Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9139 del 19/11/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 9139 Anno 2016
Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Lamera Angelo Giacomo, nato il 5 febbraio 1947
avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia del 15 luglio 2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Pietro
Gaeta, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Data Udienza: 19/11/2015

RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 15 luglio 2014, la Corte d’appello di Brescia ha
confermato la sentenza del Gip del Tribunale di Bergamo del 16 maggio 2013, resa
all’esito di giudizio abbreviato, con la quale – per quanto qui rileva – l’imputato era
stato condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche e con il beneficio
della sospensione condizionale, alla pena di sei mesi di reclusione, per il reato di cui
all’art. 10-ter del decreto legislativo n. 74 del 2000, per avere, in qualità di legale

2009, pari a euro 569.394,75.
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto personalmente ricorso per
cassazione, deducendo, in primo luogo, la contraddittorietà e la manifesta illogicità
della motivazione, perché non si sarebbe considerato che egli aveva presentato
domanda di ammissione della sua società al concordato preventivo e che tale
presentazione era indice di una mancanza di liquidità che determinava, quantomeno,
la mancanza del dolo del reato. Sarebbe stata ignorata la documentazione prodotta
dalla difesa sul punto, e in particolare, una relazione tecnica peritale di parte, dalla
quale emergeva la situazione di crisi della società.
Con un secondo motivo di doglianza, si lamenta l’erronea applicazione dell’art.
45 cod. pen., sul rilievo che la società si era trovata in situazione di crisi per il
mancato pagamento di alcune commesse e che i soci avevano fatto tutto il possibile,
anche attraverso il conferimento di somme di denaro (euro 556.000,00 nel corso del
2010), al fine di immettere liquidità e consentire il pagamento degli stipendi e dei
contributi. Si sostiene che la gravità della congiuntura economica, gli insoluti e la
conseguente crisi di liquidità fossero circostanze non prevedibili, perché la società era
in buone condizioni fino al 2007.
Una terza censura è riferita alla mancanza e alla manifesta illogicità della
motivazione, con riferimento alla determinazione della pena, perché mancherebbe
ogni considerazione del profilo soggettivo di cui all’art. 133, secondo comma, cod.
pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – I primi due motivi di doglianza –

che possono essere trattati

congiuntamente, perché attengono alla pretesa mancanza dell’elemento soggettivo del
reato, in presenza di una crisi di impresa che non sarebbe stata prevedibile e che
sarebbe stata comunque fronteggiata dall’imputato anche sacrificando il suo

AA.,„

rappresentante di una società, omesso di versare l’Iva dovuta per l’anno di imposta

patrimonio personale –

sono inammissibili, perché costituiscono la mera

riproposizione di doglianze che, oltre ad essere formulate in modo non specifico, sono
già state esaminate e motivatamente disattese in primo e secondo grado.
3.1.1 – Deve peemettersi, sul punto, che la giurisprudenza di questa Corte ha
precisato che il reato omissivo a carattere istantaneo previsto dal d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74, art. 10-ter, consiste nel mancato versamento all’erario delle somme
dovute sulla base della dichiarazione annuale che, tranne i casi di applicabilità del

corrispettivi relativi alle prestazioni effettuate. Ha altresì precisato che il reato in
esame è punibile a titolo di dolo generico, essendo sufficiente a integrarlo la coscienza
e volontà di non versare all’erario il tributo nel termine (ex plurimis, sez. 3, 8 gennaio
2014, n. 15416; sez. un, 28 marzo 2013, n. 37424, rv. 255758; sez. 3, 6 marzo
2013, n. 19099, rv. 255327). E la prova del dolo è insita nella presentazione della
dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che
deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilità, entro
il termine previsto.
Quanto ai criteri per la valutazione circa la configurabilità dell’elemento
soggettivo e circa l’applicabilità delle circostanze scriminanti della forza maggiore e
dello stato di necessità, la giurisprudenza di questa Corte ha preso le mosse dalla
considerazione che l’introduzione della norma penale risponde all’esigenza che
l’organizzazione economica dell’impresa per il pagamento dei tributi si articoli su base
annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di
liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si
dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte
all’esigenza predetta. Né può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili
casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale,
insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – nei quali possa
invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione
tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per
quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno riguardare non solo l’aspetto della non
imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe
investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere
adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee
misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti
possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e

regime di «IVA per cassa», è ordinariamente svincolato dall’effettiva riscossione dei

puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte
le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a
consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme
necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti
dalla sua volontà e a lui non imputabili (ex plurimis, sez. 3, 5 maggio 2015, n. 42432;
sez. 3, 24 giugno 2014, n. 8352/2015, rv. 263128; sez. 3, 24 giugno 2014, n. 40795;
sez. 3, 8 gennaio 2014, n. 15416; sez. 3, 5 dicembre 2013 n. 5467/2014, rv. 258055;

rimaste inadempiute per l’esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di
pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è di per sé idoneo a configurare
la diversa circostanza scriminante dello stato di necessità (sez. 3, n. 15416/2014,
cit.), peraltro non invocata nel caso in esame. E anzi, la prova inequivocabile del dolo
del reato è rappresentata proprio dalla consapevole scelta di non pagare il tributo.
In relazione all’eventuale configurabilità della forza maggiore – neanche questa
espressamente invocata dal ricorrente – deve premettersi che la stessa rileva solo
come causa esclusiva dell’evento e mai quale causa concorrente di esso; essa
sussiste, cioè, nei soli casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione
della condotta antigiuridica sono dovute all’assoluta ed incolpevole impossibilità
dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di
illegittimità (ex plurimis, sez. 3, 24 giugno 2014, n. 8352/2015). In altri termini, nei
reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la
semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso. In conclusione: a)
l’esistenza di un margine di scelta per l’agente esclude sempre la forza maggiore
perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria
all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto
essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una
scelta imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) l’inadempimento
tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando
derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente
porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà.
3.1.2 – Quanto alla fattispecie in esame, i giudici di merito hanno correttamente
applicato tali principi, laddove hanno evidenziato che le ragioni della crisi d’impresa
risulterebbero da uno scritto, impropriamente definito “relazione tecnica peritale”, che
non reca alcuna sottoscrizione, né dell’estensore, né dell’imputato, né del difensore e
che sarebbe stato redatto da un tale dott. Ascari, del quale non è neppure indicata la

.44,

sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014). Né il fatto che le obbligazioni tributarie siano

”veste processuale”. In tale scritto si fa riferimento alla crisi di liquidità dell’azienda e
a conferimenti che i soci avrebbero fatto nel corso del 2010, senza allegare alcun
documento a dimostrazione di tale ultima circostanza la quale risulta, pertanto,
meramente asserita. Né vi sono allegazioni circa la pretesa non imputabilità della crisi
di liquidità alla condotta dell’imputato. E del tutto generiche e indimostrate – oltreché
sostanzialmente irrilevanti ai fini della verifica dell’elemento soggettivo – risultano le
affermazioni difensive secondo cui vi sarebbe stata la vendita di un immobile il cui
ricavato sarebbe stato immediatamente incamerato dalla banca creditrice privilegiata.
Infine, non può assumere alcun rilievo la richiesta di ammissione al concordato
preventivo presentata dall’imputato; richiesta della quale lo stesso ricorrente non
precisa i termini e i tempi.
3.2. – Manifestamente infondato è il terzo motivo di doglianza, relativo al
trattamento sanzionatorio. Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la
sentenza impugnata – in totale continuità con quella di primo grado – ha preso in
considerazione, ai fini della commisurazione della pena, sia i profili oggettivi (avendo
riguardo all’entità dell’importo non versato) sia soggettivi (avendo riguardo
all’intensità del dolo, integrato dalla semplice consapevolezza di omettere i versamenti
dovuti) della vicenda, determinando la pena base, poi ridotta per le circostanze
attenuanti generiche e per il rito abbreviato, nella misura di un anno di reclusione, più
vicina al minimo che al massimo edittale.
4. – Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte
costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere
che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione
della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima
consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento
nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,
equitativamente fissata in € 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2015.

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