Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9471 del 11/10/2017

Penale Sent. Sez. 3 Num. 9471 Anno 2018
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: RENOLDI CARLO

Data Udienza: 11/10/2017

SENTENZA
sul ricorso proposto da
A.A.
avverso la sentenza del 5/05/2016 della Corte d’appello di Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale, dott.ssa
Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del
ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Arezzo in data 19/09/2014, A.A.
era stata condannata alla pena di tre anni di reclusione in quanto riconosciuta
colpevole del reato di cui all’art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, per
avere, quale legale rappresentante della società XX S.r.I., al fine di evadere le
imposte ed essendovi obbligata, omesso di presentare le dichiarazioni annuali dei
redditi e sul valore aggiunto relative agli anni 2004, 2005 2006, con conseguente
evasione a fini Irpef pari rispettivamente a 1.473.802,61 euro, 4.252.885,10
euro e a 896.759 euro (fatti commessi in Arezzo fino al 27/12/2007).
2. Con sentenza emessa in data 5/05/2016, la Corte d’appello di Firenze, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarò non doversi procedere
nei confronti della stessa A.A. in relazione alle omissioni contestate negli anni
di imposta 2004 e 2005 essendo i fatti ormai estinti per prescrizione, per l’effetto

P

rideterminando la pena, peraltro condizionalmente sospesa, in un anno di
reclusione.
3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione A.A. a mezzo del suo difensore fiduciario, avv. Marco Bufalini, deducendo due
distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente
necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Con il primo di essi, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma
1, lett. E), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità

società, sia di quelle passive. Sotto il primo profilo, infatti, la sentenza avrebbe
illogicamente inserito, nell’ambito del reddito di impresa, le somme presenti sugli
undici conti correnti bancari rinvenuti dalla Guardia di finanza, laddove solo 7 di
essi sarebbero stati riferibili direttamente alla XX S.r.I., mentre i restanti 4
sarebbero stati intestati alla stessa A.A. (3) e a B.B. (1),
amministratore di fatto della società, senza che la Corte territoriale abbia
spiegato perché le relative somme fossero riferibili all’attività di impresa della
società. Quanto, poi, alle componenti passive, i giudici di appello, dopo avere
escluso dalle poste attive la somma di 357.751,00 euro, corrispondenti ai prelievi
dai ricordati conti correnti, non la avrebbero inclusa, del tutto illogicamente, tra i
costi non contabilizzati. E ove ciò fosse, invece, avvenuto, il risultato di impresa
relativo al 2006 sarebbe stato pari a 143.248,00 euro, sicché le imposte dovute
sarebbero state certamente inferiori alla soglia di punibilità.
3.2. Con il secondo motivo, la difesa di A.A. censura, ex art. 606,
comma 1, lett. B), cod. proc. pen., l’inosservanza o erronea applicazione della
legge penale in relazione alla mancata determinazione del reddito di impresa,
erroneamente calcolato attraverso il riferimento agli accrediti registrati sul conto
corrente e non attraverso il computo della differenza tra i ricavi di esercizio e i
costi dell’attività di impresa.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. In argomento deve premettersi che, come correttamente osservato dalla
sentenza impugnata, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur
potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova
della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto,
che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad
elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa.
(Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013, dep. 13/02/2013, Piccolo, Rv. 254852, relativa
a una fattispecie nella quale la Suprema Corte ha ritenuto inutilizzabile la
presunzione contenuta nell’art. 32 d.P.R. 29/09/1973, n. 600, che configura

2

della motivazione in relazione al computo sia delle componenti attive della

come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari;
v. anche Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015, dep. 16/07/2015, Cappellini e altro,
Rv. 264251; Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, dep. 9/09/2014, Buonocore, Rv.
260188).
3. Nel caso di specie, tuttavia, va osservato che il compendio probatorio sul
quale le sentenze di merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità
dell’imputata non è affatto rinvenibile nelle sole presunzioni tributarie, atteso che
accanto al dato oggettivo della presenza delle somme sopra menzionate sui conti

Bonichi hanno fornito alcun concreto elemento idoneo a consentire di
determinare l’origine di tali cespiti.
Coerentemente, non essendo stato offerto alcuno specifico ragguaglio in
ordine alla riconducibilità dei prelievi dai suddetti conti ai costi riferibili all’attività
aziendale, i giudici di merito hanno ritenuto di non poter detrarre dai ricavi
aziendali, come sopra determinati, le somme corrispondenti ai menzionati
prelievi.
Una soluzione interpretativa, quella appena riassunta, che si conforma
pienamente all’orientamento di questa Corte di legittimità, coerentemente
richiamato dalla sentenza di appello, secondo cui “in tema di reati tributari, il
giudice deve accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa attraverso
una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite
dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, subisce le limitazioni che
derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale; con la conseguenza che
occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza (quanto meno)
di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole
dubbio della loro esistenza” (Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015, dep. 15/09/2015,
Granata, Rv. 265160).
4. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere,
pertanto, dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e
rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte
abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa
di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in 2.000,00 euro.

PER QUESTI MOTIVI

3

correnti bancari riferibili alla società e ai suoi amministratori, né la A.A., né

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore
della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, in data 11/10/2017

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