Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9212 del 13/11/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 9212 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: ESPOSITO LUCIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MALTESE UMBERTO N. IL 16/04/1961
avverso l’ordinanza n. 89/2011 CORTE APPELLO di PALERMO, del
23/01/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;
lette/s9itte le conclusioni del PG Dott.
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Uditi dif sor Avv.;

Data Udienza: 13/11/2013

Ritenuto in fatto

1.Con ordinanza in data 23/1/2012 la Corte di Appello di Palermo rigettava la
richiesta di riparazione proposta da Maltese Umberto per l’ingiusta detenzione
sofferta in carcere per la durata di due anni e 29 giorni, osservando che costui
aveva dato causa col suo comportamento al provvedimento restrittivo. Il Maltese
era stato sottoposto a processo penale per i delitti di partecipazione ad associazione
a delinquere di stampo mafioso e di tentata estorsione aggravata ai sensi dell’art. 7

commesso il fatto” con sentenza della Corte d’Appello di Palermo divenuta
irrevocabile.
La Corte ravvisava colpa grave nel comportamento tenuto dall’istante, desumibile
dalle risultanze di una intensa attività di intercettazione che aveva consentito la
captazione di svariate conversazioni intercorse tra il ricorrente e i coimputati
Gottuso e Di Napoli, oltre che tra costoro e altri coimputati, quali Musso e Vitrano,
queste ultime contenenti riferimenti alla persona del Maltese. Le conversazioni
erano idonee a essere ritenute significative dell’appartenenza del predetto alla
famiglia mafiosa della Noce e, inoltre, indicative della sua partecipazione
all’estorsione. Rilevava, in particolare, la Corte territoriale che il Maltese, già
condannato con sentenza irrevocabile per il delitto di associazione mafiosa, aveva
intrattenuto stretti rapporti di frequentazione con alcuni dei coimputati condannati
per il reato di associazione mafiosa e aveva, altresì, discusso in una conversazione
telefonica con il Gottuso di soldi costituenti il provento di estorsioni, dando causa,
con le condotte descritte, alla misura cautelare.
2. Avverso la richiamata ordinanza propone ricorso per cassazione il Maltese, a
mezzo del difensore, deducendo, con il primo motivo, il travisamento del fatto nella
parte in cui il Giudice di merito aveva ritenuto – contrariamente a quanto emergeva
dagli atti – che la conversazione del 6/2/2004 fosse intercorsa tra il ricorrente e il
Gottuso e che nella medesima gli stessi avessero discusso di soldi costituenti
provento di estorsioni.
3.Con il secondo motivo deduce violazione di legge e correlato vizio di motivazione
sotto molteplici profili, di seguito specificati.
3.1.Rileva, in primo luogo, che la Corte aveva rigettato l’istanza di riparazione sulla
scorta degli stessi elementi che il giudice della cautela aveva posto a fondamento
del provvedimento cautelare, erroneamente valutandoli quali gravi indizi di
colpevolezza. Osserva che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U. n.
32383/2010) avevano affermato che nell’ipotesi di cui all’art. 314 secondo comma
C.P.P. non potevano rappresentare cause ostative al riconoscimento del diritto alla
riparazione i comportamenti tenuti nella fase precedente all’emissione della misura
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D.L. n. 152/1991, dai quali era stato assolto con la formula “per non aver

cautelare, quand’anche connotati da dolo o colpa grave e idonei a indurre in errore
l’autorità giudiziaria nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle
condizioni di applicabilità della misura medesima; che, pertanto, era insostenibile
continuare a ritenere detti comportamenti ostativi alla riparazione nelle ipotesi di
cui al primo comma dell’art. 314 c.p.p., trattandosi di casi del tutto speculari, nei
quali vi è un sostanziale errore di valutazione da prendere in considerazione al fine
di accertare il diritto all’equa riparazione, talché “opinare diversamente porterebbe

a situazione analoghe”.
3.2.Sotto altro profilo, rileva che la Corte d’Appello non aveva valutato con piena e
ampia libertà il materiale acquisito e non aveva adempiuto al dovere di compiere
una serie di accertamenti e valutazioni in piena autonomia.
3.3.0sserva, ancora, che era stato posto a fondamento del diniego dell’indennizzo il
rapporto di frequentazione del ricorrente con tale Oliveri, pur non essendo stato
costui neppure imputato dei fatti contestati.
3.4. Rileva, inoltre, che la Corte d’Appello non aveva fondato la sua deliberazione
su fatti concreti e precisi, ma su elementi definiti dalla stessa Corte come generici e
irrilevanti sotto il profilo penalistico.
3.5.0sserva, infine, che la nozione di colpa grave doveva essere individuata in
quella condotta connotata da macroscopica negligenza, imprudenza e trascuratezza
atta a creare una situazione tale da costituire prevedibile ragione di intervento
dell’autorità mediante provvedimento restrittivo della libertà personale. Di
conseguenza, era da reputare iniqua la negazione del ristoro economico sulla base
di comportamenti all’apparenza soltanto sospetti, poiché la norma penale non
impone alcun dovere di diligenza rispetto alle condotte che, in sé lecite, possono
essere assunte come indicative della commissione di reati. Richiama la decisione
Corte Costituzionale del 3 dicembre 1993 n. 426, dalla quale afferma possa
desumersi che la condotta volta a depistare le indagini e ad aiutare altri ad eluderle
non esclude il diritto alla riparazione.
4. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, rileva l’infondatezza del
ricorso, chiedendone il rigetto.

Considerato in diritto

5. Va esaminato preliminarmente, nell’ordine logico, il secondo motivo di ricorso,
contenente rilievi che investono questioni di vasta portata. Esso si articola in una
serie di distinte censure, ancorché tutte attinenti alla ritenuta sussistenza della
colpa grave ostativa all’indennizzo e ai profili di violazione di legge e di vizio
motivazionale al riguardo prospettati.
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… all’assurda conseguenza di privilegiare una posizione rispetto all’altra in relazione

Quanto alla prima di tali doglianze, si evidenzia che nessun vizio sussiste per avere
la Corte rigettato l’istanza di riparazione in ragione degli stessi elementi che il
giudice della cautela aveva posto a fondamento del provvedimento cautelare, né
alcuna disparità di trattamento è ravvisabile con riferimento ai presupposti della
colpa grave rilevanti in relazione all’ipotesi contemplata dal secondo comma dell’art.
314 c.p.p., che il ricorrente assume accomunata a quella di cui al primo comma in
ragione dell’esistenza in entrambe di un sostanziale errore di valutazione del

Corte (Cass. S.U. 32383/2010), occupandosi delle ipotesi riconducibili al secondo
comma dell’art. 314 c.p.p., ha chiarito che la possibilità del diniego del diritto alla
riparazione per effetto della condizione ostativa della condotta sinergica del
soggetto rimane preclusa in riferimento ai casi in cui l’accertamento
dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale
avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che il giudice della cautela aveva a
disposizione. Ciò attiene alla configurazione normativa del diritto alla riparazione
nell’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 314: il meccanismo ‘causale’ che
governa la condizione stessa, infatti, prende in considerazione (in modo differente
rispetto all’ipotesi di cui al primo comma) l’insussistenza ab origine delle condizioni
Ct tuivr Q.

per l’adozione o il mantenimento della misura. Al riguardolirCorte ha chiarito che
“allorquando, in effetti, si riconosce che il GIP era oggettivamente nelle condizioni
di negare o revocare la misura, con ciò stesso si esclude la ravvisabilità di una
coefficienza causale nella sua determinazione da parte del soggetto passivo”.
Differenti, quindi, appaiono i presupposti da prendere in considerazione con
riferimento alle ipotesi di cui ai due commi dell’art. 314 c.p.p., con la conseguenza
che le stesse non possono essere assimilate, poiché soltanto nella seconda il dato
normativo pone a fondamento della riparazione l’esistenza di un sostanziale errore
di valutazione del giudice della cautela. Ne consegue che, ove sia richiesta la
riparazione in forza del primo comma dell’art. 314 c.p.p., ben possono essere presi
in considerazione, anche in via esclusiva, gli elementi originariamente valutati in
funzione dell’emissione della misura cautelare.
Quanto al secondo profilo, se ne evidenzia la genericità, poiché il ricorrente non
indica né il materiale acquisito che si assume non valutato, né gli accertamenti che
il giudice della riparazione avrebbe potuto svolgere in autonomia. Ciò non consente
adeguata valutazione della censura.
Passando al terzo profilo, si rileva che i rapporti intercorsi con soggetto non
imputato, che il ricorrente assume essere stati presi in considerazione quale
j,o
elemento indicativo di responsabilità, si inserisce’ nell’ambito di un contesto di
frequentazioni ben più significative, concernenti altri soggetti che nel processo
risultano imputati e successivamente condannati, talché il singolo contatto
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giudice della cautela. Ed invero la richiamata decisione delle Sezioni Unite di questa

evidenziato non assume la connotazione della decisività a fronte dei molteplici
elementi offerti dal quadro probatorio.
In relazione al quarto profilo si evidenzia che, prescindendo dalla genericità
dell’allegazione (non si indicano quali siano i fatti non concreti né precisi sui quali si
assume fondato il riconoscimento della misura), costituisce argomento ininfluente
quello attinente alla dedotta inidoneità, in termini di conducibilità alla responsabilità
penale, dei fatti ritenuti causalmente correlati all’adozione della misura, in ragione
dei distinti piani sui quali operano i due ambiti dell’accertamento della

dell’ingiusta detenzione.
Quanto all’ultimo profilo, si osserva che, pur se vero che la norma penale non
impone alcun dovere di diligenza rispetto alle condotte che, in sé lecite, possono
essere assunte come indicative della commissione di reati, ciò non esclude,
tuttavia, che le medesime ben possano essere ritenute idonee a integrare la colpa
grave ostativa al diritto alla riparazione. Come è noto, infatti, in tema di riparazione
per l’ingiusta detenzione il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia
dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare, in modo
autonomo rispetto all’accertamento della responsabilità penale, tutti gli elementi
probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter
logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di
merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il
presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità
procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando
luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (Cass. Sez. U, Sentenza n.
34559 del 26/06/2002, dep. 15/10/2002, De Benedictis, Rv. 222263). Tali
m.ou,
conclusioni v sono avversate dalla pronuncia della Corte Costituzionale citata
dall’istante, la quale si è limitata a ritenere non contrastante con la carta
fondamentale un’interpretazione della norma sulla riparazione a suo tempo
prospettata dalla Corte di Cassazione in termini di maggiore ampiezza con riguardo
ai presupposti utili per il riconoscimento del diritto alla riparazione, interpretazione
che è stata superata con orientamento giurisprudenziale successivo del pari rimasto
immune da censure d’incostituzionalità.
Rilevata l’infondatezza di tutti i profili di doglianza di cui al secondo motivo di
ricorso, va esaminato il primo motivo, il quale investe una notazione specifica,
rispetto al vasto ambito delle precedenti censure, concernente l’asserita erronea
attribuzione e interpretazione, tra gli elementi posti a fondamento del diniego del
diritto alla riparazione, di una conversazione telefonica. In proposito si osserva che
la notazione appare priva del connotato della decisività, poiché, pur prescindendo
dall’elemento contestato, resta immune da simili rilievi tutto il residuo compendio
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responsabilità penale e del riconoscimento dei presupposti per la riparazione

delle intercettazioni, dalle quali si desumono, in modo certo e indubitabile, stretti e
abituali rapporti di frequentazione dell’istante con coimputati condannati per
associazione mafiosa. A tal proposito basti considerare che è da ritenere
gravemente colposo il comportamento imprudente o negligente che, valutato con il
parametro dell’id quod plerumque accidit, “sia tale da creare una situazione di
allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della
sicurezza collettiva” e renda prevedibile, anche se non voluto, l’intervento
dell’autorità giudiziaria. Alla stregua di tale impostazione è stata ritenuta l’incidenza

ad essere interpretate come indizi di complicità, quando non sono giustificate da
rapporti di parentela, e sono poste in essere con la consapevolezza che trattasi di
soggetti coinvolti in traffici illeciti possono dare luogo ad un comportamento
gravemente colposo idoneo ad escludere la riparazione” (Cass. Sez. 3, Sentenza n.
363 del 30/11/2007 Rv. 238782). Tanto vale a configurare in capo al ricorrente la
sussistenza della colpa grave ostativa alla concessione dell’indennizzo, in conformità
ai parametri giurisprudenziali richiamati.
5. Per le ragioni indicate il ricorso va rigettato. Al rigetto segue la condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 13 novembre 2013.

causale delle “frequentazioni ambigue, ossia quelle che si prestano oggettivamente

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