Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9382 del 05/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 9382 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da

SALATINO Angelo, nato ad Assoro il 25/05/1958

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta del 26 luglio 2012;

visto il ricorso e la sentenza impugnata;
lette la memoria difensiva depositata il 5 novembre 2013 dagli avv. Mina Rizzo e
Luigi Tosetto, contenente motivi nuovi;
sentito il PM in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Oscar Cedrangolo,
che ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentiti, altresì, gli avv. Mina Rizzo e Luigi Tosetto che, nell’interesse dell’imputato,
hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATI-0

1. Angelo Salatino era chiamato a rispondere, innanzi al Tribunale di Enna, dei
reati di seguito indicati:

Data Udienza: 05/12/2013

A) (assieme ad Amaradio Giancarlo, Scaminaci Giovanni, Cammarata Natale,
Ruisi Domenico, D’Angelo Gaetano Giovanni, Di Franco Giuseppe), ai sensi dell’art.
416 bis cod. pen., commi primo, terzo e quarto, cod.pen., perché facevano parte
dell’associazione denominata “cosa nostra” – specificamente della famiglia di Enna,
operante nel Comune di Enna ed in altri centri della Provincia – strutturata in
organismi territoriali costituiti dalle “province”, a loro volta articolate in “famiglie”
operanti unitariamente, insieme con analoghe strutture insediate nel territorio
siciliano, da qualificare di tipo mafioso perché i suoi appartenenti si avvalevano della

omertà da essa derivante per commettere delitti di ogni genere e principalmente
estorsioni, detenzione e porto d’armi, furti, nonché per acquisire in modo diretto e
indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, quali forniture
per la realizzazione di opere pubbliche o private, concessioni, appalti di opere
pubbliche e private, servizi e ancora per realizzare profitti ingiusti di vario genere
per sé e per altri e per procurare voti in occasione di consultazioni elettorali; con
l’aggravante per tutti dell’aver fatto parte di un’associazione avente disponibilità di
armi per il conseguimento delle finalità associative e per avere finanziato le attività
economiche, assunte o controllate, in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto il
profitto dei delitti commessi;
T) (assieme a Tirenni Davide, Cammarata Natale, Di Franco Giuseppe e
D’Agostino Vincenzo), ai sensi degli artt. 81 cpv, 110, 61 n. 5, 624,624 bis, 625 n.
5 e 8 cod.pen. e 7 legge n. 203/91 perché, con più azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso, al fine di trarne profitto, in più di tre persone in concorso tra
loro, Salatino quale mandante, gli altri quali esecutori materiali, si impossessavano
di un gregge di 18 ovini, sottraendoli a Savoca Angelo che li deteneva,
introducendosi all’interno di un terreno di pertinenza di un’abitazione rurale, dove i
beni erano custoditi; con l’aggravante di aver commesso il fatto profittando di
condizioni di luogo e di tempo (trattandosi di zone rurali ed agendo di notte) che
ostacolavano la pubblica e privata difesa; e con l’aggravante di aver commesso il
fatto avvalendosi della condizione di assoggettamento ed omertà di cui all’art. 416
bis cod. pen. e per favorire l’organizzazione mafiosa “cosa nostra”;
V) (assieme a Tirenni Davide, Cammarata Natale, Di Franco Giuseppe e Lo
Presti Giovanni Andrea) ai sensi degli artt. 81 cpv,110, 61 n. 2 e 3, 624, 635 n. 5 e
7 cod. pen. e 7 I. n. 203/91 perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno
criminoso, al fine di trarne profitto di tre persone, in concorso tra loro si
impossessavano dell’autocarro Fiat OM sottraendolo a Laneri Giuseppe, che lo
deteneva, parcheggiata in un terreno rurale e quindi esposto per consuetudine
necessità la pubblica fede; con l’ulteriore aggravante di aver commesso il fatto
profittando di condizioni di luogo e di tempo (trattandosi di zone rurali ed agendo di
notte) che ostacolavano la pubblica e privata difesa e per commettere il reato di cui

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forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed

al precedente capo U); con l’aggravante, altresì, di aver commesso il fatto
avvalendosi delle condizioni di assoggettamento ed omertà di cui all’art. 416 bis
cod. di e per favorire l’organizzazione mafiosa “cosa nostra”;
Z) (assieme a Cammarata Natale, Di Franco Giuseppe, Pirrottino Umberto,
Tirenni Davide e Gagliano Nunzio) ai sensi degli artt. 81 cpv, 61 n., 624, 624 bis,
625 n. e 8 cod. pen. e 7 I. n. 203/91 perché, con più azioni esecutive del medesimo
disegno criminoso, al fine di trarne profitto, in più di tre persone in concorso tra
loro, Salatino quale mandante di altri quali esecutori materiali, si impossessavano di

pertinenza dell’abitazione rurale, dove bovini erano custoditi;

con l’ulteriore

aggravante di aver commesso il fatto profittando di condizioni di luogo e di tempo
(trattandosi di zone rurali ed agendo di notte) che ostacolavano la pubblica e
privata difesa; con l’aggravante di aver commesso il fatto per favorire
l’organizzazione mafiosa “cosa nostra” consentendole di assicurare sostegno
economico a favore di alcuni detenuti;
DD) (assieme a D’Agostino Vincenzo, Di Giovanni Salvatore e Cancemi
Alessandro), ai sensi degli artt. 81 cpv, 110, 624, 625 nn.2, 5 e 7, 61 n. 5 cod. pen.
e 7 legge n. 203/91, perché, in concorso tra loro, Salatino quale concorrente
morale, gli altri quali esecutori materiali al fine di trarne profitto si impossessavano,
sottraendoli dalle linee elettriche aeree all’Enel S.p.A. che li deteneva, cavi elettrici
per un peso complessivo di kg 990 circa del valore di circa C 6000; con l’aggravante
dell’essere stato commesso il fatto più di tre persone, con violenza sulle cose
nonché di aver approfittato dell’orario notturno, circostanze di tempo tali da
ostacolare la pubblica privata difesa e di aver commesso il fatto su cose esposte a
pubblica fede; con l’aggravante di aver commesso il fatto valendosi delle condizioni
di assoggettamento ed omertà di cui 416

bis

cod.pen. e per favorire

l’organizzazione mafiosa “cosa nostra”, alla quale era destinato parte del profitto.

2. Con sentenza del 15 giugno 2011, il Tribunale dichiarava Angelo Salatino
responsabile dei reati di cui ai capi A), T), Z) e DD) della rubrica, escluse le
aggravanti di cui ai commi quarto e sesto dell’art. 416 bis cod. pen e, ritenuta la
continuazione, lo condannava alla pena di anni otto di reclusione, oltre
consequenziali statuizioni nonché al risarcimento dei danni arrecati a Ridolfo
Francesco, da liquidarsi in separata sede con provvisionale di C 10.000; lo
assolveva, invece, del reato ascrittogli al capo V) della rubrica con formula per non
aver commesso il fatto.

3.

Pronunciando sull’appello proposto dai difensori dell’imputato, la Corte

d’appello di Caltanissetta, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava in parte la
sentenza impugnata, assolvendo l’imputato dal reato a lui ascritto al capo Z) per

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14 bovini, sottraendoli a Ridolfo Francesco che li deteneva all’interno di un terreno

non aver commesso il fatto e, per l’effetto, riduceva la pena inflitta ad anni sette e
mesi otto di reclusione; eliminava la statuizione di condanna al risarcimento dei
danni in favore della parte civile Ridolfo Francesco; confermava nel resto.

4. Avverso la pronuncia anzidetta i difensori dell’imputato, avv. Mina Rizzo e
Luigi Tosetto, hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle
ragioni di censura di seguito indicate.

violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cod.proc.pen. e
art. 416

bis cod.pen., sul rilievo dell’incongruità, contraddittorietà e mera

apparenza della motivazione con riferimento al reato di associazione mafiosa. Si
lamenta, in particolare, che il giudice di appello abbia indebitamente rimesso in
discussione fatti già coperti da giudicato assolutorio per il reato
associazione
‘I. e

414.t
mafiosa, affermando, anche per il periodo temporale oggetto
prohuncia
y

v

definitiva, la sussistenza di condotte sussumibili nell’alveo della fattispecie
associativa di cui all’art. 416 bis cod. pen. Nell’impossibilità di provare l’assunto
accusatorio così come formulato in rubrica, ovverosia il rapporto di subordinazione
nei confronti dell’Amaradio, la sentenza impugnata aveva finito, poi, con il virare
verso altra direzione, ossia il collegamento con altra persona, Seminara Salvatore.
Tentativo, questo, neppure riuscito in mancanza di prova di contatti penalmente
rilevanti tra i due, essendo piuttosto emersa l’insoddisfazione del Seminara per
l’impossibilità di indurre l’imputato a mettersi in affari con determinate persone.
D’altronde, nessuna prova era stata offerta in ordine alla presunta natura
mafiosa dei rapporti tra il Salatino ed altri, anche alla luce delle acquisite sentenze
che avevano consentito di escludere, per alcuni dei furti, la circostanza aggravante
dell’art. 7 di n. 152/91; né era dato intendere con chi lo stesso imputato si fosse
effettivamente associato, in mancanza assoluta di prova al riguardo. In primo
luogo, era erroneo il convincimento che fosse circostanza acquisita la vicinanza del
Salatino alla famiglia mafiosa di Enna, sin dagli inizi degli anni 2000, smentita, in
realtà, dall’anzidetta sentenza assolutoria. Erroneamente, il giudice di appello aveva
ritenuto di poter riutilizzare gli elementi probatori acquisiti nel giudizio definito con
sentenza assolutoria, anziché limitarsi, secondo insegnamento giurisprudenziale, a
mera rivalutazione degli stessi. Peraltro, nello specifico, gli elementi rivalutati erano
costituiti essenzialmente dalle propalazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia
Leonardo Angelo, Di Dio Angelo e Di Dio Liborio, già ritenute inidonee a provare la
partecipazione mafiosa dell’imputato nel precedente giudizio sino alla data della
sentenza emessa in data 9 luglio 2003; rispetto a tali elementi la Corte territoriale,
anziché limitarsi a mera rivalutazione, aveva sostanzialmente rimesso in
discussione il contenuto del precedente giudicato. Le anzidette circostanze, in ogni
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5. Con il primo motivo del ricorso proposto dall’avv. Mina Rizzo si deduce

caso, non potevano essere addotte a sostegno di un fatto diverso, anche in
considerazione della circostanza che i collaboratori di giustizia avevano iniziato a
collaborare in epoca pregressa ed avevano riferito in merito a fatti precedenti a
quelli oggetto del presente giudizio ed ormai coperti da giudicato. Era evidente, del
resto, che le propalazioni accusatorie non avrebbero potuto ritenersi riscontrate da
elementi risalenti al periodo successivo, oggetto di odierna contestazione, per
l’ovvia ragione che i fatti successivi non potevano essere conosciuti dagli anzidetti
collaboratori.

dichiarazioni fossero attendibili. Per quanto riguarda Angelo Leonardo, erano state
del tutto ignorate le doglianze difensive contenute nei motivi di appello in ordine al
fatto che il collaborante avesse reso dichiarazioni soltanto de relato sulla persona
del Salatino, affermando di non averlo mai conosciuto di persona e di non saper
nulla in ordine ad attività illecite, da parte sua. Peraltro, era stata ignorata la
circostanza riferita dallo stesso collaboratore secondo cui l’imputato, dopo
l’uccisione di tal Minacapilli, era stato messo da parte; e, comunque, non era stato
considerato che il dichiarante aveva riferito di condotte antecedenti a quelle
dell’odierna contestazione. Per quanto riguarda il collaboratore Angelo Di Dio, la
sentenza impugnata era contraddittoria nella parte in cui ne riteneva l’attendibilità,
posto che lo stesso aveva riferito de relato circostanze apprese dal padre Liborio Di
Dio ed oltretutto inutilizzabili in quanto clamorosamente smentite dall’acquisito
certificato del DAP, che aveva escluso la riferita codetenzione del genitore con il
Salatino.
Ad ogni modo, non concernendo punti decisivi, la pluralità delle dichiarazioni
non realizzava quella “convergenza del molteplice” richiesta dalla giurisprudenza di
questa Corte di legittimità perché si conferisse rango probatorio alle stesse
propalazioni. Del tutto immotivati, pertanto, erano gli assunti argomentativi che le
propalazioni dei collaboratori di giustizia consentissero di affermare la vicinanza del
Salatino, tra il 1996 ed il 2000, alla famiglia mafiosa di Enna; che fosse “fatto
notorio” la circostanza che l’imputato si fosse ritirato dal territorio di Assoro e
Leonforte dietro lo specchio di un’attività illecita di allevatore; che, ai fini
dell’affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione mafiosa, fosse utile
il riferimento al rapporto tra Seminara e Salatino ed alla presunta “attività di
mediazione” da lui svolta in riferimento ad alcuni episodi specificamente indicati.
All’uopo, i giudici di merito avevano travisato il contenuto delle captazioni
telefoniche ed ambientali, come la conversazione tra Seminara e Galletta
relativamente alla necessità di fare “entrare nella suonata” l’odierno ricorrente.
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 606
lett. b) ed e) cod. proc. pen; 81 dell’art. cpv, 110, 61 n. 5, 624, 624 bis, 625 n. 5 e
8 cpd.pen. e 7 I. n. 203/91. Con particolare riferimento al reato ascritto al capo T)
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D’altra parte, infondatamente, il giudice di appello aveva ritenuto che le dette

della rubrica, la responsabilità penale dell’imputato era fondata su evidente
equivoco in relazione al contenuto delle captate conversazioni telefoniche.
Con il terzo motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento al furto
aggravato ascritto al capo DD), considerato che gli elementi probatori utilizzati dal
giudice d’appello erano assolutamente insufficienti a sostenere il giudizio di penale
responsabilità.
Con il quarto motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento agli
artt. 62 bis e 133 cod.pen., in ragione del mancato riconoscimento delle attenuanti

edittale, in ragione del ruolo marginale rivestito dall’imputato; della formale sua
incensuratezza; del corretto comportamento processuale; dell’attività lavorativa da
lui svolta in settore particolarmente gravoso, come l’allevamento di bestiame,
nonché, infine, delle precarie condizioni economiche in cui versava.
Inoltre, nei suoi confronti avrebbe dovuto essere applicata la sanzione prevista
per il reato di cui all’articolo 416

bis cod. pen. nel testo vigente prima della novella

del 24 luglio 2008, in ragione della data del commesso reato. In particolare, la
precedente normativa prevedeva, per la semplice partecipazione, la pena da cinque
a dieci anni di reclusione e non già da sette a dodici anni di reclusione come
attualmente previsto per effetto del 26 maggio 2008 n. 92, convertito con
modificazioni in I. 24 luglio 2008 n. 125. Erronea era, dunque, la motivazione nella
parte in cui si affermava che all’imputato sarebbe stato applicato il minimo edittale,
ovviamente riferendosi al nuovo regime sanzionatorio. In ogni caso, mancava del
tutto la motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, che avrebbero
dovuto essere considerate prevalenti, e mancava altresì idonea motivazione in
merito ai parametri di determinazione dettati dall’art. 133 cod. pen.
Con memoria depositata il 28.11.2013, l’avv. Rizzo ha dedotto nuovi motivi,
eccependo violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cod.
proc. pen., con riferimento agli artt. 416 bis, 110, 624, 625 nn. 2, 5 e 7, 61 n. 5
cod. pen. e 7 d.l. n. 151/1991. Ribadisce,in proposito, sulla base di ulteriori
considerazioni, l’inidoneità delle risultanze probatorie utilizzate dal giudice di
appello, anche alla luce del contenuto equivoco delle captate conversazioni e delle
contraddizioni in cui era incorso il collaboratore di giustizia Salvatore Di Giovanni.

6. Il primo motivo del ricorso proposto dall’avv. Tosetto denuncia violazione
dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen. per violazione di legge e mancanza di
motivazione. Rileva, al riguardo, che il giudice di appello aveva ritenuto che le
numerose attività d’intercettazione esperite tra il 2006 ed il 2007 consentissero di
ritenere che la famiglia mafiosa ennese stesse riorganizzando il controllo mafioso
del territorio sotto la direzione di Giancarlo Amaradio senza indicare però quali
elementi specifici suffrassero un tale convincimento. Inoltre, lo stesso giudice aveva
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generiche nonché della mancata applicazione di pena più prossima al minimo

ritenuto attendibili le propalazioni dei collaboratori Leonardo Angelo e Di Dio
Angelo, nonostante che le stesse fossero state considerate inattendibili nel
precedente giudizio conclusosi con sentenza assolutoria.
Con il secondo motivo si deduce identico vizio di legittimità per
contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’art.
416 bis cod. pen. Contraddittoria, in particolare, era l’affermazione secondo cui,
nonostante le smentite documentali, le chiamate degli anzidetti collaboratori
fossero state ritenute credibili, nella parte in cui riferivano della generica vicinanza

Con il terzo motivo si denuncia identico vizio di legittimità, in riferimento alla
stessa norma sostanziale, sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione
nella parte relativa al rapporto tra l’imputato e Seminara Turi, affermato pur in
mancanza di contatti diretti tra i due e sull’equivocata captazione telefonica,
secondo cui occorreva fare entrare «Angelo nella “suonata”».
Con il quarto motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento alla
parte della sentenza relativa al ritenuto “controllo sul territorio” sulla base delle
dichiarazioni di Di Giovanni rese all’udienza di appello del 26 luglio 2012,
trascurando il fatto che, dei pretesi 30 furti di cavi Enel che avrebbe commesso,
previo benestare del Salatino dal 2001 al 2007, non vi era in atti alcun riscontro,
mancando pure le denunce dell’Enel, mentre, quanto al furto sub DD), relativo
all’anno 2007, il collaboratore era caduto in contrasto con sé stesso, stante la
confessione dibattimentale di aver commesso furti ad esclusione del furto anzidetto.
A contestazione difensiva, il collaborante si era giustificato assumendo di aver
dimenticato tale episodio e di essersene ricordato soltanto nell’ultimo colloquio con
gli inquirenti, avvenuto tre settimane prima: guarda caso, però, si trattava
dell’unico furto di cui egli stesso era imputato, già prima dell’inizio della sua
collaborazione.
La più stridente contraddittorietà della sentenza risiedeva, però, nel fatto che
dall’anzidetta propalazione il giudice di merito aveva tratto la certezza che il
Salatino gravitasse in ambiente mafioso, nonostante il collaboratore, su espressa
richiesta del P.g., avesse perentoriamente negato di conoscere Salatino come
appartenente ad un’organizzazione mafiosa, escludendo, altresì, che i furti
commessi nella zona si inserissero nell’ambito di un’organizzazione associativa e
che procurassero profitti di sorta all’odierno ricorrente.
Si contesta, inoltre, che l’intercettazione telefonica valorizzata in sentenza fosse
davvero dimostrativa dell’assunto che l’imputato fosse mandante del delitto.
Con il quinto motivo si denuncia identico vizio di legittimità con riferimento alla
palese illogicità dell’assunto secondo cui il ruolo sovraordinato dell’imputato rispetto
al Di Franco fosse deducibile dal mancato interessamento del primo in favore del
secondo, ove la circostanza deponeva esattamente in senso contrario.

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del Salatino all’organizzazione mafiosa nel periodo di tempo tra il 1996 ed il 2000.

Con il sesto motivo si deduce identico vizio di legittimità nella parte in cui
sosteneva che i furti commessi su mandato del ricorrente consentissero
all’associazione mafiosa di autofinanziarsi e di provvedere al sostentamento degli
affiliati. Infondatamente, era stato ritenuto che l’assunto potesse essere provato dal
contenuto di alcune conversazioni captate, nonostante la loro equivocità ed il fatto
che fossero intercorse tra altri soggetti.
Con il settimo motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento al
capo T) della rubrica, sul rilievo che l’affermazione di penale responsabilità era

“sembrava”, con riferimento alla conversazione specificamente indicata.
Con l’ottavo motivo si deduce identico vizio di legittimità con riferimento al
capo DD), sul rilievo che la responsabilità penale del Salatino era stata affermata
sulla base di quanto dichiarato in udienza (26 luglio 2012) dal collaborante Di
Giovanni, di cui ingiustamente era stata riconosciuta la piena attendibilità,
considerato che il dichiarante aveva iniziato la sua collaborazione solo qualche mese
prima e le sue propalazioni fossero tutte da verificare. Ad ogni modo, le anzidette
dichiarazioni non valevano a dimostrare che l’imputato fosse mandante o avesse
dato, comunque, il permesso alla commissione dei furti, tanto più in ragione delle
già rilevate contraddizioni in cui era incorso il dichiarante proprio in riferimento al
furto a lui stesso contestato.
Con il nono motivo si denuncia violazione dell’art. 606 lett. b) cod. proc. pen.
per inosservanza della legge penale in relazione all’art. 7 I. n. 203/91, circostanza
che era stata ritenuta sussistente nonostante le dichiarazioni del Di Giovanni, che
aveva escluso che i furti fossero stati commessi nell’ambito di una condotta
criminosa associativa di tipo mafioso.
Con il decimo motivo si deduce violazione di legge e difetto di motivazione con
riferimento agli artt. 62 bis e 133 cod. pen. per ingiusto diniego delle attenuanti
generiche nonostante l’incensuratezza e l’evidente marginalità della sua condotta.
Inoltre, la pena per il reato associativo era stata erroneamente applicata in ragione
della normativa introdotta con d.l. 23.5.2008 n. 92 successiva alla contestazione
risalente al gennaio 2008. L’errore in cui era incorso il giudice di appello era
dimostrato dallo stesso assunto argomentativo secondo cui la pena sarebbe stata
determinata “in assoluta prossimità al minimo edittale”, con ovvio riferimento al
minimo di sette anni di cui alla normativa successiva e non certo di anni cinque di
cui alla normativa vigente all’epoca dei fatti di cui in contestazione.
Con memoria del 5 novembre 2013 l’avv. Tosetto ha proposto motivi nuovi in
ragione del fatto che, successivamente al deposito del ricorso, il collaboratore di
giustizia Salvatore Di Giovanni aveva reso al P.g. di Caltanissetta ulteriori
dichiarazioni, le cui trascrizioni erano state versate in altro procedimento a carico
dei coimputati per i quali si era proceduto separatamente. Il motivo nuovo si

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fondata su proposizioni dubbiose e perplesse, rivelate dall’uso del verbo

riferiva a quanto dedotto con il quarto motivo del ricorso principale, relativo al reato
associativo, ed all’ottavo motivo riguardante il capo DD) della rubrica, rispetto ai
quali le propalazioni del collaboratore avevano assunto ruolo, rispettivamente,
preminente e pressoché esclusivo ai fini dell’affermazione di colpevolezza. Nei
motivi anzidetti si era già sostenuta l’inattendibilità del dichiarante che risultava
confermata dalle successive dichiarazioni, in ragione delle contraddizioni in cui egli
era incorso specie con riferimento al furto di cui al capo DD) della rubrica.
In aggiunta a quanto dedotto con l’ottavo motivo, il difensore segnalava ulteriori

allo stesso delitto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le articolate e – per più aspetti – ridondanti e ripetitive ragioni di censura,
di cui si è tentato, in narrativa, un’esposizione quanto più sintetica, si collocano
tutte in area assai prossima all’inammissibilità.
Ad ogni modo, in una visione d’assieme, possono ritenersi prive di
fondamento, sì da giustificare l’epilogo decisionale del rigetto.
Si inizierà con il dire – in riferimento alle censure relative alla ritenuta
idoneità del compendio probatorio, apprezzabili congiuntamente per identità di
oggetto – che la struttura motivazionale della sentenza in esame rende ampia ed
esaustiva ragione del ribadito giudizio di colpevolezza a carico di Angelo Salatino, in
esito a scrupolosa rivisitazione dell’intero compendio probatorio.
Il conclusivo giudizio di validità delle risultanze processuali in funzione della
confermata statuizione di colpevolezza, in ordine al reato associativo ed alle altre
imputazioni, è espresso sulla base di un percorso argomentativo immune da errori
od incongruenze di sorta. E’ dato cogliere, in tutta evidenza, che l’impostazione
accusatoria, recepita in sentenza, indica nel Salatino l’esponente di punta
dell’articolazione periferica di

cosa nostra

e, più precisamente, l’esclusivo

riferimento locale in territorio ennese del potere mafioso – con tutto il corredo di
forza intimidatrice e di soggezione promananti dal vincolo associativo – per ogni
impresa delinquenziale da intraprendere nel territorio (segnatamente nel settore dei
furti, specie di bestiame). Il ruolo a lui attribuito non era, però, solo quello – proprio
della rappresentazione iconoclastica del

boss

mafioso o padrino,

dominus

incontestato dell’ambito spaziale di pertinenza – di chi, per carisma mafioso, era
preposto a dare, di volta in volta, il necessario benestare, ma anche quello
(propulsivo) di mandante di singole iniziative delinquenziali, nel settore dei furti, i
cui proventi sarebbero stati destinati al sostentamento delle famiglie dei sodali
ristretti in carcere ed al pagamento delle spese legali in loro favore.

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discrasie e ragioni di inverosimiglianza del racconto del collaboratore in relazione

L’architettura accusatoria, a sostegno di siffatta ipotesi, poggia su due
fondamentali pilastri: per un verso, le plurime dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia e, per l’altro, gli esiti delle disposte captazioni.
E’ appena il caso di osservare, in proposito, a fronte di indiscusso ed oramai
consolidato insegnamento di questa Corte regolatrice, che si tratta, su entrambi ì
versanti, di materiale cognitivo, normalmente, sottratto al controllo di legittimità,
ogni qual volta la motivazione del giudice di merito esprima, con argomentazione
coerente, logica e giuridicamente corretta, il convincimento di piena valenza

il reale significato dimostrativo delle anzidette risultanze, dovendo il richiesto
esame arrestarsi alla verifica

ab extrinseco

della pertinenza, correttezza e

plausibilità del compendio giustificativo, in forza del quale il giudice di merito abbia
ritenuto che il materiale di prova sia idoneo e sufficiente a sostenere una
statuizione di colpevolezza. E, con particolare riferimento alle fonti dichiarative,
quella verifica deve limitarsi ad accertare se il giudice a quo abbia fatto buon
governo delle regole di giudizio, che, per consolidata lezione giurisprudenziale,
devono presiedere alla relativa delibazione, con riguardo al controllo della credibilità
soggettiva e poi dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle propalazioni
accusatorie, sì che possa ritenersi raggiunto, in ipotesi di pluralità di propalazioni, lo
standard probatorio richiesto per il conseguimento della c.d.

convergenza del

molteplice.
Nel caso di specie,i1 richiesto collaudo ha esito largamente positivo.
Ed infatti, nell’approccio all’esame delle dichiarazioni dei numerosi collaboratori di
giustizia, il giudice territoriale si è attenuto agli anzidetti canoni di giudizio,
procedendo a prudente apprezzamento delle parole di accusa dei collaboratori di
giustizia, non prima di aver saggiato il coefficiente di affidabilità di ciascun
dichiarante, di volta in volta riscontrato in relazione, soprattutto, all’appartenenza
all’universo delinquenziale di riferimento e, dunque, alla presumibile conoscenza di
logiche e dinamiche interne della fenomenologia mafiosa nonché identità delle
persone coinvolte. D’altro canto, quel giudizio di affidabilità restava enfatizzato dal
rilievo che, in atti, non fosse emersa ragione alcuna che lasciasse, fondatamente,
ritenere che le diverse voci d’accusa fossero la risultante di un previo concerto
calunnioso in danno del Salatino. Nella pluralità e convergenza delle accuse, proprio
in ragione del riconosciuto tasso di affidabilità di ciascuna di esse, finivano con il
diluirsi marginali discrasie od inesattezze mnemoniche e di esse, comunque, la
Corte territoriale non ha mancato di dare plausibile e convincente spiegazione,
anche con riferimento alla smentita documentale di un preteso periodo di
codetenzione del Salatino con una delle fonti di conoscenza indiretta di un
contributo dichiarativo.

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dimostrativa dell’apporto probatorio. Non compete, infatti, a questo Giudice vagliare

Quanto ai necessari riscontri, le anzidette propalazioni hanno trovato vicendevole
conferma nella stessa convergenza del molteplice ed ulteriore riscontro negli esiti
delle disposte captazioni e nelle altre emergenze processuali.
L’impianto motivazionale non merita le diffuse critiche dei difensori neppure
sul piano della pretesa violazione del giudicato assolutorio di cui l’imputato aveva in
precedenza beneficiato, per identica contestazione associativa riguardante un
diverso arco temporale. Ed infatti, correttamente gli elementi della pregressa
vicenda giudiziaria sono stati oggetto di rilettura alla luce dei nuovi elementi
ex post dell’effettiva

estraneità dell’imputato al contesto mafioso anche in epoca risalente e, ad ogni
modo, sono stati ritenuti pienamene capaci di sostenere l’accusa di partecipazione
mafiosa nel periodo temporale di riferimento, oltre ai correlati addebiti menzionati
nei diversi capi d’imputazione.

2. La motivazione che precede dà conto della ritenuta infondatezza dei primi tre
motivi del ricorso principale dell’avv. Rizzo e dei motivi nuovi (rectius aggiunti) che,
in realtà, altro non sono che puntualizzazioni ed ulteriore sviluppo delle censure già
dedotte; nonché dei primi otto motivi del ricorso dell’avv. Tosetto.
E quanto ai motivi nuovi, addotti da quest’ultimo difensore nella memoria indicata
in epigrafe ed articolati soprattutto alla luce di successive dichiarazioni del
collaboratore De Girolamo – asseritamente confermative,

ex post, dell’eccepita

inattendibilità del dichiarante – è sufficiente considerare che si tratta di acquisizioni
probatorie successive che non possono essere delibate in questa sede, ove,
notoriamente, non è neppure consentita la produzione documentale di fatti
successivi.

3. Inammissibile, invece, è la doglianza relativa all’assetto sanzionatorio, che
costituisce oggetto di convergenti censure nei motivi decimo del ricorso dell’avv.
Tosetto e quarto del ricorso dell’avv. Rizzo. Ed invero, il profilo di doglianza
afferente al diniego delle attenuanti generiche ed all’entità della pena inflitta
attiene, in tutta evidenza, a questione prettamente di merito, in ordine alla quale
non manca compiuta ed adeguata motivazione.
Il profilo concernente il preteso errore di giudizio, nella relativa quantificazione,
a cagione di erronea applicazione della normativa introdotta con d.l. 23.5.2008 n.
92 – successiva alla data del fatto contestato, risalente al gennaio 2008 – è
manifestamene infondato.
Ed invero, non è pertinente l’assunto di pretesa significatività, nel senso
auspicato, dell’espressione usata in sentenza in ordine al quantum della pena, che
sarebbe stata «determinata in assoluta prossimità al minimo edittale», in

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probatori, motivatamente ritenti idonei a far dubitare

riferimento al minimo di anni sette di reclusione, di cui alla novella, e già ai cinque
anni, di cui alla normativa vigente all’epoca del fatto contestato.
Al riguardo, occorre, intanto, considerare che la Corte di merito, nel
confermare, con riguardo alla pena base per il reato di associazione mafiosa, il
quantum irrogato in primo grado, pari ad anni sette, ha ritenuto congruo anche
l’aumento per la continuazione per ciascuno dei due reati di furto (previa
assoluzione per il terzo sub z). Si tratta, com’è evidente, di statuizione del tutto
coerente e consequenziale al condiviso giudizio di congruità del trattamento

a fronte della genericità delle doglianze espresse sul punto nell’atto di appello – al di
là dell’equivoco riferimento alla prossimità al minimo edittale, di cui, però, non v’era
traccia nella sentenza di primo grado. D’altro canto, se può risultare improprio il
riferimento ad una pena di anni sette come valore numerico assai prossimo al
minimo edittale, nella forbice tra cinque e dieci anni, è invece certo che il detto
assunto non può, comunque, ritenersi sintomatico di (errata) applicazione del
nuovo regime, proprio perché la novella ha determinato in anni sette il minimo della
pena. Di talché, in siffatta ipotesi, il giudice a quo avrebbe dovuto esprimersi in
termini di coincidenza e non già di prossimità al minimo edittale.

4. Per quanto precede, il ricorso – unitariamente considerate le impugnazioni
anzidette – deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni espresse in
dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 05/12/2013

sanzionatorio di primo grado, ancorché espressa in termini sintetici – sufficienti però

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