Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9337 del 14/11/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 9337 Anno 2014
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: D’ISA CLAUDIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:

VIDETTA CARMELO

n. il 21.05.1976

Nei confronti di

MINISTERO ECONOMIA E FINANZE
avverso l’ordinanza n. 15/2010 della Corte d’appello di Potenza del
9.03.2012.
Visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso
Udita in UDIENZA CAMERALE del 14 novembre 2013 la relazione fatta
dal Consigliere dott. CLAUDIO D’ISA
Lette le richieste del Procuratore Generale che ha concluso per
l’annullamento dell’ordinanza con rinvio.
Letta la memoria depositata per conto del Ministero dell’Economia e delle
Finanze che ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso o il suo
rigetto.

Data Udienza: 14/11/2013

RITENUTO IN FATTO ED IN DIRITTO
VIDETTA Carmelo ricorre per cassazione avverso l’ordinanza, indicata in
epigrafe, con cui la Corte d’appello di Potenza ha rigettato la sua richiesta di
riparazione per ingiusta detenzione in riferimento alla custodia cautelare
patita in carcere dal 14.04.2003 al 7.07.2006 in ordine al procedimento
penale a suo carico per il delitto di concorso nell’ omicidio volontario di Sani
Valentino dal quale era stato assolto con la formula per non aver commesso il

in sede di appello 1’11.03.2009, divenuta irrevocabile il 25.07.2009.
Rifacendosi alle risultanze istruttorie esaminate nella sentenza di assoluzione,
la Corte di Appello ha ritenuto che l’istante aveva contribuito, con colpa
grave, all’emissione del provvedimento restrittivo.
Il ricorrente deduce violazione di legge e carenza di motivazione del
provvedimento impugnato in ordine alla sussistenza del presupposto del dolo
o della colpa grave del richiedente che costituiva causa impeditiva per il
riconoscimento dell’indennizzo riparatorio ed aveva operato un’anomale
rivisitazione delle conclusioni cui era giunto la Corte d’Assise nella sentenza di
assoluzione. Poneva, altresì, in evidenza che la Corte distrettuale non aveva
in alcun modo motivato in ordine alla sussistenza del nesso causale tra
l’asserita condotta colposa e l’emissione del provvedimento restrittivo, né era
stata analizzata la sua condotta processuale al fine di verificare la legittimità
del mantenimento in carcere.
(((((((((((((0))))))))))))
Il ricorso va accolto con conseguente annullamento e rinvio dell’ordinanza
impugnata.
Appare conferente il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte secondo
cui (cfr. fra tutte Cass. Pen., IV” sez., n. 2830, del 12.5.2000) “il sindacato
del Giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la
riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del
procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o
negare il presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta invece
nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito la valutazione sull’esistenza e
la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo restando al giudice di legittimità
soltanto il compito di verificare la correttezza logica del ragionamento”
Per il caso che ci occupa, l’iter argomentativo, seguito dalla Corte d’Appello,
non resiste alle censure del ricorrente, atteso che i ravvisati comportamenti,
ritenuti indici rilevatori della sussistenza del preciso nesso eziologico tra la
condotta tenuta dall’istante – che lo avrebbe posto nella obiettiva situazione

fatto dalla Corte d’Assise di Potenza con sentenza del 3.04.2007, confermata

di gravità indiziaria – e la misura cautelare emessa, afferiscono a condotte
che appaiono essere “neutre”, cioè non manifestamente e verosimilmente
riconducibili ad una situazione che apparentemente potrebbe configurasi
come di partecipazione alla contestata partecipazione ad un’associazione
criminale di tipo mafioso.
Non convince, invero, la motivazione dell’ordinanza impugnata, laddove ha
ritenuto che gli elementi probatori emersi nella fase delle indagini e rimasti
provati con certezza denotano un comportamento gravemente colposo tenuto
dall’istante che ha portato all’applicazione della misura cautelare restrittiva,
accompagnati dal comportamento processuale dell’istante sin dall’inizio di
deliberato silenzio accentuando, in tal modo, la valenza indiziaria già
rilevante.
Invero, il procedimento penale nei confronti del ricorrente era iniziato a
seguito dell’omicidio di Sarli Valentino, avvenuto in agro di Abriola, le indagini
della polizia giudiziaria si erano subito indirizzate verso i componenti
della famiglia Videtta, in particolare verso il capo famiglia Vincenzo ed i
figli Pasquale e Carmelo. Si era infatti accertato che i rapporti tra le due
famiglie;che esercitavano entrambe l’attività di allevatore di bestiame,
non erano buoni e che in passato vi erano stati accesi contrasti e
contese giudiziarie. Dagli atti emergeva che il corpo della vittima era
stato ritrovato in zona impervia ed isolata, frequentata solo dai
componenti delle famiglie Sarli e Videtta, che il tiglio della vittima aveva
notato l’autovettura dei Videtta parcheggiata in località poco distante
dall’azienda Sarli, che la vittima era stata colpita con il cosiddetto
“cuozzo”, la parte opposta della lama della sua stessa accetta, ritrovata
sul luogo indicato dal figlio della vittima il giorno dopo il ritrovamento del
cadavere, era risaputo che i Videtta erano animati da sentimenti di ostilità
verso i Sani e dalle successive captazioni ambientali disposte si era
accertato che i genitori dell’istante, nell’immediatezza del fatto, avevano
imposto ai figli di serbare un silenzio assoluto sull’episodio. A fronte di tale
quadro indiziario l’istante aveva mantenuto, nel corso del procedimento,
un assoluto silenzio, che non aveva aiutato gli inquirenti a fare luce
sull’episodio delittuoso in questione e questo costituiva, secondo la Corte
di appello, colpa grave che impediva la concessione del richiesto
indennizzo. La Corte potentina aveva quindi ritenuto la sussistenza della
colpa grave dell’istante, che impediva la concessione dell’indennizzo,
facendo esclusivamente riferimento al silenzio mantenuto nel corso del
procedimento dal Videtta, senza analizzare le condotte da questi poste in

.„

essere al fine di verificare se esse avevano determinato l’emissione ed il
mantenimento del titolo cautelare. A tale proposito va posto in evidenza
che le indagini avevano riguardato tutto il nucleo familiare dei Videtta ed
erano iniziate a seguito della notizia relativa agli accesi contrasti esistenti
tra i due nuclei familiari ed alle passate contese giudiziarie esistenti tra le
parti. La conversazione ambientale, cui la Corte ha fatto riferimento, è
intervenuta tra i genitori dell’istante e con la stessa essi avevano imposto

fatto solo riferimento agli elementi a carico dell’istante, riportati
nell’ordinanza di custodia cautelare emessa, senza specificare quali siano
stati, oltre il silenzio prestato, in concreto i comportamenti colposi o dolosi
del ricorrente che possano considerarsi in rapporto di causa ad effetto
rispetto alla detenzione. In sostanza dal provvedimento impugnato non
emerge quale sia stato il comportamento incauto posto in essere dal
ricorrente che abbia avuto incidenza causale sull’evento della carcerazione
preventiva non essendo state specificamente indicate le condotte poste in
essere dall’istante da porre in rapporto di causalità con il provvedimento
emesso.
Quanto poi al comportamento processuale dell’istante, si osserva che, ai
fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della colpa
grave dell’interessato, pur dovendosi considerare il diritto del destinatario
della misura ad adottare la strategia difensiva ritenuta più utile nel
processo, che comprenda eventualmente il silenzio o il mendacio, occorre
valutare se la condotta di non collaborazione o di ostruzionismo ovvero di
mendacio adottata dall’indagato, senza necessità e suo beneficio, sia
risultata sinergica all’emissione del provvedimento di cautela, al
procrastinarsi sella sua liberazione ed all’accertamento della sua
innocenza.
Nel giudizio di cui all’art. 314 cod. proc. pen., il giudice, ai fini
dell’accertamento dell’eventuale colpa grave ostativa al riconoscimento del
diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, può valutare il
comportamento silenzioso o mendace, legittimamente tenuto nel
procedimento penale dall’imputato, per escludere il suo diritto all’equo
indennizzo.
Il difensore del ricorrente ritiene, invece, che il silenzio da solo non assume
rilievo ai fini della determinazione della colpa grave, poiché resta fermo
l’insindacabile diritto al silenzio o alla reticenza o alla menzogna da parte
della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato.

ai figli di serbare il silenzio sull’omicidio in questione. La Corte, quindi, ha

In linea generale si può concordare con tale osservazione, va, però,
osservato che, nell’ipotesi in cui solo l’indagato e/o imputato sia in grado di
fornire una logica spiegazione, al fine di eliminare il valore indiziante di
elementi acquisiti nel corso delle indagini, non il silenzio o la reticenza, in
quanto tali, rilevano, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto
meno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli. Tale condotta processuale
può valere a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo

esattamente rilevato dall’opposto indirizzo (Cass. sez. 3^, n. 13714 del
2005), una cosa è il diritto di difendersi con qualsiasi mezzo per preservare la
propria libertà personale da un’imputazione penale, altra cosa è il diritto a
una riparazione giudiziaria quando la detenzione patita si rivela ingiusta
perché la strategia difensiva ha avuto successo o ha comunque ottenuto
l’assoluzione dall’imputazione. Il legislatore infatti non ha riconosciuto
incondizionatamente siffatto diritto alla riparazione, ma l’ha esplicitamente
escluso quando il comportamento dell’indagato, da solo o con altre
circostanze, ha indotto in errore il giudice cautelare circa l’esistenza di indizi
di colpevolezza a carico dello stesso indagato. E ciò in forza del principio
generale stabilito dall’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento del
danno non è dovuto quando il creditore avrebbe potuto evitarlo usando
l’ordinaria diligenza.
Anche su questo punto, insomma, opera l’autonomia dei due giudizi: a)nel
giudizio penale, l’imputato ha diritto di difendersi anche col silenzio e il
mendacio; b) nel giudizio di natura civilistica per la riparazione, il giudice può
valutare il comportamento silenzioso o mendace dell’imputato per escludere
il suo diritto all’equo indennizzo.
Spetterà poi allo stesso giudice della riparazione decidere se il silenzio o il
mendacio bastino da soli, o necessitino del concorso di altri elementi di colpa,
per escludere il diritto all’indennizzo. In questo ambito potrà per esempio
valutare se il silenzio ha svolto colposamente un ruolo sinergico nel
giustificare la misura detentiva in quanto ha ritardato l’acquisizione di
elementi a discarico.”
Orbene, per il caso di specie, l’ordinanza pone in rilievo unicamente il
comportamento non collaborativo del ricorrente ma nulla dice in ordine alla
valenza che esso ha assunto nel provocare, rectius, mantenere la custodia
cautelare
Se tale è la situazione processuale, ancorché la valutazione del
comportamento doloso o gravemente colposo – come insegna la
.-, .-

causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare. Tuttavia, come

giurisprudenza di questa corte – deve essere formulata ex ante, cioè al
momento in cui la misura custodiale è stata emessa o confermata, non è
emerso alcun elemento per potere affermare che il VIDETTA abbia nascosto
circostanze a sé favorevoli che avrebbero potuto immediatamente
scagionarlo dalla accusa di omicidio.
Dunque, va censurata la motivazione dell’ordinanza impugnata essendosi
essa adagiata, nel rilevare il comportamento “caratterizzato da spiccata

dal ricorrente in sede di interrogatorio nel corso del quale egli ebbe ad
avvalersi della facoltà di non rispondere.
La Corte potentina avrebbe dovuto, nel valorizzare il comportamento
silenzioso del ricorrente, indicare quale circostanza a sé favorevole
(emergente dalle carte processuali, con ovvia valutazione ex post) non è
stata riferita tale da evitare l’emissione della misura restrittiva o, quanto
meno, il suo perdurare.
Pertanto, il giudice del rinvio dovrà effettuare tali riscontri, potendo pervenire
ad identica conclusione dell’impugnata sentenza, purché fornisca adeguata
motivazione, seguendo l’iter logico ed i principi di diritto su indicati.
Infatti, in tema di giudizio di rinvio a seguito di annullamento per vizio di
motivazione, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova
decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Suprema Corte,
ma resta libero di pervenire – sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle
censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già
svolte – allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata. Spetta,
infatti, esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di
fatto risultanti dalle emergenze processuali, non essendo compito di
quest’ultimo sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di
merito in ordine a tali aspetti (Cass. sez. 3^, 11 giugno 2004 n. 26380 rv.
228929 fra tante).
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Potenza per
l’ulteriore corso.
Così deciso in Roma alla udienza camerale del 14 novembre 2013.

leggerezza e macroscopica trascuratezza”, sul solo comportamento tenuto

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