Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9200 del 03/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 9200 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: D’ISA CLAUDIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
CECCHINI GIANPAOLO

n. il 14.11.1961

avverso la sentenza n. 1672/2012 della Corte d’appello di Napoli del
12.12.2012
Visti gli atti, la sentenza ed i ricorsi
Udita in PUBBLICA UDIENZA del 3 dicembre 2013 la relazione fatta dal
Consigliere dott. CLAUDIO D’ISA
Udito il Procuratore Generale nella persona del dott. Mario Fraticelli che
ha concluso per rigetto del ricorso.
L’avv. Stefano Lomand, difensore di fiducia del ricorrente, insiste per
l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 03/12/2013

RITENUTO IN FATTO

CECCHINI Gianpaolo ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte
d’appello di Trieste, in epigrafe indicata, di conferma della sentenza di condanna
emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Udine il 26.10.2010, in ordine al
delitto di lesioni colpose, aggravato dalla violazione di leggi sulla prevenzione
degli infortuni sul lavoro, ai danni di Bertolini Boris.

rispondere del reato indicato in quanto, nella qualità di dirigente della
“Mangiarotti Spa”, per colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed
inosservanza di leggi e regolamenti, segnatamente della disposizione in materia
di prevenzione di cui all’art. 35 co. 1 D.Lvo 634/94, non avendo dotato di idonee
staffe, per l’operazione di sollevamento dei telai di sostegno, la bisellatrice
Wagner, cagionava al lavoratore Bertolini Loris lesioni personali gravi, guaribili in
un tempo superiore ai 40 gg, in quanto il dipendente rimaneva travolto dal carico
manovrato dalla bisellatrice che, a causa della fuoriuscita della staffa dal telaio,
gli rovinava addosso.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge l nella specie dell’art.
521 c.p.p.. Si premette che il primo giudice aveva ritenuto sussistere l’
elemento psicologico della colpa in relazione non all’utilizzo in generale di staffe
ad “L” prive della marchiature CE, come contestato, bensì all’impiego di tali
staffe quale sistema di imbraco per movimentare carichi stretti e lunghi; utilizzo
che non risulterebbe essere stato vietato dalle direttive aziendali, in quanto la
scelta del tipo di aggancio da utilizzare sarebbe stata rimessa alla valutazione del
singolo operaio. Anche il giudice di appello, ripercorrendo la motivazione del
Tribunale, ha individuato la colpa ascrivibile al CECCHINI nell’aver consentito la
movimentazione di carichi stretti con l’impiego di staffe asseritamente non
idonee ad escludere il rischio di distacco dei materiali e di incidenti ai danni dei
lavoratori. La divergenza tra quanto contestato e quanto ritenuto in sentenza
integra la violazione della disposizione di cui al citato art. 521 c.p.p.. Sul punto la
Corte d’appello, su specifico motivo di gravame, ha ritenuto che comunque
l’addebito era contenuto nell’imputazione ed era stato oggetto di contraddittorio
tra le parti. Si obietta che il corpo centrale della condotta colposa ascritta al
CECCHINI concerne solo ed esclusivamente l’inidoneità delle staffe, elemento di
.4-c..,….t.,
fatto incontestabilmente escluso non solo dalla prova tecnica esperita,*
rimasto altresì acquisito che esistevano precise direttive datoriali e procedure di
sicurezza che disciplinavano espressamente l’utilizzo delle staffe ad “L”. Nel caso
di specie, come confermato dai testi Bertolini, Donato e Mizzau, l’utilizzo di tali

Il fatto è ben delineato nel capo d’imputazione: il ricorrente è stato chiamato a

staffe era particolarmente indicato perché l’unico Yg consentire un posizionamento
di precisione del telaio.
Con il secondo motivo si denuncia vizio di motivazione. La Corte d’appello
afferma che l’addebito da muovere ai vertici aziendali sarebbe consistito nel non
avere vietato l’impiego delle staffe ad “L” nel sollevamento di quel tipo di carico,
in quanto troppo rischioso, consentendo ai dipendenti di decidere
autonomamente e senza alcuna precisa direttiva quale imbraco utilizzare”.

merito tenuto conto delle allegazioni difensive quali: a) l’esistenza di procedure
aziendali PTF 14, le modalità di sollevamento di manufatti fino a 3.000 Kg sono
dettagliatamente descritte nella richiamata procedura; l’esame del perito Cividini
che ha riferito sulle modalità di tali procedure che garantivano ai lavoratori
sicurezza totale; deposizioni dei testi Donati e Mizzau che hanno confermato
l’esistenza di procedure scritte dettagliate per la scelta e l’utilizzo dei mezzi di
sollevamento.
Con il terzo motivo si denuncia altra violazione di legge con riferimento alla
ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta tenuta dal ricorrente e le
lesioni patite dal dipendente Bartolini, pur essendo emerso all’esito
dell’istruttoria dibattimentale l’abnormità della condotta tenuta da quest’ultimo
avendo egli violato le precise istruzioni impartite per iscritto e gli ordini espliciti.
L’infortunio verificatosi è diretta ed immediata conseguenza del c.d. “fattore
umano” consistito nel mancato rispetto di procedure e norme di buona tecnica
nell’utilizzo di apparecchi e mezzi di sollevamento. L’infortunio si è verificato a
seguito di un gesto assolutamente imprudente e pericoloso e per questo
espressamente vietato, posto in essere dal dipendente Bertolii.
Con memoria depositata tempestivamente si espongono motivi nuovi in
particolare si adduce che la Corte d’appello ha erroneamente assunto quale base
della sentenza di condanna la deposizione resa dalla persona offesa nonostante
tale testimonianza sia stata assunta in violazione del disposto normativo di cui
agli artt. 468 e 507 c.p.p. e nonostante la p.o. non abbia mai partecipato al
processo. Il nome della p.o. non faceva parte della lista dei testi del P.M., la sua
testimonianza è stata ammessa ex art. 507 dal Tribunale, violando il codice di
rito che esclude il potere di ammissione dei testi ex officio in rapporto a prove
non tempestivamente dedotte dalle parti.

RITENUTO IN DIRITTO.
Il ricorso va accolto con riferimento al denunciato vizio di motivazione.
Quanto alla prima censura essa è infondata.

L’affermazione rende evidente il vizio di motivazione non avendo la Corte del

Invero, l’articolo 521 del cod. proc. pen., al comma 1, consente al giudice di dare
al fatto una diversa qualificazione giuridica, ma il capoverso dello stesso articolo
impone la trasmissione degli atti al pubblico ministero qualora accerti la diversità
del fatto, senza alcuna possibilità di prosciogliere o assolvere da quello
originariamente contestato. Rilevata, infatti, la diversità del fatto emerso nel
dibattimento, il giudice perde automaticamente la disponibilità del procedimento
e, dunque, non può pronunciarsi su quello originariamente contestato: un

possibilità dell’inizio di una nuova azione penale. In sostanza, il principio della
necessaria correlazione tra il fatto storico contestato e quello ritenuto in
sentenza trae il suo fondamento dall’esigenza di tutela del diritto di difesa
dell’imputato. Si deve evitare, infatti, che questi possa essere condannato per un
fatto in relazione al quale non ha avuto modo di difendersi, presentando esso
connotati materiali del tutto difformi da quelli descritti nel decreto che ha
disposto il giudizio.
E’, però, indirizzo giurisprudenziale, oramai costante, della Suprema Corte quello
secondo cui la violazione del principio in parola si concretizza quando vi è
mutamento del fatto, determinato da una trasformazione radicale nei suoi
elementi essenziali della fattispecie concreta in cui si riassume l’ipotesi astratta
prevista dalla legge, sì da pervenire a un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione
da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa: ne consegue che la
violazione del diritto di difesa, cui presile la regola in esame, non sussiste
quando l’imputato, nel corso del processo, si sia trovato comunque nella
condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (V.: Sez.
3, sentenza n. 35225 del 28.06.2007, Rv. 237517, imp. Di Martino; Sez. 6
sentenza n. 8987 del 31.10.2007, Rv. 235924, imp. Cicoria; Sez. 4 sentenza n.
10103 del 15.01.2007, Rv. 226099, imp. Granata; Sez. 6 sentenza n. 34879 del
10.01.2007, Rv. 237415, imp. Sartori; Sez. 3 sentenza n. 818 del 6.12.2005,
Rv. 233257, imp. Pavanel).
In buona sostanza, la correlazione tra accusa e decisione non va intesa in senso
meccanicistico e formale’, si deve ritenere, come prima evidenziato, che vi sia
comunque tale correlazione tutte le volte che l’imputato ha avuto un’effettiva
possibilità di difesa in ordine a tutte le circostanze rilevanti del fatto, che siano
emerse nel giudizio.
Per il caso che ci occupa l’impostazione originaria del fatto, nei suoi elementi
caratterizzanti, è stata recepita dal Tribunale e poi dalla Corte di merito; è stato
infatti contestato all’imputato di non aver dotato la bisellatrice WAGNER di
di sostegno, con specifico
idonee staffe per le operazioni di sollevamento dei tela).,di

provvedimento in tal senso sarebbe manifestamente abnorme, precludendo la

richiamo all’art. 35 del D.Lvo 624/94 che al 10 comma dell’art. 35 prevede che
“Il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate al
lavoro da svolgere ovvero adattate a tali scopi ed idonee ai fini della sicurezza e
della salute”. E’ pur vero che in sede di istruttoria dibattimentale l’accertamento
sulla non idoneità di tale staffe ha riguardato la mancanza del marchio CE , ma
tale circostanza è stata esclusa in quanto le stesse presentavano tutti i requisiti
di sicurezza.
E, dunque, la inidoneità è stata individuata in riferimento al loro utilizzo nella

Che l’imputato abbia avuto modo di difendersi sul punto è fuori di dubbio, tenuto
conto che la stessa Difesa evidenzia che l’inadeguato utilizzo di tali staffe, come
ritenuto dai giudici del merito, è emerso a seguito della istruttoria
dibattimentale.
Altrettanto infondato è il motivo esposto nella memoria difensiva.
Invero, a parte il rilievo che non risulta che la censura sia stata oggetto del
gravame di merito, si ricorda che nessuna norma preclude al giudice l’assunzione
di prova ai sensi dell’art. 507 c.p.p. la cui legittimazione è parametrata soltanto
all’esigenza ed al dovere del giudice di ricercare la verità sostanziale ed, inoltre,
il ricorso all’integrazione probatoria di ufficio, effettuato prima che sia terminata
l’acquisizione delle prove, costituisce una mera irregolarità procedimentale che,
in mancanza di una specifica previsione normativa, non determina alcuna nullità
o inutilizzabilità. ed anche a tal riguardo la doglianza è manifestamente infondata
(cfr. Cass., sez. 6, 17 giugno 2004, De Masi, Ced Cass., rv. 229761).
Passando all’esame del secondo motivo, questa Corte è chiamata a controllare se
i giudici del merito, una volta accertata la causa materiale dell’evento, abbiano
verificato se l’attività umana abbia interferito sulla produzione dello stesso; se l’
imputato, con la sua condotta, abbia in qualche modo contribuito al verificarsi
dell’infortunio che ha provocato le lesioni al dipendente Bertolini. E se abbiano
risposto al quesito se la condotta del CECCHINI, di chiara natura omissiva, abbia
avuto efficienza causale sul verificarsi dell’evento (causalità della condotta). La
causalità della condotta costituisce, nel complesso accertamento dell’esistenza
del rapporto di causalità, il secondo tassello dell’indagine. Accertata l’esistenza
della causalità materiale (nei termini in precedenza indicati) l’accertamento della
causalità giuridica richiede che si accerti se la condotta dell’uomo abbia
contribuito al verificarsi dell’evento.
Orbene, quanto alla causalità materiale, il giudizio espresso dalla Corte del
merito è pienamente condivisibile, laddove ha evidenziato che non sussistono
dubbi di sorta sul fatto che le lesioni subite dal Bertolini siano state determinate

movimentazione di quel tipo di carico (cavalletti o telai).

dall’essere stato lo stesso travolto dal carico manovrato dalla bisellatrice a causa
di una fuoriuscita della staffa dal telaio, retto dalla stessa.
In ordine

all’accertamento della causalità della condotta tutto è ruotato

sull’accertamento della idoneità delle staffe ad “L”, quelle di cui trattasi, per
sollevare il carico in questione, nel senso se il loro utilizzo garantisse o meno
sufficienti “standard” di sicurezza per i lavoratori.
Orbene, la sentenza impugnata, ancorché in essa vengano riportati gli esiti
dell’istruttoria sul punto, con specifico riferimento alle dichiarazioni rese dai

laddove afferma che “pur ammettendo che l’impiego delle staffe ad “L” fosse
regolamentato da una procedura che doveva garantire il corretto posizionamento
dell’operaio durante la movimentazione del carico e pur condividendo la tesi
difensiva, secondo cui l’omesso controllo dell’osservanza di tali disposizioni da
parte dei dipendenti non è imputabile al datore di lavoro ma ai preposti,
l’addebito che deve essere mosso al vertice aziendale, e che è stato
correttamente individuato nella sentenza di primo grado, è il non aver vietato
l’impiego delle staffe ad “L” nel sollevamento di quel tipo di carico, in quanto
troppo rischioso, consentendo ai dipendenti di decidere autonomamente e senza
alcuna precisa direttiva quale tipo di imbraco utilizzare”.
Appare evidente la contraddittorietà tra la premessa e la conclusione.
Se, invero, l’utilizzazione delle staffe ad “L” era regolamentata da una procedura
e questa era nota ai dipendenti (è la stessa sentenza che evidenzia, come riferito
dal consulente, che vi erano delle procedure, di cui i dipendenti erano informati,
circa il corretto utilizzo e posizionamento delle staffe ad “L” come degli altri
mezzi di sollevamento) e che era precipuo compito dei preposti di fare osservare
tali procedure, si sposta, poi, incongruamente, l’individuazione della “causalità
della condotta”, addebitata all’imputato, nel non aver vietato l’impiego di tali
staffe nel sollevamento di quel tipo di carico. Per altro, si riporta anche altra
dichiarazione del consulente dalla quale emerge che la staffa ad “L” era indicata
per il sollevamento di lamiere mentre per la movimentazione del cavalletto (o
anche telaio) potevano essere utilmente impiegate anche staffe a “strozzo” o
quelle in poliestere ed ha precisato: “sono scelte che i lavoratori solitamente
sanno fare, perché fanno da tempo quelle operazioni, chiaro che Io strozzo mi
richiede meno attenzione e meno precauzione, lo metto li, lo chiudi ed è
comunque chiuso non devo posizionare bene la staffa eccetera”.
Tali affermazioni imponevano di verificare se effettivamente fosse stato
necessario un esplicito divieto circa l’utilizzazione delle staffe ad “L” per sollevare

consulenti, è affetta da vizio di motivazione, nella specie per contraddittorietà,

i telai, considerato che era stato specificamente regolamentato l’uso di quelle
staffe per il sollevamento solo di determinati carichi.
E’ necessario, dunque, che la Corte d’appello di Trieste, risolvendo la
contraddittorietà motivazionale evidenziata, dia contezza della causalità della
condotta, addebitata al CECCHINI, in termini di più chiara ragionevolezza.
Quanto al terzo motivo l’esame dello stesso è in connessione con quello che
precede non tralasciando di osservare che, una volta compiuta l’indagine
causale, il giudice di merito deve procedere, in maniera distinta ma

datore di lavoro, anche nell’ipotesi in cui la condotta imprudente del
lavoratore

non soddisfi i caratteri dell’esorbitanza o dell’abnormità e,

dunque, sia irrilevante in una prospettiva causale – come si è ritenuto nel
caso di specie – In altre parole, è necessario accertare che. a seguito di
essa sia comunque formulabile un rimprovero a carico del datore di lavoro,
ovvero stabilire con giudizio ex ante se il datore di lavoro avrebbe potuto.
nel caso concreto, prevedere l’evento lesivo verificatosi con quelle specifiche
modalità, o se invece si sia concretizzato un rischio diverso da quello che il
datore di lavoro, con tutta la diligenza, prudenza e perizia richiesta, avrebbe
dovuto e potuto evitare.

P.Q.M.
Annulla l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Trieste per un
nuovo esame.
Così deciso in Roma alla pubblica udienza del 3 dicembre 2013.

ugualmente imprescindibile, all’accertamento in concreto della colpa del

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