Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9379 del 04/12/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 9379 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: PEZZULLO ROSA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DIBARI MARCO N. IL 09/04/1964
avverso la sentenza n. 136/2007 CORTE APPELLO di MILANO, del
20/04/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/12/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO
Udito- •

Udito, per la parte civile, l’Avv

Data Udienza: 04/12/2013

Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Gioacchino Izzo,
che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore del ricorrente, avv. Pierfrancesco Bruno, che ha
concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 20 aprile 2012 la Corte d’Appello di Milano,
confermava la sentenza del Tribunale di Voghera, con la quale Dibari
Marco era stato condannato alla pena di anni tre e mesi tre di

fraudolenta documentale di cui all’art. 216 L.Fall. perché, nella sua
qualità di titolare della ditta individuale “Nuove Generazioni Editore di
Dibari Marco”, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Voghera in
data 15.2.2000, si rendeva responsabile della sottrazione di parte della
documentazione contabile, laddove in quella presente indicava
situazioni non veritiere, in modo da rendere impossibile la ricostruzione
del patrimonio o del movimento degli affari, nonché per aver posto in
essere comportamenti tali da ritardare il pagamento dei debiti al fine di
procurare a sé un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori,
intentando, in particolare, cause non per tutelare le sue ragioni
giuridiche, ma al solo scopo di ritardare il pagamento dei debiti.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione, con il
ministero del suo difensore, avv. Antonio Rossi, il Dibari lamentando,
con motivi depositati in data 22.6.2012, la ricorrenza dei vizi:
-di violazione di legge e di nullità della sentenza impugnata (art.181
c.p.p.), stante la difformità tra il dispositivo pubblicato in udienza e
quello riportato in sentenza, atteso che la sentenza pubblicata mediante
lettura del dispositivo fissava un termine di giorni trenta per il deposito
della motivazione (termine questo rispettato, posto che la sentenza è
stata depositata dopo ventotto giorni dalla lettura del dispositivo),
mentre, nella sentenza depositata, non vi è menzione di tale termine,
neppure nella parte motiva; stante, dunque, la difformità tra il
dispositivo pronunciato in udienza, che fa fede rispetto a quello reso in
calce alla sentenza, e non versandosi in un’ipotesi sanabile con la
correzione dell’errore materiale, per il mancato richiamo al termine in
parte motiva, il procedimento deve regredire ex art. 185/3 comma
c.p.p.;
-di violazione di legge, per mancata pronuncia di assoluzione in
relazione alla seconda ipotesi di cui al capo d’imputazione (ossia l’aver
intrapreso azioni legali per ritardare il pagamento dei debiti), atteso

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reclusione, oltre alle sanzioni accessorie, per il reato di bancarotta

che l’interpretazione data dalla Corte d’Appello sul punto è contraria alle
norme di legge, in quanto avrebbe dovuto pronunciare sentenza di
assoluzione perché il fatto, ove anche provato, non integra alcuna
fattispecie di bancarotta fraudolenta e, pertanto, non costituisce reato;
-dell’inosservanza della legge penale per violazione dell’articolo 546
lettera e) c.p.p. e dell’omessa/insufficiente motivazione ed errata
applicazione della legge fallimentare in vigore all’epoca dei fatti e
segnatamente degli artt. 31, 48 e 49 L.Fall. ed art. 27 Cost., non

in appello e segnatamente: che il curatore, nell’Unico 2010, ha indicato
che il regime contabile era di contabilità semplificata, sicché il libro
inventari non è necessario; che sono stati forniti al curatore sia il
numero dei c/c che il nominativo della banca; che lo stesso curatore ha
affermato la plausibilità delle registrazione della spesa per contanti con
l’ente poste; che il curatore era stato informato della presenza di
documentazione dell’impresa presso le procure di Genova e Voghera,
essendo stata parte di essa sequestrata presso lo studio del rag.
Crivelli, con verbale nella disponibilità dello stesso curatore ed essendo
compito di quest’ultimo acquisire la documentazione societaria, quando
si trovi sottoposta a sequestro;
-di mancata o contraddittoria motivazione circa la ritenuta sussistenza
dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato in relazione all’articolo
546 lettera e) c.p.p., atteso che, con riguardo a tale ultimo elemento,
la Corte di merito si è limitata a considerare la proposizione di azioni
giudiziarie temerarie e la tenuta presso l’abitazione dei suoceri
dell’imputato della documentazione contabile, laddove la prima
circostanza è rimasta indimostrata ed il luogo di custodia dei documenti
presso l’abitazione dei suoceri corrispondeva alla precedente sede legale
della società; in ogni caso la società era in possesso di tutte le scritture
regolarmente tenute (come da dichiarazioni rese dal m.11o Porcelli della
GdF e dal rag. Crivelli), sicché non si comprende quale sarebbe stato il
vantaggio o la necessità della sottrazione di esse e, comunque, non può
imputarsi al Dibari la sottrazione, essendo stata la documentazione
contabile sequestrata dalla Polizia giudiziaria;
-di violazione di legge, per mancato accoglimento dell’istanza di
rinnovazione dibattimentale, atteso che, a fronte delle richiesta di
autorizzazione all’acquisizione di documenti sequestrati dalle Procure di
Voghera e di Genova, la Corte di merito, illegittimamente, con

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risultando considerati nella sentenza impugnata diversi argomenti spesi

motivazione erronea

(ribaltamento dell’onere di acquisizione) ha

negato tale acquisizione;
-di violazione di legge in relazione al disposto di cui all’art. 133 c.p.
stante la mancata concessione delle attenuanti generiche, essendo stato
valorizzato nella sentenza impugnata il dato della recidiva e non il
comportamento tenuto dal fallito nella procedura che avrebbe condotto
al riconoscimento delle generiche.
Con successivo ricorso integrativo del 30.7.2012 i difensori del Dibari

legge (art. 161-164 c.p.p.) ed in particolare per omissione di notifica
all’imputato e conseguente violazione dell’articolo 24, secondo comma
Cost., atteso che, alla prima udienza tenutasi il 14 febbraio 2012, la
Corte d’appello, constatata l’assenza dell’imputato e ritenendo che le
circostanze lo richiedessero aveva disposto gli accertamenti anagrafici e
la rinnovazione della notifica per la successiva udienza del 20 aprile
2012, ma a tale udienza, senza che siano mai stati effettuati tali
accertamenti anagrafici, in assoluta difformità rispetto a quanto già
disposto, la notifica all’imputato era effettuata presso il difensore ai
sensi dell’art. 161 c.p.p.; che, in particolare, la decisione di svolgere
“accertamenti anagrafici” assunta dalla Corte era irrimediabilmente
vincolata, quindi non suscettibile di successive (contrapposte) decisioni
di non svolgere accertamenti anagrafici in danno dell’imputato,
incidendo evidentemente sull’esercizio di un diritto soggettivo
inviolabile; inoltre, non risultano effettuate le notificazioni presso il
domicilio eletto come risultante dalla sentenza, in violazione degli artt.
161 e 164 c.p.p. e cioè a Ripacandida (Pz), via A. Moro 14, né
ovviamente, in quello dichiarato (motivo per il quale la Corte di appello
disponeva gli “accertamenti anagrafici” nell’ udienza del 14-02-2012).
Con motivi nuovi depositati in data 19 novembre 2013, il Dibari, a
mezzo del nuovo difensore, ha lamentato:
-la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata ex art. 606, lett. e) c.p.p., non risultando considerato il
contenuto della relazione ex art. 33 L. Fall. del curatore fallimentare
acquisita agli atti del processo all’udienza del 20.5.2005, dalla quale si
evince che il Dibari consegnò al curatore il corredo completo delle
scritture contabili in suo possesso ad eccezione del libro degli inventari,
sconfessando così la premessa della totale latenza da parte
dell’imputato nella tenuta delle scritture medesime;

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hanno dedotto la nullità della sentenza impugnata per violazione di

-la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza,
atteso che, con specifico riguardo alla residua ipotesi di tenuta
irregolare della contabilità, nel quale ambito deve più correttamente
circoscriversi l’imputazione, sono state considerate esclusivamente le
deduzioni del curatore circa l’anomalia rappresentata dal frequente
ricorso ad operazioni di cassa ed alla generica contestazione in merito
alla presentazione di istanze di fallimento da parte di creditori, che,
sulla base della medesima contabilità risulterebbero saldati, senza

indicata relazione del curatore;
-la mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata ex art. 606, lett. e) c.p.p., in relazione all’elemento
soggettivo del reato contestato, posto che, sia le contestazioni mosse al
Dibari in altri procedimenti penali, sia il luogo di detenzione delle
scritture, che il carattere dilatorio delle azioni promosse, quest’ultimo
peraltro non provato, non si presentano significativi; inoltre, nella
sentenza impugnata non risulta compiuta una specifica analisi intesa
alla verifica del comportamento dell’imputato ed alla sua ascrivibilità
ad una semplice negligenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non merita accoglimento.
1. Va innanzitutto esaminato in ordine logico il motivo di ricorso
integrativo del 30.7.2012 del quale va rilevata l’infondatezza. Va
premesso che il Dibari risulta aver dichiarato domicilio in Mentana, loc.
Fontenuova, Via L. Capuana 15 ed in tale località è stata disposta la
notifica a mezzo del servizio postale del decreto di citazione per il
giudizio di appello; l’agente postale, tuttavia, restituiva all’ufficio
giudiziario il piego raccomandato, attestando su di esso “sconosciuto al
civico”, sia dalla visione delle cassette postali, che del citofono, come si
evince dalla relata. Alla prima udienza del giudizio di appello, la Corte
di merito rinviava il procedimento al 20.4.2012 per il rinnovo della
notifica e “per gli accertamenti anagrafici” e per tale udienza la notifica
veniva effettuata ai sensi dell’art. 161/4 c.p.p. mediante consegna al
difensore di fiducia, il quale dichiarava, come emerge dal verbale di
udienza, “di non aver nulla da obiettare alla continuazione” della
trattazione del procedimento.
Alla stregua di tali emergenze deve concludersi che ritualmente è
stata effettuata la notifica all’imputato ai sensi dell’art. 161 c.p.p.,
comma 4, norma questa che stabilisce che se la notificazione al
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tenere conto delle dichiarazioni del m.11o Porcelli della G.d.F. e della

domicilio dichiarato, eletto o determinato diviene impossibile, è eseguita
a mani del difensore. Secondo i principi costantemente affermati da
questa Corte, a rendere impossibile la notificazione occorre l’avvenuto
trasferimento altrove del domicilio o la sopravvenienza di altra causa
che renda definitivamente impossibile la notificazione in quel luogo
(Sez. 1, n. 2655 del 20.12.1996, Sangiorgi, CED 207270; Sez. IV, n.
36996 del 4.7.2003, Tomasini, CED 226378). Nel caso di specie
l’attestazione di “sconosciuto al civico”, accompagnata dalla indicazione

sul citofono, non può avere altro significato se non quello che, all’esito
delle ricerche effettuate in loco, era emerso che il destinatario del piego
raccomandato non era più ivi reperibile, per cui era divenuta
impossibile la notifica presso il domicilio dichiarato, con legittima
possibilità di operarla ai sensi dell’art. 161/4 c.p.p..
La circostanza, poi, che la corte di merito avesse disposto
accertamenti anagrafici, non effettuati, non incide sulla correttezza del
procedimento notificatorio e l’ordinanza che aveva disposto tali
accertamenti ben può intendersi implicitamente revocata.
Va poi considerato, in via assorbente, che la nullità, derivante
dall’esecuzione della notificazione del decreto di citazione per il giudizio
di appello presso il difensore di fiducia, anziché nel domicilio dichiarato
o eletto dall’imputato, deve ritenersi sanata quando, come nel caso di
specie, risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere
l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa, ed è, comunque,
priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla
sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma primo, alle sanatorie
generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182,
oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p. (Sez. VI, n.
28971 del 21/05/2013). Nel caso in esame, come già evidenziato, il
difensore di fiducia del Dibari, all’udienza del 20 aprile 2012, alcunchè
ha dedotto in merito alla notifica effettuata all’imputato ai sensi dell’art.
161/4 c.p.p., anzi, ha espressamente dichiarato di non aver nulla da
obiettare alla trattazione del processo, con ciò sanando eventuali (ma
non rinvenibili nella fattispecie, come detto) vizi prodottisi.
Infondato, infine, si presenta la doglianza effettuata nel motivo di
ricorso in esame circa la mancata notifica all’imputato nel domicilio
eletto come risultante dalla sentenza, in Ripacandida. Via A.Moro 14,
atteso che tale indirizzo è chiaramente riferito alla residenza
dell’imputato, mentre il domicilio dichiarato dal Dibari, come detto, è
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che il nominativo del Dibari non si rinveniva sulle cassette e neppure

pacificamente quello di Mentana, loc. Fontenuova, Via L. Capuana 15.
All’uopo va richiamato il principio secondo cui è legittima la notifica
presso il difensore in ragione dell’impossibilità di effettuarla presso il
domicilio dichiarato, anche se dagli atti risulti la nuova residenza
indicata dallo stesso imputato, nel caso in cui il mutamento o la revoca
della precedente dichiarazione domiciliare non sia avvenuta nelle forme
di legge (Sez. 6, n. 9723 del 17/01/2013).
2. Infondati sono altresì tutti i motivi del ricorso depositato in data

sviluppo dei primi.
2.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della
sentenza impugnata per la difformità tra il dispositivo letto in udienza e
quello riportato in sentenza, ma la mancata riproduzione in quest’ultimo
del termine per il deposito della sentenza non comporta alcuna nullità ai
sensi dell’art. 181 c.p.p. e neppure un errore emendabile con la
procedura di cui agli artt. 130 e 547 c.p.p. Basti all’uopo richiamare i
principi espressi da questa Corte, secondo cui, la mancata riproduzione,
nel testo della sentenza depositata, dell’indicazione del termine più
lungo (nel caso di specie trenta giorni) fissato per il deposito della
motivazione, contenuta, invece, nel dispositivo letto in udienza, non
produce alcuna nullità della sentenza, perché l’art. 546 lett. f) c.p.p.,
nell’indicare il dispositivo come parte necessaria della sentenza, si
riferisce alla pronuncia di assoluzione o di condanna che, una volta
divenuta definitiva la decisione, è il punto di partenza per la successiva
fase di esecuzione. Invece, l’indicazione del termine per il deposito
della motivazione, prevista dall’art. 544 comma 3 c.p.p., contenuta nel
dispositivo letto in udienza, ha una rilevanza limitata alla
determinazione e alla decorrenza del termine per proporre
impugnazione, mentre è del tutto irrilevante ai fini delle successive fasi
di giudizio o dell’esecuzione penale. Pertanto, è sufficiente che tale
indicazione sia contenuta nel dispositivo letto in udienza, ma non è
necessario che essa sia riportata anche nel testo depositato in
cancelleria dopo la redazione della motivazione (Sez. I, n. 9620 del
11.06.1998).
2.2. Infondato si presenta altresì il secondo motivo di ricorso circa il
vizio di violazione di legge ravvisabile nella mancata pronuncia di
assoluzione del Dibari dall’ipotesi descritta nel capo di imputazione
dell’aver intrapreso azioni legali per ritardare il pagamento dei debiti.
Ed invero, l’ indicazione nel capo di imputazione di comportamenti in sé
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22.6.2012 ed i motivi nuovi del 19.11.2013, costituenti ulteriore

astrattamente inidonei ad integrare la fattispecie di reato, che si
collochi, tuttavia, nell’ambito di una descrizione più ampia di condotte
integranti il reato contestato, non richiede apposita pronuncia
assolutoria, specie quando emerga chiaramente che la descrizione di tali
comportamenti sia sovrabbondante o meramente rafforzativa di
condotte già in sé rilevanti. Nel caso in esame, emerge chiaramente
come la descrizione in questione sia “ulteriore” rispetto alla
contestazione integrante il reato, essendo stato strutturato il capo di

rientrante nella fattispecie di cui all’art. 216 L.Fall. (“per aver sottratto
parte della documentazione e in quella presente indicava situazioni non
veritiere….

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e, quindi, attraverso l’utilizzo della congiunzione “nonché”-

da intendersi, per il contesto di inserimento, nel significato suo proprio
di “inoltre”- è stato indicato il comportamento del Dibari dell’aver
iniziato cause per ritardare il pagamento dei debiti. Sia il giudice di
primo grado, che quello di appello hanno in sostanza messo in risalto
tale aspetto, evidenziando che “l’aver intentato azioni per ritardare i
pagamenti…” è indice della sussistenza dell’elemento psicologico del
reato e non della condotta ed in tal senso deve intendersi il capo
d’imputazione. Tale valutazione, in relazione a quanto evidenziato, è
senz’altro immune dal vizio di violazione di legge oggetto di censura.
2.3. Sono infondati, altresì, il terzo motivo di appello ed i primi due
motivi nuovi del 19.11.2013. Ed invero, alcun vizio di violazione di legge
o motivazionale si ravvisa nella sentenza impugnata con riguardo agli
elementi considerati ai fini dell’affermazione della responsabilità del
Dibari, in tale valutazione tenendo conto dei principi affermati da
questa Corte, secondo cui ai fini del vaglio della congruità e
completezza della motivazione del provvedimento impugnato, il giudice
di legittimità deve aver riguardo – ove si tratti di una sentenza
pronunciata in grado di appello (tanto più se di conferma della
precedente decisione: cd. doppia conforme) – sia alla sentenza di primo
grado che alla sentenza di secondo grado, che si integrano
vicendevolmente, dando origine ad enunciati ed esiti assertivi organici
ed inseparabili (Sez. VI, n. 34885 del 7.3.2007).
In particolare, per quanto concerne la circostanza che la ditta avesse il
regime di contabilità semplificata, la Corte di merito ha, in sostanza,
correttamente evidenziato come, a fronte delle dichiarazioni rese dal
curatore, secondo cui all’esito del fallimento gli venivano consegnate
solo poche fatture e il libro giornale dell’ultimo periodo, il regime di

imputazione innanzitutto con l’ attribuzione al Dibari della condotta

contabilità in concreto tenuto dal Dibari non si presenta particolarmente
significativa, non avendo il fallito neppure le scritture della contablità
semplificata. A tale valutazione va aggiunto che, come evidenziato da
questa Corte, l’opzione per la tenuta della contabilità nella forma c.d.
semplificata, riguardando esclusivamente l’ambito tributario, non esime
l’imprenditore dagli obblighi di compilazione e conservazione delle
scritture contabili previste dall’art. 2214 c.c. (Sez. fer., n. 33402 del
06/08/2009).

fondamento del primo motivo nuovo di ricorso, secondo cui la Corte di
merito non avrebbe considerato il fatto che il Dibari consegnò al
curatore il corredo completo delle scritture contabili in suo possesso ad
eccezione del libro degli inventari, circostanza questa specificamente
emergente dalla relazione ex art. 33 L. Fall. del curatore fallimentare,
acquisita agli atti del processo all’udienza del 20.5.2005. Orbene, tale
omissione non risulta aver costituito motivo di doglianza in sede di
appello (come si evince chiaramente dal contenuto dei motivi di ricorso
sopra riportati), non essendo stato in alcun modo indicato il contenuto
della relazione in questione quale elemento a conforto delle tesi
difensive. Pertanto, vanno richiamati i principi espressi da questa Corte
secondo i quali non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione
questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di
pronunziarsi, perché non devolute alla sua cognizione (Sez. II n.22362
del

19/04/2013).

Ferma restando tale valutazione assorbente va, tuttavia, evidenziato
che risultano allegati ai motivi nuovi il verbale dell’ udienza del
20.5.2005, celebratasi innanzi al Tribunale di Voghera, ed una
“relazione del curatore” priva di data e firma, asseritamente non
considerata dalla Corte di merito. Ebbene, dal verbale di udienza in
questione si ricava che le relazioni del curatore, delle quali venne
chiesta dal P.M. e disposta dal Collegio l’acquisizione furono quelle del
1.3.2001 e 5.4.2000, laddove la “relazione del curatore ex art. 33″
allegata in copia dalla difesa non reca alcuna data di ricezione presso
l’ufficio del P.M., né una sottoscrizione, sicchè non pare che essa si
riferisca ad una delle due acquisite agli atti, con ciò inducendo a
dubitare del fatto che il Tribunale abbia avuto nella materiale
disponibilità la relazione in questione ai fini del decidere.
Va, poi, evidenziato che contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente,
nella decisione dalla Corte di merito, che va letta in uno con la

Va in proposito evidenziata l’infondatezza della censura posta a

sentenza di primo grado, come detto, è stata specificamente
considerata la possibile destinazione delle uscite di cassa al pagamento
di spese postali, delle quali l’imputato ammette l’irregolare
registrazione, e con motivazione del tutto logica il giudice d’appello ha
correttamente evidenziato come, anche a voler considerare tale
destinazione, occorreva che lo stesso imputato, proprio a fronte
dell’ammissione delr irregolarità” nella registrazione, dimostrasse
attraverso le ricevute rilasciate dall’Ufficio postale di Casatisma- che

finalità. Per quanto concerne, poi, i sequestri delle Procure di Voghera
e Genova, con i quali sarebbe stata appresa parte della documentazione
contabile della ditta fallita, la Corte di merito, così come aveva già
evidenziato il giudice di primo grado, ha correttamente evidenziato
come il Dibari si sia limitato ad addurre la presenza di tali sequestri
senza produrre i relativi verbali, pur avendo dichiarato di esserne in
possesso (nei motivi di appello, come evidenziato, la difesa
dell’imputato ha espressamente dichiarato di essere in possesso del
verbale di sequestro della Polizia postale di Genova del 19.1.99) e tale
omissione ha impedito di verificare, come si evidenzierà anche innanzi,
la rilevanza dei documenti asseritamente sequestrati rispetto
all’imputazione ascritta al Dibari. Il giudice di primo grado in proposito
ha esaustivamente evidenziato che, in mancanza dei verbali di
sequestro descrittivi del provvedimento cautelare ritenere custodite
presso le Procure indicate le scritture mancanti o la restante contabilità
costituirebbe un’illazione.
Infondata è, poi, la deduzione relativa alla violazione degli artt. 31, 48
e 49 della L.Fall., essendo onere del curatore e non del fallito acquisire
la documentazione oggetto di sequestro. Ed invero, come già detto, nel
caso in esame era necessario, al di là delle generiche deduzioni della
difesa dell’imputato, verificare appunto l’effettivo sequestro da parte
delle Procure di Genova e Voghera di documentazione contabile relativa
alla ditta fallita Nuove Generazioni e tale verifica poteva avvenire solo
attraverso la produzione del verbale in possesso dello stesso imputato.
D’altra parte, poiché il fallito è obbligato a depositare la
documentazione contabile della ditta, all’esito della sentenza
dichiarativa di fallimento, proprio a giustificazione della mancata
consegna, il Dibari avrebbe dovuto indicare esattamente quale
documentazione era, invece, in possesso delle Procure in questione.
In proposito non può certo ritenersi, come sostenuto dal ricorrente,

era tenuto a conservare -I’ effettiva destinazione dei pagamenti a tale

sussistente la violazione da parte del curatore di un dovere/obbligo di
acquisizione della documentazione contabile della ditta fallita, non
essendo senz’altro compito del curatore quello di andare a ricercare “al
buio” documenti presso gli uffici giudiziari.
Le censure contenute nel secondo motivo nuovo, riguardanti la tenuta
irregolare della contabilità, del pari sono infondate.
Ed invero, per quanto concerne la mancata considerazione della
“relazione del curatore” vanno richiamate le considerazioni già svolte

In ogni caso, le specifiche argomentazioni del giudice di primo grado e
di quello di appello, circa l’annotazione di operazioni di cassa di importi
ingenti spesso cumulative che non hanno consentito al curatore di
ricostruire il patrimonio del fallito, non appaiono in alcun modo affette
dai vizi dedotti con i motivi di ricorso, essendo inidonei gli elementi
indicati dalla difesa a superare tale dato. Il giudice di primo grado ha
in via esemplificativa fatto riferimento ad un’operazione in
autofatturazione con uscita di cassa di £ 263.000.000 in data 30.5.99
asseritamente imputata a spese postali, ma priva di pezze giustificative
nonché a pagamenti per cassa durante il 1999 di circa lire 35.881.000,
riportati a saldo di fornitori, che invece vantavano crediti insoluti e,
pertanto, si sono insinuati nel fallimento; il giudice di appello, con
riguardo al primo esempio, ha evidenziato come l’appellante ben
avrebbe potuto dimostrare attraverso le ricevute rilasciate dall’Ufficio
postale, che, nonostante la dedotta irregolare registrazione l'”uscita di
cassa” sì ingente era stata effettivamente destinata al pagamento di
spedizioni postali. A tali logiche e complete valutazioni, fondate su
precisi elementi di fatto, va anche aggiunto che le “pezze giustificative”
di tale uscita non potevano aver costituito oggetto di sequestro, posto
che il sequestro ad opera della Procura di Genova, per stessa
indicazione del difensore è avvenuto nel gennaio 1999, ossia diversi
mesi prima delle operazioni esemplificativamente indicate.
Per quanto concerne, poi, la mancata considerazione delle dichiarazioni
del m.11o Porcelli della Guardia di Finanza rese all’udienza del 20.5.2005
alla pg.33, non considerate dalla Corte di merito, si osserva che tale
censura è inammissibile alla stregua dei principi affermati da questa
Corte (Sez. 6,

n. 29263 del 08/07/2010), secondo cui il ricorso per

cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena
di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le
argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla

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circa l’omessa deduzione di tale questione nei motivi di appello.

valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la
Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa
precluso. Neppure la specifica indicazione dell’atto che non venga
tuttavia integralmente trascritto o allegato al ricorso è idonea a
rendere il motivo di censura autosufficiente con riferimento alla relativa
doglianza (Sez. H , n. 26725 del 01/03/2013)

2.4. Il quarto motivo di ricorso ed il terzo motivo nuovo, relativi alla

dell’elemento psicologico, sono infondati. Vanno innanzitutto
richiamati i principi espressi da questa Corte, secondo i quali, in tema
di bancarotta fraudolenta documentale, per l’integrazione del reato di
cui alla seconda ipotesi dell’art. 216, comma 1 n. 2 r.d. 16 marzo 1942
n. 267, ravvisabile nella condotta dell’aver tenuto i libri e le altre
scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione
del patrimonio della società o del movimento degli affari, è sufficiente il
dolo generico, ossia la consapevolezza che la confusa tenuta della
contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione del
patrimonio. La locuzione “in guisa da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”, formulata
appunto in relazione alla fattispecie della irregolare tenuta delle
scritture contabili, connota la condotta e non la volontà dell’agente,
sicché è da escludere che configuri il dolo specifico, ossia che sia
necessaria la specifica volontà indirizzata a ottenere l’effetto di
impedire quella ricostruzione ( Sez. V, n. 30337 del 23/05/2012).
Per quanto concerne, invece, la fattispecie di sottrazione di libri e di
altre scritture contabili, pure contestata al Dibari, è richiesto il dolo
specifico (Sez V, n. 1137 del 17.12.2008) di procurare a sè o ad altri
un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori mediante
sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture.
Tanto premesso, si osserva che nella sentenza di primo grado, da
leggere, per quanto detto, in uno a quella di appello, vengono
compiutamente indicati elementi rappresentativi del dolo specifico
richiesto dalla prima parte dell’art. 216, comma 1, n. 2 L.F. e
segnatamente la proposizione da parte del Dibari di controversie civili
dal carattere temerario e la fittizia rappresentazione di taluni debiti
come saldati, rivelatisi poi non pagati. La Corte di merito, inoltre, ha
messo condivisibilmente in risalto come anche la circostanza della
conservazione in una stanza presso l’abitazione dei suoceri, invece che

11

mancata o contraddittoria motivazione circa la sussistenza

presso la sede alla ditta, della documentazione imprenditoriale in
quanto fatto anomalo costituisce anch’esso indice della sussistenza in
capo al Dibari dell’elemento psicologico del reato.
Invero tutti gli elementi indicati, da valutare nel loro complesso, posti
in relazione alla circostanza evidenziata nelle sentenze in questione,
secondo la quale dalla scarna documentazione contabile consegnata
al curatore (libro giornale dell’ultimo periodo e poche fatture) non è
stato possibile ricostruire neppure le poche operazioni annotate

specifica volontà del Dibari di impedire agli organi della procedura
fallimentare di ricostruire l’attività imprenditoriale. Da un lato, infatti, il
Dibari ha provveduto ad annotare nella documentazione contabile
depositata alcune importanti operazioni, quali il saldo di alcuni
fornitori, ovvero ingenti esborsi per cassa, dall’altro non ha depositato
proprio quella documentazione che avrebbe consentito di verificare le
stesse e di giustificare quelle operazioni, così come non ha depositato
più in generale la documentazione contabile che avrebbe consentito la
predetta ricostruzione.
D’altra parte, come già accennato, anche a voler ammettere che il
Dibari fosse in regime di contabilità semplificata, ciò non esclude che
tale scelta, riguardando esclusivamente l’ambito tributario, non esime
l’imprenditore dagli obblighi di compilazione e conservazione delle
scritture contabili previste dall’art. 2214 c.c..
Va, poi, evidenziato come la censura del ricorrente relativa alla
mancata valutazione delle dichiarazioni del M.Ilo Porcelli della G.di F.
con riguardo specifico alla regolare tenuta della contabilità da parte del
Dibari, risulta priva del necessario requisito di specificità, posto che
risultano riportate in ricorso alcune dichiarazioni di tale teste,
estrapolate all’evidenza dalla più ampia testimonianza della quale
occorreva

dar

conto.

Per quanto concerne infine l’omessa valutazione delle dichiarazioni del
rag. Crivelli, esse non sono state riportate od allegate al ricorso, sicchè
anche tale deduzione si presenta inammissibile per la ragioni dette.
2.5. Infondato è altresì il quinto motivo di impugnazione – con il quale
il ricorrente si duole del mancato accoglimento dell’istanza di
rinnovazione dibattimentale, con autorizzazione all’acquisizione di
documenti sequestrati dalle Procure di Voghera e di Genova- non
configurandosi nella decisione negativa assunta dalla Corte di merito

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(operazioni di cassa per importi ingenti), sono idonei a dar conto della

alcuna violazione delle previsioni di cui all’art. 603 c.p.p., stante la
mancanza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta. Va
premesso, che alla rinnovazione dell’istruzione nel giudizio di appello,
di cui all’art. 603, comma 1, c.p.p., può ricorrersi solo quando il giudice
ritenga «di non poter decidere allo stato degli atti», sussistendo tale
impossibilità unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano
incerti, nonché quando l’incombente richiesto sia decisivo, nel senso che
lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze, ovvero sia di per sé

35372 del 23.5.2007). Pertanto, la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale,
subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità
conseguente all’insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti ed un
simile potere, che dipende dalla valutazione discrezionale del Giudice e
che resiste alla censura di illegittimità se congruamente motivato,
previsto in funzione di riequilibrio per supplire alle carenze probatorie
delle parti o del giudizio di prima istanza, è esercitatile solo ove tali
carenze possano incidere in modo determinante sulla formazione del
convincimento e sul risultato del giudizio (Sez. II, n.3458 del
01/12/2005, n. 3458). Infine, la prova richiesta con la rinnovazione può
essere ammessa soltanto ove ritenuta necessaria sulla base di
specifiche esigenze, che è onere della parte instante indicare e
documentare (Sez. II, n.36365 del 07/05/2013).
Alla stregua di tali principi corretta si presenta la decisione della Corte
di merito di reiezione implicita della richiesta di rinnovazione, essendosi
l’appellante limitato a far menzione dei verbali di sequestro di Voghera e
Genova senza produrli. Tale produzione, infatti, avrebbe senz’altro
consentito al giudice di appello di valutare, in primo luogo, l’effettiva
sussistenza dei sequestri e attraverso l’indicazione anche sommaria dei
documenti sequestrati, la rilevanza dell’acquisizione rispetto
all’imputazione oggetto di giudizio, ossia la diretta correlazione dei
documenti da acquisire con il reato contestato, trattandosi di sequestri
relativi ad altri procedimenti penali e non potendo essere effettuata
una rinnovazione “al buio”. In secondo luogo, il giudice di merito
avrebbe potuto stabilire, attraverso le indicazioni anche sommarie
contenute nei verbali di sequestro, l’assoluta necessità dell’acquisizione,
in relazione all’eccezionalità della rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale, valutando l’incidenza di tali documenti sulla formazione
del convincimento e sul risultato del giudizio.
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oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. III, n.

Va poi

considerato che ben avrebbe potuto l’imputato, come

segnalato dalla Corte di merito, direttamente richiedere copia dei
documenti sequestrati, essendo a tanto facultato ai sensi dell’art. 258
c.p.p., dando quindi specifica e concreta contezza della loro rilevanza e
della necessità della loro acquisizione
2.6. Infondato è, infine, il sesto motivo di ricorso con il quale il
ricorrente lamenta la violazione dell’art. 133 c.p. in ordine alla mancata
concessione delle attenuanti generiche, ma il diniego in questione è

Corte Suprema, secondo i quali la concessione o il diniego delle
circostanze attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla
discrezionalità del giudice di merito, sottratto al controllo di legittimità,
se motivato anche attraverso l’evidenziazione di quelli tra i criteri di cui
all’art. 133 c.p. ritenuti rilevanti al fine del decidere (Sez. II, n. 40383
del 4.10.2006).
Ai fini della adeguatezza della motivazione in punto di determinazione
della pena, il giudice d’appello non è tenuto, invero, a reiterare
l’indicazione degli elementi di cui all’art. 133 c.p., dovendosi presumere
che detta determinazione sia stata effettuata o riesaminata anche con
riguardo ad ogni elemento acquisito agli atti o indicato in sentenza.
Pertanto, in tema di attenuanti generiche, posto che la ratio della
relativa previsione normativa è di consentire al giudice un adeguamento
della sanzione edittale alle peculiari connotazioni del fatto concreto o del
suo autore in senso favorevole all’imputato, è appunto tale
meritevolezza che necessita di apposita motivazione, dalla quale
emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a
giustificare la mitigazione della pena; per converso l’esclusione risulta
adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di
specifica richiesta volta all’ottenimento delle attenuanti in questione,
indichi plausibili ragioni a sostegno del rigetto senza necessità della
contestazione o invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa
si fonda (Sez. II, n. 11077 del 17.02.2009). Nel caso di specie la
Corte di merito, ai fini del diniego delle generiche, ha richiamato le
argomentazioni già espresse dal Tribunale e segnatamente i numerosi
e specifici procedimenti penali nei confronti del Dibari e tale indicazione
non determina la ricorrenza del vizio denunciato.
p.q.m.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
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immune da vizi. Basti all’uopo richiamare i principi espressi da questa

Così deciso il 4.12.2013

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