Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9499 del 23/02/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 9499 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: ARIOLLI GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
VRENNA SERGIO N. IL 29/09/1957
avverso l’ordinanza n. 551/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANZARO,
del 17/09/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.
(“1. ca‹,Gezvu,

Uditi difensor Avv.;

.e

41-;-1 ‘ul-a7A-13

Data Udienza: 23/02/2016

RITENUTO IN FATTO

1.

In data 4/6/2015 la Corte di assise di appello di Catanzaro rigettava

l’istanza, avanzata da Vrenna Sergio, di sostituzione della misura cautelare della
custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari.
2.

Il provvedimento veniva appellato dall’indagato ed il Tribunale del

riesame di Catanzaro con ordinanza in data 17/9/2015 rigettava il gravame.
3.

Avverso tale ultimo provvedimento ricorre per cassazione il difensore

erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve
tenere conto nell’applicazione della legge penale. In particolare, il Tribunale, ai
fini della valutazione sul mantenimento della cautela e sul superamento della
presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (essendo l’indagato
stato condannato per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa) non
avrebbe tenuto nel debito conto il principio di proporzionalità tra l’entità del fatto
e la sanzione che si ritiene possa essere irrogata, alla luce del consistente
periodo di presofferto cautelare (anni 11 mesi 6 giorni 2) a fronte della misura
complessiva della pena inflitta (anni 14 e mesi 8), potenzialmente in diminuzione
(atteso l’intervenuto annullamento della Corte di cassazione in ordine
all’aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 203 del 1991). Inconferenti, pertanto,
sarebbero i richiami operati dal Tribunale sia all’esistenza legislativa astratta
(sancita dall’art. 304, comma 6, cod. proc. pen.) della possibile coincidenza tra
la pena concretamente irrogata e la durata della misura cautelare, sia alla
“supremazia” e permanenza del principio di adeguatezza della misura cautelare,
posto che ciò che viene messo in discussione riguarda unicamente la mancata
considerazione del fattore temporale come l’unico elemento per poter applicare
correttamente il principio di proporzione. Il provvedimento impugnato è, altresì,
censurabile per avere rigettato l’eccezione di illegittimità costituzionalità dell’art.
300, comma 4, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3 e 111 della
Costituzione, nella parte in cui non prevede che, ai fini della perdita di efficacia
della misura, la durata della custodia già subita non sia inferiore all’effettiva
entità della pena irrogata tenuto anche conto del beneficio della liberazione
anticipata. In particolare, allorché si giunga ad una sorta di sostanziale
equivalenza tra il presofferto e la pena irrogata per mezzo del riconoscimento del
beneficio della liberazione anticipata, la mancata possibilità per il giudice della
cautela di dichiarare la cessazione di efficacia della misura si porrebbe in
contrasto con il principio di uguaglianza, con la conseguenza paradossale che
all’imputato, qualora non avesse interposto ricorso per cassazione avverso la

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nell’interesse dell’indagato, deducendo la violazione di legge, per inosservanza o

sentenza di condanna, sarebbe già estinta la pena proprio in virtù
dell’applicazione di tale beneficio.
In data 22/02/2016 è pervenuta alla Cancelleria di questa Corte nota del
difensore dell’imputato con la quale il legale ha rinunziato al ricorso, tenuto
conto che in data 28/1/2016 l’imputato è stata scarcerato per decorrenza
termini.

1.

Preliminarmente, conformemente all’orientamento di questa Sezione, va

dichiarata l’inefficacia dell’atto di rinuncia al ricorso per cassazione non
sottoscritto dall’indagato, ma dal solo difensore non munito di procura speciale,
in quanto la rinuncia, non costituendo espressione dell’esercizio del diritto di
difesa, richiede la manifestazione inequivoca della volontà dell’interessato,
espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale (Sez. 2, sentenza
n. 5378 del 5/12/2014, Rv. 262276). Deve, pertanto, procedersi all’esame dei
motivi di ricorso.
2.

Il ricorso è manifestamente infondato. Il principio di proporzionalità

svolge certamente una funzione di “salvaguardia” della legittimità e della
ragionevolezza della misura cautelare applicata (in quanto destinata ad incidere
sulla libertà personale e in una fase antecedente la condanna definitiva), con
carattere immanente, in quanto destinato a spiegare i suoi effetti tanto nella fase
genetica della applicazione della misura che nel suo aspetto funzionale della
relativa protrazione (Sez. un., sentenza n. 16085 del 31/3/2011, Rv. 249324).
Nell’ambito di tale verifica assume rilievo anche il decorso del tempo, in quanto
sarebbe illogico che dinanzi ad una misura divenuta, in ragione del lungo tempo
trascorso dalla sua applicazione (e dunque dai fatti), “sproporzionata”, il giudice
non possa intervenire sostituendola con altra meno grave. Ma l’applicazione del
principio di proporzionalità nel corso dell’esecuzione della custodia cautelare è
rimesso al prudente apprezzamento del giudice della cautela, pur quando sia
decorso un lungo periodo di restrizione e né può prescindere da un’attenta
valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, con specifico riferimento
alla persistenza o meno delle esigenze cautelari ritenute sussistenti al momento
dell’adozione della misura (cfr. in termini Sez. 5, sentenza n. 21195 del
12/02/2009, Rv. 243936. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rigettato il
ricorso contro l’ordinanza del tribunale del riesame che non aveva accolto
l’appello proposto dall’imputato avverso il rigetto da parte del giudice di secondo
grado dell’istanza di revoca motivata con riferimento al decorso di un periodo di
custodia cautelare superiore ai due terzi della pena inflitta per il delitto di cui
all’art. 416 bis cod. pen.). L’art. 275, comma 2, cod. proc. pen., che non impone

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CONSIDERATO IN DIRITTO

un vincolo tassativamente predeterminato alla durata della misura cautelare in
rapporto all’entità della pena, lascia quindi un ampio margine di discrezionalità al
giudice: mentre di carattere assoluto è invece il limite invalicabile imposto
dall’ordinamento con l’art. 300, comma 4, cod. proc. pen., laddove è stabilita
l’immediata perdita di efficacia della misura cautelare se la sua durata ha
raggiunto l’entità della pena inflitta. Tuttavia, mentre in quest’ultima ipotesi la
cessazione della misura è obbligatoria e non lascia spazio ad alcuna valutazione
del giudice circa il persistere delle esigenze cautelari, altrettanto non è a dirsi a

perché rimessa al prudente apprezzamento del giudice, non può prescindere da
un’attenta valutazione di tutte le circostanze del caso, con specifico riguardo
all’indagine sulla persistenza o meno di quelle esigenze cautelari che hanno
condotto in origine alla deliberazione della misura. A ciò si è dedicato il Tribunale
del riesame di Catanzaro, ritenendo per un verso recessivo, rispetto al profilo di
adeguatezza della misura della custodia in carcere applicata, il principio di
proporzionalità valutato alla luce del tempo trascorso e per altro verso non
superata e vinta, in ragione di tale profilo temporale, la presunzione di
pericolosità che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. individua per coloro che
sono imputati del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, stante
l’assenza di elementi che si oppongono all’adozione di misure cautelari meno
stringenti della detenzione in carcere. Siffatta valutazione, appartenendo alle
attribuzioni del giudice di merito, non è censurabile nel giudizio di cassazione in
quanto sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici.
3.

Manifestamente infondata risulta, infine, l’eccezione di costituzionalità

sollevata dal ricorrente. Come noto, ai fini dell’ammissibilità della questione di
costituzionalità, ove si deduca la lesione del principio di eguaglianza ex art. 3,
comma 1, Cost., occorre indicare la norma o il principio dell’ordinamento da
assumere come termine di raffronto (c.d. tertium comparationís), avendo cura di
scegliere fattispecie di carattere omogeneo, poiché solo con riferimento a queste
può essere utilmente condotto, da parte del Giudice delle leggi, l’esame circa la
configurabilità del vizio di disparità di trattamento di situazioni eguali, risultando
altrimenti la quaestio manifestamente inammissibile (ex multis ordinanze n. 186
del 2000; n. 63 del 2001; n. 405 e n. 446 del 2007). Ciò premesso, nel caso in
esame, il ricorrente indica quale situazione da porsi in comparazione quella del
condannato con sentenza divenuta irrevocabile il quale può richiedere il beneficio
della liberazione anticipata. Ebbene, tale situazione non risulta affatto omogenea
con quella sospettata di incostituzionalità, trattandosi di posizioni differenti
quanto a presupposti e requisiti di operatività. Infatti, la liberazione anticipata è
beneficio riservato esclusivamente ai condannati con sentenza definitiva,
unicamente rispetto ai quali è possibile porre in essere l’attività di recupero
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proposito del principio di proporzionalità: la cui applicazione in itinere, proprio

sociale e il riconoscimento è subordinato all’accertamento della partecipazione
del condannato all’opera di rieducazione, nonché alla persistenza o meno di
collegamenti con la criminalità organizzata, valutazione attribuita ad un giudice
differente da quello della cautela. Trattasi, quindi, di un istituto destinato ad
operare in una fase e su un piano del tutto diverso da quello della carcerazione
preventiva e che, anzi, ontologicamente si pone in contraddizione logica con
essa. La prima, infatti, presuppone che non sia ancora intervenuta una sentenza
definitiva di condanna, l’altra, invece, richiede la condanna irrevocabile. La prima

specie a quello di sorveglianza. L’intervento che dunque il ricorrente chiede al
Giudice delle leggi non è dunque di carattere additivo, bensì di tipo “creativo”,
come tale riservato alla sfera della discrezionalità del legislatore. La Corte
costituzionale, infatti, non può essere chiamata a “creare” la norma destinata ad
integrare la disciplina della materia, ma solo ad individuare altra norma già
presente nell’ordinamento (o ricavabile dalle stesse norme costituzionali) capace
di diventare oggetto della addictio e ciò solo allorquando l’addittiva sia “a rime
obbligate”, ossia quale unica scelta possibile e costituzionalmente imposta nella
cornice del sistema costituzionale. Tale ipotesi è lungi dal ricorrere nel caso in
esame.
Peraltro, va anche osservato che ipotetica risulta la condizione sulla quale si
fonda il censurato vizio di incostituzionalità della disciplina, in quanto, a
prescindere che non è ancora noto il quantum di pena definitiva che il ricorrente
sarà chiamato a scontare (dovendosi ancora celebrare il giudizio di rinvio
conseguente all’annullamento per l’art. 7 D.L. n. 203 del 1991), la concessione
della liberazione anticipata, stante anche l’affermata responsabilità per il delitto
di partecipazione ad associazione mafiosa, non è un effetto automatico che
conseguirebbe alla mera irrevocabilità della condanna comminata all’imputato.
Infine, non può non rilevarsi che l’eventuale riconoscimento della liberazione
anticipata per il soggetto imputato o giudicabile verrebbe a stravolgere la stessa
disciplina in tema di misure coercitive, giacché la durata della custodia non
sarebbe più posta in correlazione con la fase di giudizio di merito, ma avrebbe
una variabile indipendente costituita, in corso del giudizio, del beneficio della
liberazione anticipata, che troverebbe fondamento non già nella persistenza o
cessazione delle esigenze cautelare, alla cui ricorrenza è subordinata l’adozione e
protrazione della custodia cautelare, bensì in fattori esterni la cui valutazione
sarebbe rimessa ad un diverso organo.
La questione, poi, risulta parimenti manifestamente infondata anche con
riguardo agli ulteriori parametri costituzionali evocati (artt. 13, 111 e 117,
comma 1, Cost.), che il ricorrente, peraltro, ha indicato del tutto genericamente
omettendo del tutto di specificare sotto quale profilo sussisterebbe il lamentato

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appartiene al processo di cognizione, la seconda a quella dell’esecuzione, in

vulnus di costituzionalità. Va, esclusa, infatti, l’ipotetica lesione dell’art. 13 Cost.,
in ragione della previsione di termini massimi e prestabiliti di durata della
custodia cautelare. Inconferente si rivela poi il richiamo all’art. 111 in tema di
misure cautelari, fase peraltro già cadenzata da scadenze e termini di carattere
stringente alla cui violazione sono ricollegate precise sanzioni a favore
dell’imputato e del suo status libertatis. Del pari inconferente è il riferimento
all’art. 117, comma 1, Cost., da intendersi quale richiamo al rispetto, da parte
della potestà legislativa dello Stato, degli obblighi internazionali, tra i quali

conto che non risultano in conseguenza dell’applicazione delle norme censurate
violazioni delle disposizioni convenzionali.
4.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art.

616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la
parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle
spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della
cassa delle ammende della somma di C 1.000, così equitativamente fissata in
ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di C 1.000 a favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 23/02/2016

rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tenuto

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