Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 955 del 07/10/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 955 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Borgese Silvio, nato a Cleto, il 27/01/1934
avverso la sentenza del 25/06/2012 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paolo
Canevelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente

Data Udienza: 07/10/2014

RITENUTO IN FATTO

1. E’ impugnata la sentenza con la quale la Corte di appello di Roma ha
confermato quella resa dal Tribunale della medesima città che aveva condannato
Silvio Borgese alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di reclusione
ed euro 600,00 di multa per il reato continuato di omesso versamento all’INPS
delle ritenute operate nei confronti dei lavoratori dipendenti (art. 2 D.L. 12
settembre 1983, n. 463 convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638 dal

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, a
mezzo del difensore, Silvio Borgese affidando il gravame ad un unico complesso
motivo con il quale deduce la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost., dell’art.
125, comma 3, cod. proc. pen. nonché della norma risultante dal combinato
disposto di cui agli artt. 546, comma 1, lett. e) e 605, comma 1, cod. proc. pen.
(art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.) ed inoltre mancanza ed illogicità
della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato (art. 606,
comma 1, lett. e) cod. proc. pen.).
Assume il ricorrente che aveva mosso alla Corte territoriale la doglianza
circa la insufficiente ed erronea motivazione del primo giudice in ordine alla
ritenuta prova della colpevolezza sul presupposto della presentazione all’Inps dei
modelli DM\10 da parte del ricorrente.
In particolare, il ricorrente si doleva del fatto che la pura e semplice
presentazione da parte del datore di lavoro all’Inps deli modelli DM\10 non
poteva equivalere a prova di aver effettivamente operato le retribuzioni nei
confronto dei lavoratori dipendenti.
La Corte territoriale, invece di rispondere alla doglianza, ha ripetuto
pedissequamente la motivazione del Tribunale incorrendo nel vizio di omessa
motivazione, con conseguente nullità della sentenza impugnata, sul rilievo che,
pur possibile la motivazione per relationem, il giudice dell’impugnazione, a fronte
di una specifica doglianza, ha l’obbligo di fornire un motivazione adeguata non
potendo argomentare sull’inconsistenza e non pertinenza della censura
riproducendo la motivazione del primo giudice.
Qualora la doglianza non dovesse essere accolta, il ricorrente lamenta
nuovamente il vizio di difetto di motivazione su un punto decisivo per il giudizio
ossia sul fatto che la mera presentazione da parte del datore di lavoro all’Inps
deli modelli DM\10 non poteva equivalere a prova di aver effettivamente operato
le retribuzioni nei confronto dei lavoratori dipendenti.

2

gennaio all’aprile 2005).

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza del motivo proposto.

2. Il ricorrente lamentava che il Tribunale avesse affermato la penale
responsabilità per il reato di omesso versamento all’Inps delle ritenute operate
nei confronti dei lavoratori dipendenti sulla base della presentazione del modello
DM 10.
La Corte di appello ha risposto nel senso che “dai modelli DM 10, in quanto
provenienti dalla stessa azienda, si deduce la corresponsione della retribuzione ai
dipendenti, nulla in contrario avendo l’imputato provato”.
La ratio decidendi,

per quanto sintetica, è adeguata al rilievo mosso

dall’impugnante al fine di disattenderlo.
Il principio di diritto ricordato dal ricorrente in materia di obbligo
motivazionale del giudice dell’impugnazione è corretto e ampiamente
condivisibile ma esso deve essere parametrato, per evitare che sia assoggettato
ad improprie generalizzazioni, alla natura e al contenuto della doglianza per
verificare se, nel caso concreto, il giudice dell’impugnazione abbia, con lo sforzo
motivazionale che gli è richiesto, preso in carico la censura e risposto
esaurientemente al motivo di gravame proposto.
Peraltro, nella fattispecie, l’apparato argomentativo, per quanto stringato,
non riproduce e neppure richiama la motivazione del primo giudice a
dimostrazione che la Corte distrettuale ha preso cognizione del contenuto della
censura e l’ha disattesa.
Nel fare ciò, il Giudice d’appello si è attenuto al principio di diritto più volte
ribadito da questa Corte secondo il quale, in materia di omesso versamento delle
ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro, l’onere
incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle
retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la produzione del modello DM
10, con la conseguenza che grava sull’imputato il compito di provare, in
difformità dalla situazione rappresentata nelle denunce retributive inoltrate,
l’assenza del materiale esborso delle somme (Sez. 3, n. 7772 del 05/12/2013,
dep. 19/02/2014, Di Gianvito, Rv. 258851).
In continuità con tale orientamento, è stato recentemente precisato che, in
presenza di prove dichiarative di segno contrario rispetto a quanto contenuto nei
modelli DM 10 (ossia in controtendenza rispetto a quanto lo stesso datore di
lavoro abbia dichiarato con la presentazione dei predetti modelli), secondo le
quali le retribuzioni ai dipendenti non siano state corrisposte, la presentazione da
parte del datore di lavoro degli appositi modelli attestanti le retribuzioni
corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale

3

non può essere valutata come prova piena della effettiva corresponsione delle
retribuzioni stesse (Sez. 3, n. 37330 del 15/07/2014, Valenza, Rv. 259909).
Ne consegue che correttamente la Corte di appello ha motivato nel senso
che l’imputato nulla in contrario ha provato sicché anche il secondo aspetto della
doglianza formulata dal ricorrente è manifestamente infondato.

3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il
ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il

procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13
giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso
sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via
equitativa, di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso il 07/10/2014

ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del

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