Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9491 del 05/02/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 9491 Anno 2016
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il Tribunale di Napoli contro
l’ordinanza pronunciata in data 24/08/2015 dal Tribunale del Riesame di Napoli
nei confronti di:
1.

NOBILE RAFFAELE, nato il 04/08/1978;

2.

LAEZZA GIUSEPPE nato il 15/09/1966;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Giovanni Di Leo, che ha concluso chiedendo per l’annullamento con rinvio;
uditi i difensori, avv.ti Domenico Ducci e Libero Mancuso per Laezza, che hanno
concluso chiedendo il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 24/08/2015, il Tribunale del Riesame di Napoli
annullava l’ordinanza con la quale, in data 03/08/2015, il giudice per le indagini
preliminari del Tribunale della medesima città aveva applicato la misura della
custodia cautelare in carcere nei confronti di LAEZZA Giuseppe e NOBILE
Raffaele per i seguenti reati: «del delitto p. e p, dagli artt. 81 cpv., 110, 56-

Data Udienza: 05/02/2016

629 co. 2, in riferimento all’art. 628 co. 3 nn. I) e 3) c.p. e 7 1. 203/1991,
perché, in concorso tra di loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso, anche in tempi diversi, con violenza e minaccia consistita
nell’intimare a STUFA Adolfo, titolare della ditta SCIA s.r.I., che richiedeva il
saldo dei lavori di ristrutturazione che aveva effettuato all’interno della
concessionaria “Gruppo Auto Italia”, di Laezza Giuseppa, ma di fatto gestita da
LAEZZA Giuseppe e LAEZZA Tommaso alias “i pastori’, committenti dei suddetti
lavori, di non permettersi più di recarsi da loro a richiedere il pagamento dei

Salvatore Giordano erano andati protestati (in quanto per la suddetta somma
gli avevano ceduto un credito che avevano nei confronti di tale PACILIO
Salvatore Giordano, che il 7.10.14 aveva emesso a favore dello STUFA 5 titoli
cambiari, che venivano protestati al momento della presentazione all’incasso),
forti della intimidazione derivante dalla loro appartenenza all’associazione
camorristica denominata clan Moccia, contestualmente aggredendo lo STUFA
con schiaffi, calci e spinte, procurandogli le lesioni di cui al capo B), e
profferendo al suo indirizzo le seguenti frasi minatorie “sei fortunato che non ti
sparo” “vuto già 100,000,00 e tra un’ora porta ca’ i 100.000,00 e si non ve
n’aite ai pur a Cardito», compivano atti idonei diretti in modo non equivoco a
costringere STUFA Adolfo a restituire la somma di 100 mila curo legittimamente
ricevuta in pagamento dei lavori eseguiti nella concessionaria (come da fatture
in atti), nonché a rinunciare al saldo degli ulteriori 12.500,00 €, al fine di
procurarsi un ingiusto profitto pari al valore dei suddetti lavori, con pari danno
per la persona offesa; evento non verificatosi per fatto indipendente dalla loro
volontà, avendo lo STUFA presentato denuncia alla Polizia giudiziaria nonostante qualche giorno dopo ignoti esplodevano colpi d’arma da fuoco
contro la sua autovettura, nonché NOBILE Raffaele “o panzaruttaro” lo fermava
per strada redarguendolo che stava parlando troppo in giro e che doveva
restituire i centomila euro ai Laezza. Con la circostanza aggravante di cui all’art.
7 L 203/91, per aver commesso il delitto avvalendosi delle condizioni di cui
all’art. 416 bis c.p., ossia con modalità tali da ingenerare nella vittima la
consapevolezza di trovarsi di fronte a soggetti appartenenti al clan camorristico
locale, con diretta influenza su Afragola e territori limitrofi. In Afragola dal
24.04.2015 alla fine del mese di maggio 2015. Con la recidiva reiterata per
LAEZZA Giuseppe. Con la recidiva reiterata nel quinquennio per LAEZZA
Tommaso. Con la recidiva reiterata per NOBILE.
LAEZZA Giuseppe e LAEZZA Tommaso «del delitto p. e p. dagli artt. 110, 61
nr. 2- 582-585 c.p. in rel. all’art. 576 co. 1 nr, 1 c.p. e 7 I. 203/1991, perché, in
concorso e unione tra di loro, al fine di commettere il reato sub capo a),
colpendo con calci, pugni e schiaffi STUFA Adolfo, procuravano a quest’ultimo
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12.500,00 /2′ ancora dovuti, anche se i titoli cambiari emessi da PACILIO

lesioni personali consistite in “trauma contusívo all’eniitorace sinistro” con
prognosi di giorni 2. Con la circostanza aggravante di cui all’art. 7e. 203/91, per
aver commesso il delitto avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p.,
ossia con modalità tali da ingenerare nella vittima la consapevolezza di trovarsi
di fronte a soggetti appartenenti al clan camorristico locale, con diretta influenza
su Afragola e territori limitrofi. In Afragola il 24.04.2015».
Il tribunale, riteneva:
a) quanto alla tentata estorsione della somma di C 12.500,00 che si verteva

quanto riferito dalla stessa parte offesa;
b) quanto alla tentata estorsione finalizzata alla restituzione della somma di
C 100.000,00 che si trattava di una frase pronunciata nel corso dell’alterco
intervenuto fra lo Stufa ed il Laezza e, quindi, priva di alcuna valenza estorsiva;
c) che l’aggravante di cui all’art. 7 rimaneva assorbita, in quanto il limite
edittale di cui all’art. 393 cod. pen. non consentiva, comunque, l’emissione
dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere.

2. Contro la suddetta ordinanza, il Pubblico Ministero ha proposto ricorso per
cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. per avere il Tribunale omesso qualsivoglia valutazione dell’elemento
soggettivo del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Secondo il
ricorrente, infatti, il credito sarebbe stato ceduto pro so/vendo e non pro soluto
ed il Laezza non avrebbe potuto eccepire i vizi in quanto sarebbe decaduto dalla
relativa azione.
2.2. per non avere ritenuto grave la violenza e la minaccia esercitata, con
omissione, quindi, di ogni valutazione sul reato di lesioni personali aggravate;
2.3. per non avere effettuato alcuna valutazione dell’aggravante di cui
all’art. 7 L. 203/1991.

3. Con memoria depositata il 02/12/2015, il difensore del Laezza ha chiesto
il rigetto del ricorso. Successivamente, entrambi i difensori hanno depositato
memorie con le quali hanno chiesto il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero
confutandone gli argomenti addotti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. In punto di fatto, deve darsi per pacifico quanto segue: Stufa Adolfo
eseguì dei lavori (per C 100.000,00) per conto del Laezza il quale, in pagamento,
gli cedette crediti che, a sua volta, vantava nei confronti di altre persone. Di
questi crediti ceduti, C 85.000,00 furono regolarmente incassati dallo Stufa;

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in un’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, proprio alla stregua di

rimase insoluto il pagamento di 5 cambiali (per un complessivo importo di C
12.500,00) dovuto da tale Pacilio, originario debitore del Laezza che, appunto,
sempre con il solito sistema, aveva ceduto il suddetto credito allo Stufa.
Più esattamente, secondo quanto dichiarato dal Laezza (e non smentito
dallo Stufa) a seguito della suddetta cessione del credito, il Pacilio (originario
debitore del Laezza) pagò allo Stufa (creditore cessionario) in contanti la somma
di C 2.500,00 ed il rimanente importo pari ad C 12.500,00 con tre assegni di C
5.000,00. Non essendo andati gli assegni a buon fine, il Pacilio li sostituì con

A questo punto, lo Stufa si recò dal Laezza pretendendo che fosse questi a
saldare l’importo dovutogli.
Il Laezza si rifiutò di pagare dicendogli, da una parte, che a pagare doveva
essere il Pacilio ed eccependo, dall’altra, che il capannone presentava dei vizi che
lo Stufa non aveva ancora riparato nonostante le contestazioni e la sua
promessa di porvi rimedio: l’incontro, però, degenerò e finì che il Laezza,
spalleggiato dal Nobile, picchiò lo Stufa provocandogli lesioni lievi (prognosi di
giorni due).

2. Dall’ordinanza impugnata (pag. 4) risulta che l’ordinanza di custodia
cautelare in carcere fu emessa per la sola ipotesi di tentata estorsione
aggravata, quindi per i due episodi descritti nel capo d’imputazione, ossia:
a) la richiesta di pagamento della somma di C 12.500,00;
b) la richiesta di restituzione della somma di C 100.000,00.

3. La somma di C 12.500.
Il Tribunale ha ritenuto di qualificare il fatto come esercizio arbitrario delle
proprie ragioni e ciò perché, a seguito dell’intervenuto accordo sulla cessione del
credito, il Laezza, a fronte della richiesta dello Stufa, invece che reagire in modo
violento, avrebbe potuto far ricorso al giudice civile per ottenere un
accertamento negativo della propria posizione di soggetto ancora obbligato al
pagamento della somma di C 12.500,00 (pag. 14).
Inoltre, ad avviso del tribunale la condotta minacciosa e violenta non fu tale
da esorbitare «ad un livello tale da indurre a sussumere il fatto nel delitto di
tentata estorsione» (pag. 15).
Il Pubblico Ministero, nel suo ricorso, ha eccepito, come si è detto, che: a) il
credito era stato ceduto pro soluto; b) il Laezza non aveva diritto ad eccepire i
vizi della costruzione, perché era decaduto dalla relativa azione: quindi,
mancherebbe, a monte, l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 393 cod.
pen.; c) che il tribunale avrebbe omesso ogni valutazione dell’art. 7 L. 203/1991
e delle lesioni.
4

cinque cambiali di C 2.500,00 ciascuna che, però, furono protestate.

3.1. Il ricorrente, contesta la conclusione alla quale è pervenuto il Tribunale,
cercando di dimostrare che non sussisterebbe l’elemento materiale del reato di
cui all’art. 393 cod. pen., ma, per far ciò, si addentra in questioni di natura
strettamente civilistica che, peraltro, non risultano neppure dalle stesse
dichiarazioni delle parti, puntualmente ed integralmente riportate dal Tribunale
nell’ordinanza impugnata.
E così, non è dato comprendere per quali ragioni – secondo quanto

costruzione, si dovrebbe desumere che il credito era stato ceduto pro so/vendo:
sul punto, infatti, il ricorrente trascura di considerare che, in realtà, dopo che gli
assegni non erano andati a buon fine, lo Stufa, ciononostante, accettò dal Pacilio
cinque cambiali con ciò quindi novando (art. 1230 ss cod. civ.) totalmente il
rapporto giuridico.
E così, ancora, si ignora sulla base di quali elementi fattuali, il ricorrente
possa, con certezza, affermare che il Laezza era decaduto dalla possibilità di
eccepire il vizio di costruzione, tanto più che, secondo l’assunto dell’indagato,
egli aveva contestato i vizi e lo Stufa aveva promesso che vi avrebbe posto
riparo (con il che, avendo riconosciuto il difetto, ogni questione sulla decadenza
o prescrizione, verrebbe meno).
In altri termini, quello che si vuol dire, è che, in questa sede, è sufficiente
avere accertato, in modo certo e pacifico, che la lite fra le parti sorse solo ed
esclusivamente per una ragione che trovava la sua genesi in un rapporto di
chiara natura civilistica: è quindi, del tutto inutile e superfluo, in questa sede,
avventurarsi nel suddetto rapporto per cercare di stabilire chi abbia torto e chi
ragione e, quindi, surrogarsi, al giudice civile.
Quello che importa è, lo si ripete, avere accertato che il rifiuto di pagare da
parte del Laezzi trova la sua ragionevole causa in un pregresso rapporto di
natura civilistica i cui contorni non sono affatto chiari come pretende il ricorrente.
Resta da esaminare l’annoso problema della natura della violenza e minaccia
esercitata dall’agente nell’ipotesi di cui all’art. 393 cod. pen.
Sul punto è ben noto che esiste un contrasto nell’ambito di questa stessa
Corte fra la tesi secondo la quale il fatto diventa estorsivo se la violenza è stata
esercitata in modo da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far
valere il diritto stesso e la tesi secondo la quale, invece, l’elemento materiale che
differenzia l’estorsione dall’art. 393 cod. pen. non è la violenza o la minaccia ma
che la pretesa non sia tutelabile davanti all’autorità giudiziaria.
Il tribunale ha dato atto di entrambe le tesi (pag. 15), ma le ha superate in
punto di fatto, avendo accertato che, a tutto concedere, comunque, le lesioni
(spintoni, schiaffi e calci), lievi (giorni due di prognosi), non potevano neppure
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sostenuto dal Pubblico Ministero – dal fatto che il Laezza eccepì i vizi della

ritenersi tali da risultare incompatibili con il ragionevole intento di far valere il
diritto stesso.
Sul punto, occorre dare atto che il ricorrente,, nulla ha eccepito in questa
sede, se non dolendosi del fatto che il tribunale non avrebbe considerato che le
lesioni erano aggravate dal nesso teleologico e dal metodo mafioso: ma, con
tutta evidenza, si tratta di aggravanti che nulla hanno a che vedere con la natura
della violenza esercitata.

Il tribunale, come si è detto, ha ritenuto irrilevante la configurabilità della
suddetta aggravante perché, comunque, non avrebbe potuto comportare
l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di cui
all’art. 393 cod. pen., in carenza del limite edittale di cui all’art. 280 cod. proc.
pen. (pag. 15).
Anche la suddetta motivazione è ineccepibile.
Ma, poiché il ricorrente ha particolarmente insistito sulla configurabilità
dell’aggravante, avendo cercato di dimostrare la caratura mafiosa della famiglia
Laezza (pag. 6 ss del ricorso), va osservato che, per come si sono svolti i fatti,
l’aggravante non è configurabile.
Infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la ratto dell’art.
7 legge cit. «non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono
reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di
contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e
determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati
associativi, utilizzino metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure
ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare
sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente
intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata»
Cass. 16486/2004 riv 227932.
Da questo principio sono stati fatti discendere i seguenti corollari:
è caratterizzata da “mafiosità” l’esplicamento di condotte che, al di là degli
interessi personali dei soggetti che le attuano, siano altresì riconducibili agli
interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese
possibili con l’ausilio degli appartenenti al sodalizio (Cass. 12882/2007 Rv.
239846), sicchè non basta il mero collegamento dei soggetti accusati con
contesti di criminalità organizzata o la loro “caratura mafiosa”, occorrendo,
invece, l’effettivo utilizzo del metodo mafioso nell’occasione delittuosa: Cass.
26326/2007 Rv. 236861;
i caratteri mafiosi del metodo utilizzato per commettere un delitto non
possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta
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3.2. L’aggravante dell’art. 7 L. 203/1991

dall’imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente
idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i
caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale
evocata: Cass. 21342/2007 Rv. 236628.
Orbene, nella fattispecie in esame, la violenza esercitata nei confronti dello
Stufa non può assolutamente dirsi caratterizzata dal metodo mafioso essendo
inquadrabile nel contesto di un litigio derivante da una banale lite di natura
civilistica e degenerato in violenza: in altri termini, il Laezza picchiò lo Stufa

della quale, secondo il ricorrente, fa parte.

4. La restituzione della somma di C 100.000,00.
Il tribunale (pag. 16), ha ritenuto insussistente la minaccia estorsiva
adducendo la seguente testuale motivazione: «[…] la richiesta di restituzione
della somma di C 100.000,00 riferita da Stufa, ad avviso del Collegio, va valutata
nel contesto dell’alterco tra Laezza Giuseppe e Stufa Adolfo nel quale venne
esternata […] da Nobile Raffaele, soggetto estraneo al rapporto nell’ambito del
quale detta somma era stata pagata, quale corrispettivo dei lavori eseguiti.
Ebbene, in considerazione del contesto fattuale in cui detta frase venne
pronunciata da Nobile e risultando svincolata da episodi pregressi di sollecito alla
restituzione, ritiene il Collegio che la stessa sia stata estemporaneamente
finalizzata non ad ottenere la restituzione della somma di C 100.00,00 d’intesa
con Laezza bensì a far desistere la p.o. dalla richiesta al Laezza Giuseppe della
somma a saldo di C 12.500,00 oggetto specifico della pretesa di Stufa e della
discussione tra Laezza Giuseppe e Stufa Adolfo. A corroborare la fondatezza di
questa interpretazione concorre la condotta tenuta da Nobile Raffaele quando ha
successivamente incontrato ad Afragola Stufa Adolfo, secondo quanto dallo
stesso Stufa riferito […]».
Sul punto, va dato atto che il Pubblico Ministero ricorrente ha sì dichiarato di
volere impugnare anche questa parte della motivazione (cfr pag. 2 del ricorso),
ma, poi, di fatto, non ha ritenuto di spendere una sola parola a sostegno
dell’impugnazione, avendo omesso di illustrare le ragioni per cui la suddetta
motivazione sarebbe affetta da vizi motivazionali (art. 606 lett e) o violazioni di
legge.
Pertanto, nulla resta da aggiungere alla pur congrua, logica e coerente
motivazione addotta dal Tribunale.

5. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile.

P.Q.M.
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avendo agito per un interesse proprio e non per agevolare la famiglia mafiosa

DICHIARA
Inammissibile il ricorso

Così deciso il 05/02/2016

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