Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9319 del 21/11/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 9319 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DOVERE SALVATORE

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Torino ha
confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Torino nei confronti di
Naannni Jaamal e di Fiocco Rosy, giudicati responsabili di omicidio colposo in
danno di El Douri Jabrane.
Secondo l’accertamento operato dai giudici di merito la vittima, dipendente di
fatto della Ro.y.al. s.r.1., della quale gli imputati erano rispettivamente
procuratore institore e amministratore unico, 1’11.1.2007, mentre si trovava
all’interno del capannone che costituiva l’ambiente di lavoro, per scaldarsi aveva
acceso una pira con carta e legno, utilizzando del solvente che, contenuto in una
latta di trenta litri, aveva preso fuoco; le fiamme però avevano investito anche il

Data Udienza: 21/11/2013

lavoratore

per le gravi lesioni riportate e le successive complicanze l

decedeva il 28 maggio 2007.
Agli odierni imputati è stato ascritto di non aver adeguatamente formato ed
informato il lavoratore dei rischi derivanti dall’utilizzo del solvente in questione,
di non averlo custodito adeguatamente, di non aver dotato di appropriato
sistema di riscaldamento l’ambiente di lavoro e di non averlo mantenuto a
temperatura adeguata durante l’orario di lavoro, violazioni ritenute

2. Ricorrono per cassazione gli imputati con atto sottoscritto personalmente
e con unitario motivo deducono violazione di legge e vizio motivazionale.
Per gli esponenti la Corte di Appello ha affermato la violazione dell’obbligo di
formazione ed informazione del lavoratore nonostante non sia stato accertato
quali mansioni fossero svolte dalla vittima. Tale incertezza si riflette sulla tenuta
della motivazione perché importa l’impossibilità di affermare che l’attività
lavorativa alla quale era addetta la persona offesa implicasse l’utilizzo di solventi,
e quindi l’impossibilità di ritenere che il datore di lavoro era tenuto a formare ed
informare il lavoratore circa il corretto impiego della sostanza. Inoltre anche ad
/
ammettere che El Douri Jabrane fosse stato addetto a compiti di fabbro o di
pulizia, dovrebbe concludersi che essi non richiedevano l’uso di solventi.
Si assume che, alla luce delle indicazioni offerte dalla scheda tecnica del
materiale, non sussisteva quell’obbligo di custodire il solvente la cui violazione è
stata posta in capo agli imputati per averlo lasciato alla portata del lavoratore. Al
contempo, non sussiste la violazione dell’obbligo di tenere i solventi lontano da
fonti di calore o fiamme libere.
Quanto alla mancata messa a disposizione di un ambiente di lavoro con
temperatura adeguata, si rileva che non è prescritto di dotare il luogo di lavoro
di impianto di riscaldamento ma solo di provvedere a tenerlo a temperatura
adeguata, tenuto conto delle modalità di lavoro. Nel caso di specie, da un verso
non si è provveduto alla rilevazione della temperatura del capannone, risultando
quindi tale dato fondato solo sulla percezione soggettiva dell’ing. Amendolagine,
inidonea a dare prova della reale temperatura e comunque alterata dalla
circostanza dell’esser stata aperta la porta del capannone nel quale si era avuto
l’infortunio per consentire l’accesso dei soccorritori; dall’altro non è possibile
sostenere che la temperatura fosse inadeguata, non conoscendo quali mansioni
doveva svolgere la vittima.
Si assume, infine, l’abnormità del comportamento del lavoratore, per essere
esso del tutto imprevedibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO

eziologicamente connesse all’evento.

3. Il ricorso è infondato, per i motivi di seguito precisati.
3.1. Il ricorrente censura il giudizio di sussistenza della violazione degli
obblighi di informazione e formazione in relazione alla presenza e all’uso dei
solventi perché non accertate le esatte mansioni affidate al lavoratore. Da ciò
conseguirebbe l’impossibilità di predicare l’avvenuta dimostrazione delle citate
trasgressioni cautelari, perché quegli obblighi sono correlati alle mansioni svolte
dal lavoratore.
L’assunto, così espresso, non è condivisibile.

4, 21 e 22 d.lgs. 626/94, esplicitamente richiamati nella contestazione. Orbene,
l’art. 21 poneva – per quel che qui interessa – l’obbligo di fornire un’adeguata
informazione al lavoratore sui “rischi per la sicurezza e la salute connessi
all’attività dell’impresa in generale”; sui “rischi specifici cui è esposto in relazione
all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia”;
sui “pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi sulla base
delle schede dei dati di sicurezza previste dalle norme vigenti e dalle norme di
buona tecnica”.
L’art. 22, dal canto suo, prevedeva l’obbligo di somministrare al lavoratore
una “formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con
particolare riferimento al proprio posto di lavoro e alle proprie mansioni”.
Come può agevolmente esser notato, i contenuti dell’informazione al
lavoratore non risultavano strettamente parametrati alle mansioni affidategli,
dovendo riguardare anche i rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività
dell’impresa in generale ed altresì i pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei
preparati pericolosi sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalle
norme vigenti e dalle norme di buona tecnica.
Solo in rapporto all’attività di formazione poteva avere una qualche
plausibilità l’ipotesi che essa fosse limitata al posto di lavoro e alle mansioni del
lavoratore (plausibilità venuta meno con il sopraggiungere dell’art. 37 d.lgs.
81/08).
Ne deriva, che in presenza di sostanze altamente infiammabili, richiesta
dalle lavorazioni svolte nell’impresa, si impone di fornire al lavoratore
un’adeguata informazione circa le corrette modalità di uso e di custodia delle
stesse.
3.2. Calando le premesse appena tratteggiate nel caso che occupa, ne
risulta che mentre nella prospettiva dell’accertamento dell’osservanza
dell’obbligo di formazione è realmente decisivo identificare le precise mansioni
alle quali era addetta la vittima, tale operazione non assume eguale rilevanza ai
fini della verifica dell’adempimento dell’obbligo di informazione.

Con riferimento al tempo di consumazione del reato deve guardarsi agli artt.

Correttamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che alla vittima non
fosse stata fornita adeguata informazione in ordine ai rischi connessi alla
presenza del solvente in azienda; rischi da valutarsi anche in relazione alla libera
accessibilità al locale di stoccaggio (in questo senso, contrariamente a quanto
asserito dai ricorrenti, assume valore la circostanza).
3.3. Ma ciò che va decisamente rimarcato è il fatto che la sentenza
impugnata pone alla base del giudizio di responsabilità l’aver omesso di
riscaldare in modo adeguato l’ambiente di lavoro. Tale omissione ha costituito la

modo del tutto inappropriato ma non dissimile da quanto fatto già in precedenti
occasioni, allorquando, come riferito dal teste Salah Achick, si era provveduto a
costruire con mezzi di fortuna una stufa a legno. Il comportamento dei datori di
lavoro si pone quindi in aperto contrasto con quanto previsto dall’art. 11 d.p.r.
303/56 (pure richiamato dalla contestazione), per il quale “la temperatura dei
locali chiusi di lavoro deve essere mantenuta entro i limiti convenienti alla buona
esecuzione dei lavori e ad evitare pregiudizio alla salute dei lavoratori”.
Di ciò il ricorrente sembra farsi carico unicamente quando contesta
l’accertamento in fatto condotto dal giudice di merito che, sulla scorta degli
elementi disponibili, ha concluso per lo svolgimento della attività lavorative ad
una temperatura non adeguata. Ma non può darsi rilievo alla prospettazione
difensiva di una inidoneità della prova concernente la temperatura del
capannone poiché essa investe una valutazione che compete unicamente al
giudice di merito: si propone una interpretazione del compendio probatorio
diversa da quella che ha adottato il giudice del merito ed esplicata con
motivazione non manifestamente illogica e quindi insuscettibile di censure in
questa sede. Già la sentenza di primo grado (trattandosi di ‘doppia conforme’ le
decisioni di merito vanno lette unitariamente, tanto più che la Corte di Appello ha
esplicitamente richiamato quella del primo giudice, affermando di aderire ad
essa) ha ricordato che dalla testimonianza del teste Nicotra e dalle dichiarazioni
dello stesso Naamni risulta che nel capannone, di notevoli dimensioni, non vi
era impianto di riscaldamento.
La censura prospetta una ricostruzione fattuale alternativa a quella assunta
dai giudici di merito.
Vale ricordare che compito di questa Corte non è quello di ripetere
l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il
ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza
strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla
presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della
logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti

4

ragione per la quale il lavoratore si è determinato ad accendere un fuoco in

alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro
ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo
dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto
dati inconciliabili con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e
che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la
loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al
suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere
manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2, n. 13994 del

20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2, n. 19584 del
05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006,
imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989).
3.4. Posto quindi che le condizioni di lavoro nelle quali la vittima si era
trovata a dover espletare le mansioni affidategli (quali che fossero) la
esponevano a temperature non adeguate, non può definirsi abnorme il
comportamento di quella che, nel tentativo di provvedersi di una improvvisata
fonte di calore, utilizzò i materiali disponibili, tra i quali le sostanze infiammabili
non segregate.
Con la locuzione ‘comportamento abnorme’, si definisce il comportamento
del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si pone al di fuori di
ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della
misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; tale non è il comportamento
del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che
nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli.
Talvolta si afferma che deve definirsi abnorme il comportamento imprudente
del lavoratore che sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente,
lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore
nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7267 del 10/11/2009 – dep. 23/02/2010,
Iglina e altri, Rv. 246695). Si è anche affermato che deve trattarsi di un
contegno eccezionale od abnorme del lavoratore medesimo, esorbitante cioè
rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative
ricevute e come tale, dunque, del tutto imprevedibile (Sez. 4, n. 15009 del
17/02/2009 – dep. 07/04/2009, Liberali e altro, Rv. 243208). Sulla
imprevedibilità del comportamento del lavoratore pone l’accento anche Sez. 4, n.
25532 del 23/05/2007 – dep. 04/07/2007, Montanino, Rv. 236991.
Come evidenziano anche solo le poche massime appena riportate,
esemplificative di un orientamento ben più che consolidato, l’abnormità del
comportamento si predica in presenza dell’imprevedibilità della condotta tenuta
dal lavoratore; imprevedibilità che non può mai ritenersi – e non è mai ritenuta –

23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1, n. 20370 del

quando la condotta del lavoratore è tenuta nell’espletamento, sia pure imperito,
imprudente o negligente,

delle mansioni assegnategli. E ciò perché

la

prevedibilità di uno scostannento del lavoratore dagli standards di piena
prudenza, diligenza e perizia è ordinariamente presente, perché quello
scostamento è evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Ciò
non può significare l’avallo di un qualche automatismo, che porti a svuotare di
reale incidenza la categoria del ‘comportamento abnorme’. Piuttosto, simili
precisazioni conducono ad evidenziare la necessità che vengano portate alla luce

connotano la condotta dell’infortunato in modo che, per dirla con una più recente
ricostruzione, “essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio
definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è linterruttivo’ (per
restare al lessico tradizionale) non perché ‘eccezionale’ ma perché eccentrico
rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare” (Sez. 4, n.
49821 del 23/11/2012 – dep. 21/12/2012, Lovison e altri, Rv. 254094).
Orbene, non vi è dubbio che nel caso di occupa la Corte di Appello abbia
fatto corretta applicazione dei principi appena ricordati, posto che risulta ben
prevedibile che in assenza di idoneo ed attivo impianto di riscaldamento a
servizio di un vasto capannone, luogo di esecuzione delle attività lavorative, il
lavoratore provveda altrimenti a predisporre una fonte di calore che renda meno
disagevole lo svolgimento delle proprie mansioni.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

4. Segue al rigetto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21/11/2013.

quelle circostanze peculiari – interne o esterne al processo di lavoro – che

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