Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 950 del 07/10/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 950 Anno 2015
Presidente: TERESI ALFREDO
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Omacini Gottardo, nato a Alzano Lombardo, il 13/09/1935
avverso la sentenza del 31/01/2012 del Tribunale di Vigevano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paolo
Canevelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente

Data Udienza: 07/10/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Il tribunale di Vigevano, con la sentenza in epigrafe, ha condannato
Gottardo Omacini alla pena di 1.500,00 euro di ammenda per il reato (capo a)
previsto dall’art. 727 cod. pen. perché, avendo imbracato quattro allodole e
strattonando la fune che tratteneva gli animali in modo che si alzassero in volo e
così agissero da richiami, per poi ricadere a terra per effetto della fune, deteneva
le quattro allodole in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di

11 febbraio 1992, n. 157 perché abbatteva tre esemplari di pispola, esemplare di
fauna selvatica di cui non è consentita la caccia, appartenente a specie
particolarmente protetta. In Langosco il 18 ottobre 2009.

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, ricorre per cassazione, a
mezzo del difensore, Gottardo Omacini affidando il gravame a due motivi con i
quali deduce:
1) l’erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 727 e 51
cod. pen. nonché 21 lett. r) legge 11 febbraio 1992, n. 157, e l’illogicità della
motivazione (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) non avendo il
Tribunale considerato che il comportamento venatorio di utilizzare come richiami
nell’esercizio della caccia degli uccelli imbracati e legati con una cordicella, alla
quale venga impresso uno strattone che li faccia sollevare in volo e poi ricadere,
è una pratica venatoria consentita dalla legge n. 157 del 1992, che all’art. 21
lett. r) vieta in modo assoluto soltanto l’uso di richiami vivi accecati o mutilati
ovvero legati per le ali.
Secondo il ricorrente, non può perciò integrare gli estremi del reato di
maltrattamento di animali, anche se idoneo a cagionare sofferenza agli stessi,
l’utilizzo di richiami legati per il corpo, quale quelli utilizzati dall’imputato, perché
il fatto è scriminato dall’art. 51 cod. pen., costituendo l’esercizio di un diritto.
Ovviamente l’esimente non ricorre se la pratica venatoria sia connotata da
concrete modalità di attuazione tali da comportare crudeltà, fatica eccessiva che
danneggino lo stato di salute dell’animale o comunque un aggravamento delle
sofferenze che non siano necessarie dalle esigenze della caccia;
2) l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 30 lett. h)
legge 11 febbraio 1992, n. 157, e l’illogicità della motivazione (art. 606, comma
1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) sul rilievo che il comportamento dell’imputato
doveva essere considerato lecito perché nella zona non vigeva il divieto assoluto
di caccia, essendola caccia era consentita sia pure con maggiori limitazioni.

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gravi sofferenze nonché per il reato (capo b) previsto dall’art. 30 lett. h) legge

Sostiene il ricorrente come, sul punto, sia stato chiaro il testimone assunto a
dibattimento che ha spiegato che soltanto nella ZPS la caccia alla pispola era
vietata nonostante la regione Lombardia l’avesse consentita.
Nessun addebito può essere allora ravvisato nel comportamento
dell’imputato che si trovava in un territorio ove la caccia era possibile e che
riteneva di essere autorizzato all’abbattimento in forza di una legge regionale in
vigore.

1. Il ricorso è infondato.

2. Quanto al primo motivo, va segnalato come, sulla questione che è stata
posta con il ricorso, si registrino indirizzi non univoci in seno alla giurisprudenza
di questa Corte.
2.1. Secondo un primo orientamento, citato anche dal ricorrente a sostegno
della propria tesi, allorquando il reato di maltrattamento di animali viene in
evidenza con riferimento a comportamenti che costituiscono l’esercizio di
pratiche venatorie, occorre tener conto, oltre che della norma di cui all’art. 727
cod. pen., come modificato dalla legge 22 novembre 1993, n.473, anche delle
disposizioni che regolano l’esercizio della caccia, di cui alla legge 11 febbraio
1992 n. 157. E ciò non perché le norme della predetta legge si pongano in
rapporto di specialità con le norme del codice penale, dato che è diversa la loro
oggettività giuridica, ma perché un comportamento venatorio che è consentito
dalla predetta legge n.157 del 1992, ed è quindi considerato lecito, non può
integrare gli estremi del reato di maltrattamento di animali, anche se idoneo a
cagionare sofferenze agli animali stessi. Infatti, per la scelta non manifestamente
irragionevole operata dal legislatore, è stato ritenuto prevalente l’interesse a
garantire l’esercizio della caccia, per cui una pratica venatoria che è consentita
dalla legge 11 febbraio 1992 n.157 non può essere punita a norma dell’art. 727
cod. pen. perché il fatto è scriminato dall’art. 51 cod. pen., costituendo
l’esercizio di un diritto. Ovviamente non ricorre una tale esimente nel caso in cui
la pratica venatoria, pur essendo consentita a norma della citata legge n.157 del
1992, per le sue concrete modalità di attuazione sottoponga l’animale ad un
aggravamento di sofferenze che non trovi giustificazione nelle esigenze della
caccia (Sez. 3, n. 601 del 01/10/1996, dep. 29/01/1997, Dal Prà ed altro, Rv.
206820; Sez. 3, n. 11962 del 07/11/1995, Amadori ed altro, Rv. 203300).
Secondo tale indirizzo, siccome la legge n. 157 del 1992 all’art. 21 lett. r)
vieta l’uso di uccelli come richiami nel caso in cui l’animale sia accecato o
mutilato ovvero sia legato per le ali, costituirebbe legittimo esercizio della pratica

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CONSIDERATO IN DIRITTO

venatoria legare l’uccello (nella specie, allodole) con una imbracatura attorno al
corpo, consentita dalla predetta legge, sia perché non espressamente vietata e
sia perché certamente meno dolorosa per l’animale rispetto a quella per la quale
è stato fissato il divieto sicché, nell’ipotesi di uccelli che siano utilizzati come
richiami nell’esercizio della caccia, ed a tal fine siano imbracati e legati con una
cordicella alla quale venga impresso uno strattone, che li faccia sollevare in volo
e poi ricadere, deve ritenersi che tale comportamento venatorio, consentito dalla
legge 11 febbraio 1992 n. 157, non può integrare gli estremi del reato di
maltrattamento di animali (Sez. 3, n. 2543 del 02/10/1998, P.M. in proc. Nava

2.2. Secondo un opposto orientamento, nei confronti degli animali è
consentita ogni attività che non rientri in uno dei divieti specificamente dettati
dalla legge 11 febbraio 1992, n.157 per la “Protezione della fauna selvatica
omeoterma e per il prelievo venatorio”; quest’ultima, però, da sola non esaurisce
la tutela della fauna stessa, poiché, a seguito della successiva entrata in vigore
della legge 22 novembre 1993, n.473, di modifica dell’art.727 cod.pen., la sfera
di garanzia si è notevolmente ampliata attraverso l’introduzione dell’ulteriore
divieto di tenere condotte che comunque possano determinare il maltrattamento
dell’animale utilizzato come richiamo o della stessa preda catturata. Pertanto è
configurabile il reato di cui all’art.727 cod. pen. quando nell’esercizio della caccia
siano utilizzate allodole imbracate e legate con una cordicella, alla quale venga
impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo e, poi, ricadere
bruscamente perché trattenute dal legaccio: tale comportamento integra una
sevizia, poiché la sua ripetitività ossessiva viene ad incidere sull’istinto naturale
dell’animale stesso, dapprima dandogli la sensazione di poter assolvere alla
primaria funzione del volo ed immediatamente dopo costringendolo a ricadere
dolorosamente (Sez. 3, n. 4703 del 19/11/1996, dep. 20/05/1997, Gemetto Rv.
208042; Sez. 3, n. 6204 del 11/01/1995, Cattelan, Rv. 202482; Sez. 3, n. 8890
del 24/05/1999, Albertini, Rv. 214193).
2.3. Il Collegio ritiene di seguire quest’ultimo orientamento perché
maggiormente aderente all’evoluzione della disciplina normativa.
Va precisato che per l’applicabilità dell’esimente prevista dall’art. 51 cod.
pen., non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto (Sez. 3,
n. 2860 del 22/01/1980, Petrolo, Rv. 144495) ma è necessario che ne consenta
l’esercizio in funzione scriminante attraverso attività e modalità che permettano
alla norma attributiva del diritto di prevalere sulla norma incriminatrice e ciò
avviene quando non siano superati i limiti che, secondo la specifica disciplina
ordinamentale di riferimento, sono o possono essere fissati ad ogni singolo
diritto.

S., Rv. 212166).

Di ciò pare consapevole anche l’indirizzo contrastato quando afferma che
l’esimente non ricorre nel caso in cui la pratica venatoria, pur essendo consentita
a norma della citata legge n.157 del 1992, per le sue concrete modalità di
attuazione sottoponga l’animale ad un aggravamento di sofferenze che non trovi
giustificazione nelle esigenze della caccia.
Ciò precisato, non vi è dubbio che la legge 11 febbraio 1992, n. 157 detti
norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo
venatorio, proibendo l’uso degli uccelli come richiami nel caso in cui l’animale

ammettendo che nella pratica venatoria possano essere utilizzati uccelli legati in
parti diverse dalle ali, purché non mutilati o accecati.
Va tuttavia considerato che la legge 22 novembre 1993, n.473, di modifica
dell’art.727 cod. pen., ha radicalmente mutato il presupposto giuridico di fondo
sotteso alla tutela penale degli animali, i quali sono considerati non più fruitori di
una tutela indiretta o riflessa, nella misura in cui il loro maltrattamento avesse
offeso il comune sentimento di pietà, ma godono di una tutela diretta orientata a
ritenerli come esseri viventi.
In quest’ottica, quindi, l’animale costituisce il bene giuridico protetto e non
più l’oggetto materiale del reato, tanto che, per questa via, si è
progressivamente realizzato il rafforzamento della tutela penale degli animali che
appare più evidente laddove si tenga conto dei principi fissati dalla carte
internazionali (la Costituzione europea ha riconosciuto gli animali come esseri
senzienti imponendo agli stati membri di tener conto delle esigenze in materia di
benessere degli stessi) e dai successivi interventi normativi (legge 20 luglio
2004, n. 189, recante disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli
animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o
competizioni non autorizzate e che ha, tra l’altro, introdotto nuove norme
incriminatrici (gli articoli da 544 bis a 544 quinquies) cod. pen. e riformulato
l’art. 727 cod. pen.; la legge 4 novembre 2010, n. 201 di ratifica ed esecuzione
della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, fatta a
Strasburgo il 13 novembre 1987, nonché norme di adeguamento
dell’ordinamento interno; la legge 4 giugno 2010 n. 96 recante disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
europee, in attuazione del quale è stato emanato il d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121
che ha peraltro introdotto il reato previsto dall’art. 727 bis cod. pen.:uccisione,
distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o
vegetali selvatiche protette).
Essendo stata perciò notevolmente estesa, dopo la legge sulla caccia (n. 157
del 1992), la normativa protettiva sugli animali, ne deriva che va capovolto il
ragionamento in precedenza seguito, secondo il quale nei confronti degli animali
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risulti accecato o mutilato ovvero sia legato per le ali e implicitamente

sarebbe consentita ogni attività, che non rientri in uno dei divieti specificamente
dettati dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 per la “Protezione della fauna
selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”.
Quindi, in tema di caccia, è certamente consentito l’uso, a scopo venatorio,
di richiami vivi ma deve ritenersi parallelamente vietato che a esseri viventi
dotati di sensibilità psico – fisica, come gli uccelli, siano arrecate ingiustificate
sofferenze con la conseguenza che la legge n. 157 del 1992 elenca, con carattere
meramente esemplificativo, comportamenti da considerarsi vietati ma non

la legge sulla caccia non esaurisce da sola la tutela della fauna, in quanto, a
seguito della successiva e penetrante evoluzione normativa (come in precedenza
specificata), la sfera di garanzia si è notevolmente ampliata, attraverso
l’introduzione dell’ulteriore divieto di tenere condotte dirette a provocare agli
animali strazio o sevizie o comunque la detenzione con modalità incompatibili
alla loro natura, con la conseguenza che la legittimità delle pratiche venatorie
deve essere verificata anche alla luce delle norme dell’ordinamento che
assicurano protezione agli animali, quali esseri viventi.
Ne deriva che l’uso di richiami vivi deve ritenersi vietato non solo nelle
ipotesi espressamente previste dall’art. 21 lett. r) legge n. 157 del 1992 ma
anche quando viene attuato con modalità incompatibili con la natura dell’animale
sicché è configurabile il reato di cui all’art. 727 cod. pen., quando nell’esercizio
della caccia siano utilizzate allodole imbracate e legate con una cordicella, alla
quale venga impresso uno strattone, che le faccia sollevare in volo, e, poi,
ricadere pesantemente a terra o su un albero.
In tali casi, si sottopone l’animale a fatiche insopportabili con la natura
ecologica di esso, integrando tale comportamento una sevizia, poiché la sua
martellante ripetizione influisce sull’istinto naturale dell’animale, dapprima
dandogli la sensazione di potere assolvere alla primaria funzione del volo ed
immediatamente dopo costringendolo a ricadere dolorosamente.
Perciò, nella pratica venatoria, l’utilizzo dell’uccello è lecito solo quando
l’animale sia regolarmente imbracato e non si sottoponga la fune a violenti
strattonamenti, ma ci si limiti a tirarla tanto quanto basta per fare alzare in volo
l’animale e per assecondarne il rientro nel punto di partenza, senza infliggergli
dolore.
Nel caso di specie, è stato accertato che la caccia avveniva con l’utilizzo di
richiami vivi costituiti da quattro allodole imbragate.
Per farle sollevare in volo, la fune era soggetta a violenti strattonamenti e il
teste ha descritto le condizioni di oggettiva sofferenza in cui si trovavano due
delle allodole utilizzate, di cui una mutilata, che sono state poi soppresse dal

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legittima l’uso di richiami vivi con modalità altamente offensive e questo perché

veterinario al fine di evitare ulteriori sofferenze, mentre le altre due sono state
liberate.
Il primo motivo è pertanto infondato.

3. E’ infondato anche il secondo motivo di gravame.
Il Tribunale, con adeguata motivazione priva di vizi logici, ha ritenuto, sulla
base della testimonianza del vigile provinciale, che il ricorrente avesse abbattuto
e catturato tre esemplari di pispola in zona soggetta a speciale protezione (ZPS)

naturalistico per la migrazione di uccelli protetti.
La pispola è inclusa nell’allegato II della convenzione di Berna del 19
settembre 1979 (resa esecutiva con legge n. 503 del 1981) e l’art.2, comma 1,
lett. C) della legge 11 febbraio 1992, n.157 sancisce il divieto di cacciare le
specie indicate come “minacciate di estinzione” da convenzioni internazionali.
L’articolo 19 bis della legge sulla caccia consente tuttavia alle Regioni di
derogare alla disciplina nazionale e comunitaria sempre che le deroghe siano
conformi alle prescrizioni dettate dall’articolo 9 della direttiva 79/409 CEE e ai
principi ed alle finalità degli artt. 1 e 2 della stessa direttiva e alle disposizioni
della legge nazionale.
Nel caso di specie, non rileva che, in forza di tale facoltà, la Regione
Lombardia, con legge del 16 settembre 2009 n. 21, abbia consentito la
possibilità di catturare vari esemplari previsti dalla convenzione di Berna, tra cui
la pispola che poteva essere cacciata dal primo ottobre al 31 dicembre 2009, con
il prelievo massimo giornaliero per ciascun cacciatore di cinque unità, in quanto
la zona, per come accertato nel corso del giudizio di merito, era segnalata con
cartelli per essere una zona soggetta a speciale protezione (ZPS), destinata
infatti a corridoio naturalistico per la migrazione di uccelli protetti, quali la
pispola, sicché vigeva il divieto assoluto di caccia con la conseguenza che
l’inosservanza configura il reato previsto dall’art. 30 lett. h) legge n. 157 del
1992.
Il ricorrente non contesta ciò ma assume, in maniera del tutto aspecifica,
che nella zona, ove egli ha praticato la caccia, non vigeva il divieto assoluto ma
erano soltanto imposte maggiori limitazioni al suo esercizio.
La deduzione, non rispettando il principio dell’autosufficienza del ricorso, è
pertanto inammissibile.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali.

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nella quale vigeva il divieto assoluto di caccia per essere destinata a corridoio

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 07/10/2014

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