazione, nonché la violazione della norma incriminatrice e degli
artt. 41 e 54 della legge regionale n. 12 del 2005, in relazione alle singole opere
asseritamente realizzate in difformità e, in particolare: ai terrazzini al piano sottotetto,
alla finestra sul fronte nord e all’apertura trapezoidale al piano terra.
Ai rilievi già svolti circa l’evidente difformità di tali opere dal piano di recupero
può qui aggiungersi ch2f/a Corte d’appello motivatamente osserva che, sotto l’aspetto
soggettivo, vi era piena consapevolezza del mutamento di destinazione degli alloggi,
anche per l’evidente sproporzione tra gli spazi destinati ad uso appropriatamente
residenziale e quelli indicati come accessori (e in realtà abusivamente destinati
anch’essi all’uso residenziale). Quanto alle finestre illecitamente realizzate, è
sufficiente osservare che le stesse sono riconducibili alla falsa rappresentazione dello
stato dei luoghi di cui al capo F), n. 11) dell’imputazione.
Tali considerazioni rendono evidentemente sussistente secondo la Corte
d’appello – come già visto – l’elemento psicologico del dolo in capo all’imputato
Calcagni.
5.6. –

I motivi di ricorso sub 3.6., 3.7. e 2.2. possono essere trattati

congiuntamente, perché attengono alla configurabilità del vincolo paesaggistico
sull’area.
La prospettazione difensiva si basa su un duplice ordine di considerazioni,
variamente circostanziate e argomentate: a) il decreto ministeriale 15 aprile 1958,
con il quale era stato dichiarato il notevole interesse pubblico dell’area non può
costituire il fondamento normativo per la sussistenza del reato di cui all’art. 181,

del quale tutti gli interventi realizzati in presenza di un tale vincolo, inclusi quelli

comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, perché tale ultima disposizione si riferisce solo
alla violazione dei vincoli posti successivamente alla sua entrata in vigore; b) la
violazione di tale vincolo è sanzionata solo nei casi previsti dall’art. 181, comma 1-bis,
lettera b), cioè quando i lavori hanno comportato un aumento dei manufatti superiore
al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento
della medesima superiore a 750 m 3 , ovvero, ancora, abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai 1000 m 3 ; ipotesi che non si sarebbero
verificate nel caso di specie.
Entrambi tali assunti sono infondati.
Quanto al primo, è sufficiente rilevare che il dato testuale e il complesso del
sistema di tutela approntato dal d.lgs. n. 42 del 2004 inducono a ritenere che i beni
inseriti negli elenchi compilati ai sensi della legge n. 1497 del 1939 sono tuttora
sottoposti a vincolo paesaggistico, senza alcuna soluzione di continuità rispetto ai
regimi previgenti (ex multis, sez. 3, 18 maggio 2011, n. 35728, rv. 251233; sez. 3,
15 luglio 2011, n. 30551, rv. 251258). Ne consegue l’irrilevanza, a tal fine, delle
considerazioni difensive circa il regime applicabile ratione temporis al caso di specie.
Quanto all’assunto appena sopra riportato sub b) è sufficiente osservare che
l’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. 42 del 2004 sanziona ogni violazione del
vincolo risultante da un provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico,
senza richiedere il superamento di alcun limite volumetrico. I limiti volumetrici cui fa
riferimento il ricorrente, previsti dalla successiva lettera

b) dello stesso art. 181,

comma 1-bis, sono invece presi in considerazione nella diversa ipotesi della violazione
del vincolo ex art. 142 dello stesso d.lgs.
Quanto alla motivazione circa la difformità delle opere realizzate e circa la
configurabilità del dolo quanto alla violazione del vincolo paesaggistico – oggetto di
specifica critica da parte del ricorrente – è sufficiente qui osservare che si tratta di

,

profili che la Corte d’appello ha ritenuto ampiamente accertati, per le stesse ragioni
già evidenziate ai punti 5.3., 5.4., 5.5.
5.7. – Analoghe ragioni inducono a ritenere infondato anche il motivo sub 3.8.,
con cui si prospettano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della
motivazione, perché non si sarebbe considerato, al fine di escludere la configurabilità
del dolo, che Calcagni: aveva agito sul presupposto della sussistenza di validi ed
efficaci titoli costituiti dalle autorizzazioni ambientali e dalla concessione edilizia, non
aveva predisposto gli elaborati contestati come falsi, non aveva mai presentato

richieste di concessione in sanatoria ma solo varianti in corso d’opera, aveva sempreA s\
13

indicato come non abitabile il piano sottotetto, era stato rassicurato dal progettista e
dagli altri tecnici circa la piena legittimità degli atti.
Del tutto corretta e coerente risulta, sul punto, la motivazione della sentenza
impugnata, laddove desume l’assoluta intenzionalità delle condotte illecite contestate
a entrambi gli imputati sulla base di elementi correttamente ritenuti univoci e
concordanti quali: la falsa rappresentazione dello stato di fatto nella richiesta del
permesso di costruire e il macroscopico contrasto fra le opere realizzate, da un lato, e

5.8. – Le considerazioni che precedono inducono, nel loro complesso, a ritenere
infondato anche il motivo sopra riportato sub 2.1.
Con esso ci si riferisce, infatti, sostanzialmente alla motivazione della sentenza
impugnata circa la consapevolezza dell’imputato relativamente all’illegittimità del
permesso di costruire n. 9 del 2005 e delle successive varianti, nonché delle
autorizzazioni paesaggistiche; ci si riferisce inoltre alla pretesa mancanza di nozioni
tecnico-giuridiche in capo all’imputato. Censure entrambe esaminate e disattese da
questa Corte sub 5.3. e 5.7.
Quanto alla contestazione relativa al fatto che il permesso di costruire n. 9 del
2005 sarebbe stato ritenuto illegittimamente un provvedimento di rango inferiore
rispetto alla convenzione originaria e, conseguentemente, non avrebbe consentito di
superare le previsioni contenute nel piano di recupero, risalente al 1997, vanno qui
richiamate le considerazioni già svolte sub 5.1. circa la necessità, nel caso di specie,
del pieno rispetto del piano di recupero.
5.9. – Infondato è anche il motivo sub 3.9., formulato in via subordinata, con
cui si rilevano l’erronea applicazione dell’art. 165 cod. pen. e la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla subordinazione
della sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino.

il piano di recupero e il permesso di costruire, dall’altro.

Quanto alla mancata precisazione di cosa dovesse intendersi per “pristino stato”
e di quali interventi dovessero, in concreto, essere eseguiti, lamentata dalla difesa, va
rilevato che la sentenza impugnata reca sul punto una motivazione pienamente
sufficiente e logicamente coerente.
La Corte d’appello evidenzia, infatti, che lo stato di fatto pregresso è
cristallizzato nel piano di recupero e che l’eliminazione di tutte le illecite modifiche
all’edificio preesistente garantisce di per sé anche il ripristino della destinazione non
abitativa del sottotetto. Infondato è anche il rilievo difensivo secondo cui la potestà di

intervenire sul manufatto è di esclusiva competenza della società committente,Ai\

soggetto giuridico autonomo e diverso dalla persona fisica del condannato; con la
conseguenza che l’eventuale inottemperanza della società avrebbe esposto
l’incolpevole imputato, suo malgrado, alla privazione della libertà personale.
La Corte d’appello evidenzia, infatti, che sussiste un rapporto diretto del
soggetto condannato con il bene oggetto del ripristino ex art. 181, comma 2, del
d.lgs. n. 42 del 2004, essendo il condannato il legale rappresentante della società
proprietaria del bene. Del resto, anche la persona giuridica alla quale appartengono le
opere illegittimamente realizzate da chi all’epoca ne era legale rappresentante e nei
confronti del quale sia stata pronunciata condanna può essere tenuta alla riduzione in
pristino (ex plurimis, sez. 3, 21 ottobre 2009, n. 47281, rv. 245403; sez. 3, 4 febbraio
2000, n. 3679).
6. – Il ricorso di Montesi Alberto è fondato limitatamente all’intervenuta
prescrizione del reato di cui al capo F) e infondato quanto al resto.
Come anticipato, alcuni dei motivi proposti sono sovrapponibili a quelli contenuti
nei ricorsi presentati nell’interesse del coimputato; su tali doglianze valgono le
considerazioni sopra svolte ai punti 5. e seguenti.
6.1. – Venendo agli altri, deve rilevarsi che il motivo riportato sub 4.1. è
infondato.
Afferma, in particolare, la difesa che l’imputato aveva predisposto la variante
che prevedeva la realizzazione dei terrazzini, ma tale variante non aveva avuto alcun
effetto perché non era stata approvata e, dunque, non aveva nulla a che vedere con la
ristrutturazione edilizia per destinare a residenza la ex filanda.
Trattasi di considerazioni all’evidenza inconferenti con l’oggetto delle
imputazioni, che sono riferite non alle varianti, ma alla difformità delle opere
realizzate dal piano di recupero e, in parte, dallo stesso permesso di costruire, nonché
alle false attestazioni effettuate al fine dell’ottenimento di detto permesso.
Manifestamente erroneo è poi l’assunto difensivo secondo cui, quanto alla
posizione del progettista non rileverebbe lo stato di realizzazione delle opere, ma il
solo contributo in sede progettuale.
È infatti proprio il contributo dato dall’imputato in sede progettuale ad essere
oggetto della dettagliata contestazione

ex art. 481 cod. pen., cui conseguono

logicamente la violazione del piano di recupero e del vincolo paesaggistico, contestate
ai capi A) e B). Ed è ovvio che la diversa destinazione abitativa del locale sottotetto
non risulti dagli elaborati grafici falsamente predisposti dall’imputato, perché il
mutamento di destinazione in questione è la necessaria conseguenza, sul piano

fattuale, dell’abusiva realizzazione del sottotetto, dei terrazzi e delle finestre che
l’imputato aveva, appunto, inteso occultare tramite gli elaborati grafici da lui
predisposti.
6.2. – Infondato è il motivo sub 4.2., con cui si sostiene che le relazioni
tecniche e le tavole progettuali allegate alla richiesta di permesso di costruire non
hanno valore probante, tanto che la pubblica amministrazione è tenuta a verificarne la
veridicità; con la conseguenza che la condotta del progettista sarebbe inidonea a

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, integra il delitto di falsità
ideologica in certificati la presentazione a corredo della richiesta del permesso di
costruire di una planimetria falsamente descrittiva dello stato dei luoghi, di cui
rispondono sia il professionista, che ha redatto la planimetria, che il committente che
ha allegato la stessa alla richiesta del permesso di costruire (ex multis, sez. 3, 23
giugno 2009, n. 30401, rv. 244588; sez. 5, 21 marzo 2006, n. 15860, rv. 234601).
6.3. – Fondato è, invece, il motivo di ricorso sub 4.3., relativo alla prescrizione
del reato di cui all’art. 481 cod. pen., con cui si evidenzia che lo stesso si sarebbe
consumato prima del rilascio del permesso di costruire in data 19 aprile 2005.
La prescrizione deve, infatti, ritenersi già maturata alla data della pronuncia
della presente sentenza, trovando applicazione il termine complessivo di 7 anni e 6
mesi previsto dagli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., anche
tenuto conto delle cause di sospensione nel frattempo intervenute. All’estinzione del
reato per prescrizione consegue l’eliminazione dell’aumento di pena applicato sulla
pena base, in ragione di giorni 15 di reclusione.
7. – La sentenza impugnata deve essere dunque annullata limitatamente al
reato di cui al capo F) dell’imputazione ascritto a Montesi Alberto, perché estinto per
prescrizione, con conseguente eliminazione della relativa pena di giorni 15 di
reclusione. Il ricorso di Montesi Alberto deve essere rigettato nel resto. Il ricorso di
Calcagni Franco Maria deve essere rigettato, con condanna al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo
F) dell’imputazione ascritto a Montesi Alberto, perché estinto per prescrizione, ed
elimina la relativa pena di giorni 15 di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso di Montesi
Alberto. Rigetta il ricorso di Calcagni Franco Maria e lo condanna al pagamento delle
spese processuali.

configurare il reato di cui all’art. 481 cod. pen.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2013.

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