Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 912 del 11/11/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 921 Anno 2015
Presidente: GARRIBBA TITO
Relatore: DE AMICIS GAETANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GELSOMINO GILBERT N. IL 23/06/1977
PISANI FRANCESCA N. IL 21/08/1958
avverso il decreto n. 46/2013 CORTE APPELLO di PALERMO, del
25/10/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;
lette/swititc le conclusioni del PG Dott. Za
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Uditi difensor Avv.;

ief te.4)-24,4

Data Udienza: 11/11/2014

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RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto del 25 ottobre 2013 la Corte d’appello di Palermo, in parziale
riforma del decreto emesso dal Tribunale di Palermo in data 24 febbraio 2011, ha
dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso proposto avverso la misura di
prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di
residenza per anni tre, applicata nei confronti di Gelsomino Giuseppe, per morte
del medesimo, confermando nel resto l’impugnato decreto, che disponeva la

con capitale sociale di euro 5.164,57, suddiviso tra Gelsomino Gilbert e Pisani
Francesca, rispettivamente figlio e moglie della persona sottoposta alla misura di
prevenzione.

2. Avverso il su indicato decreto della Corte d’appello ha proposto ricorso
per cassazione il difensore di Gelsomino Gilbert e Pisani Francesca, quali terzi
intervenienti nel procedimento di prevenzione, deducendo il vizio di violazione di
legge in relazione agli artt. 2-bis e 2-ter della L. n. 575/1965 e la conseguente
illegittimità della confisca dei beni cui è stata applicata.

2.1.

La Corte d’appello avrebbe dovuto prendere atto dell’assoluta

mancanza di indizi riguardo a qualsivoglia contributo prestato dal Gelsomino in
favore di “cosa nostra”, tanto essendo stato accertato da una sentenza
irrevocabile che lo ha assolto nel merito dall’imputazione di concorso esterno in
associazione mafiosa. Non è stato acquisito, infatti, alcun indizio in sede penale,
da cui ritenere che il predetto altro non fosse che una persona meramente
disponibile, contigua o compiacente, che nessun contributo ha fornito a quel
sodalizio. Il mero “favoreggiatore”, ovvero il soggetto semplicemente “contiguo o
avvicinato”, non sono figure ricomprese nella definizione di “appartenenza”,
essendo necessario un contributo concreto e funzionale agli interessi della
struttura criminale.

2.2. Si evidenzia, altresì, il fatto che la Corte di merito non ha risposto alla
doglianza difensiva incentrata sulla discrasia logico-giuridica in base alla quale un
soggetto condannato con pena sospesa per uno dei reati previsti dalla I. n.
575/65 non potrebbe, per ciò stesso, e sulla base dell’art. 166, comma 2, c.p.,
essere sottoposto a misura di prevenzione, mentre nei confronti di una persona
assolta da una delle suddette imputazioni tale divieto non sarebbe operante. Ne

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confisca della società “Il Giardino della frutta di Gelsomino Gilbert e C. s.a.s.”,

discende che nei confronti del Gelsomino avrebbe potuto esser formulato un
giudizio di pericolosità sociale esclusivamente in presenza di ulteriori e diversi
elementi rispetto a quelli valutati dal Giudice penale, di fatto non emersi.

2.3. E’ stata erroneamente ritenuta, peraltro, la presunzione di attualità
della pericolosità sociale del Gelsomino Giuseppe, dal momento che la stessa
può essere riferita solo alla figura del partecipe, ossia nei confronti di chi sia
legato da uno stabile vincolo associativo con un sodalizio mafioso, mentre al

provvedimento, dunque, risulta viziato in parte de qua, omettendo di verificare
l’eventuale perdurare della sua pericolosità sulla base di concreti elementi
sintomatici del collegamento con fenomeni mafiosi, tenuto conto del fatto che
nell’ipotesi considerata il rapporto con il sodalizio non sarebbe illimitato e
perpetuo, ma si esaurirebbe nella commissione di singoli fatti.

2.4. Si lamenta, infine, l’adozione del provvedimento ablatorio nonostante la
modestia dell’impegno finanziario richiesto dall’attività economica confiscata nel
giudizio di primo grado, sostanzialmente individuabile nel capitale sociale versato
(poco più di cinquemila euro) e nel canone di affitto per il locale che costituiva
sede dell’esercizio commerciale (poco più di cinquecento euro): cifre compatibili
con la situazione reddituale della famiglia Gelsomino nel suo complesso e con la
stessa tipologia dell’attività di acquisto dei prodotti ai fini della loro rivendita.

3.

Con memoria di replica depositata presso la Cancelleria di questa

Suprema Corte in data 6 novembre 2014, il difensore ha svolto una serie di
considerazioni critiche alle conclusioni rassegnate nella requisitoria del P.G.,
ribadendo, con una serie di argomentazioni fondate sulla disamina degli atti dei
giudizi di merito, la fondatezza dei motivi dedotti a sostegno del ricorso, ed
insistendo pertanto nel loro accoglimento.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. I ricorsi sono inammissibili, in quanto manifestamente infondati.

5.

Occorre preliminarmente osservare, alla luce di una costante linea

interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che il sindacato di legittimità
sui provvedimenti in materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la

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proposto non era stata contestata la condotta di partecipazione. Il

funzione del relativo procedimento, è limitato alla violazione di legge (ex art. 4,
comma 11, della I. n. 1423/1956) e non si estende al controllo della
motivazione, a meno che questa sia del tutto mancante o meramente apparente,
ipotesi in cui sussisterebbe comunque il vizio di violazione di legge (Sez. 6, n.
24272 del 15/01/2013, dep. 04/06/2013, Rv. 256805; Sez. 6, n. 35240 del
27/06/2013, dep. 21/08/2013, Rv. 256263; v., inoltre, Sez. 6, n. 35044 del
08/03/2007, dep. 18/09/2007, Rv. 237277, nonchè Sez. 5, n. 19598 del
08/04/2010, dep. 24/05/2010, Rv. 247514).

violazione di legge, tendono in sostanza a confutare, nell’illustrazione della prima
e della quarta ragione di doglianza, la motivazione del provvedimento
impugnato, nella chiara prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa
interpretazione delle circostanze di fatto emerse nei giudizi di merito e di togliere
così valenza agli elementi posti alla base della formazione del correlativo epilogo
decisorio.
Il decreto impugnato, di contro, è sorretto da un apparato argomentativo
del tutto congruo e logicamente correlato alle risultanze indiziarie ivi esposte e
rappresentate, le quali sono state dai Giudici di merito apprezzate tenendo conto
dei rilievi difensivi e nel pieno rispetto di un quadro di principii esattamente
interpretati ed applicati, sicché non può sotto alcun profilo parlarsi di
motivazione mancante o apparente.

5.1. Si è più volte affermato, in questa Sede (v. Sez. 6, n. 10153 del
18/10/2012, dep. 04/03/2013, Rv. 254545; da ultimo, v. Sez. 1, n. 23641 del
11/02/2014, dep. 05/06/2014, Rv. 260103), che, in tema di misure di
prevenzione antimafia, il principio di reciproca autonomia tra le misure personali
e patrimoniali – previsto dall’art. 2-bis, comma 6-bis, della legge 31 maggio
1965, n. 575, così come modificato dall’art. 2, comma 22, della 15 luglio 2009,
n. 94 – consente di applicare la confisca prescindendo dal requisito della
pericolosità del proposto al momento dell’adozione della misura, ma richiede che
essa sia comunque accertata con riferimento al momento dell’acquisto del bene,
oggetto della richiesta ablatoria.
E’ altresì noto (Sez. 1, n. 20160 del 29/04/2011, dep. 20/05/2011, Rv.
250278; Sez. 5, n. 49853 del 12/11/2013, dep. 11/12/2013, Rv. 258939) che
nel giudizio di prevenzione, proprio in ragione della sua autonomia dal processo
penale, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri
prescritti dall’art. 192 cod. proc. pen., con la logica conseguenza che le chiamate

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Nel caso di specie i ricorrenti, pur denunciando formalmente il vizio della

in correità o in reità non devono essere necessariamente qualificate dai riscontri
individualizzanti, ai fini dell’accertamento della pericolosità.
Ne discende, ancora, che in materia di applicazione delle misure di
prevenzione deve procedersi ad una valutazione degli indizi che è di natura
diversa da quella necessaria per l’affermazione della responsabilità penale. Il
giudice della prevenzione, pertanto, ben può utilizzare elementi tratti dalla base
cognitiva di procedimenti penali indipendentemente dal loro esito, ed anche non
conclusi, ma deve farsi carico di individuare circostanze di fatto rilevanti

per stabilire se le stesse siano o meno sintomatiche della pericolosità sociale del
soggetto (Sez. 1, n. 43046 del 15/10/2003, dep. 11/11/2003, Rv. 226609; Sez.
6, n. 1171 del 19/03/1997, dep. 02/05/1997, Rv. 208115; v., inoltre, Sez. 1, n.
6613 del 17/01/2008, dep. 12/02/2008, Rv. 239358).
Entro tale prospettiva, quindi, il giudice può utilizzare e fondare il proprio
giudizio, nell’ambito del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione
personale nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso,
sulle sentenze pronunciate nei confronti del proposto che sia stato assolto con la
formula dell’insufficienza o contraddittorietà della prova, ma in tal caso la verifica
dell’effettiva consistenza e sintonnaticità degli indizi di appartenenza al sodalizio
mafioso deve essere condotta sulle risultanze probatorie acquisite nel giudizio
penale e sulle reali ragioni del convincimento di non colpevolezza espresso dai
giudici di merito.
Occorre altresì considerare (Sez. 6, n. 9747 del 29/01/2014, dep.
27/02/2014, Rv. 259074; Sez. 2, n. 19943 del 21/02/2012, dep. 25/05/2012,
Rv. 252841; Sez. 2, n. 7616 del 16/02/2006, dep. 02/03/2006, Rv. 234745) che
il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, richiesto ai fini
dell’applicazione delle misure di prevenzione, va distinto da quello di
“partecipazione”, necessario ai fini dell’integrazione del corrispondente reato:
quest’ultima, infatti, richiede una presenza attiva nell’ambito del sodalizio
criminoso, mentre la prima è comprensiva di ogni comportamento che, pur non
integrando gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa, sia
funzionale agli interessi dei poteri criminali e nel contempo denoti la pericolosità
sociale specifica che sottende al trattamento prevenzionale, costituendo una
sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa.
Di tale complesso di principii ha fatto corretta applicazione la Corte d’appello
di Palermo, che, nel valutare il compendio probatorio oggetto della decisione
assolutoria dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa –

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accertate nel giudizio penale e rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione,

pronunziata dalla stessa Corte di merito il 15 luglio 2010, ex art. 530, comma 2,
c.p.p., nei confronti di Giuseppe Gelsomino – ha ripercorso e condiviso il quadro
argomentativo al riguardo già linearmente tratteggiato dal Giudice di primo
grado, illustrando una serie di elementi storico-fattuali motivatamente ritenuti
idonei a disvelare l’esistenza di un contesto di relazioni e legami qualificati dal
proposto intrattenuti con diversi esponenti mafiosi di rilievo delle “famiglie” di
San Lorenzo, Tommaso Natale e Carini, e finalizzati al reinvestimento di somme
di denaro di provenienza illecita.

esaustivamente fondato il suo giudizio richiamando il contenuto di conversazioni,
oggetto di attività di intercettazione, intercorse fra due esponenti mafiosi (una,
del 13 gennaio 2005, fra Gottuso Salvatore e Musso Giuseppe, e l’altra, del 1°
marzo 2004, fra il Gottuso e il Di Napoli Pierino), ove si faceva riferimento
all’esistenza di rapporti fra il Gelsomino e taluni “uomini d’onore”, in particolare il
Di Maggio Antonino, al quale il proposto si era rivolto per chiedere ed ottenere
protezione a seguito di richieste estorsive subite da un negozio di Palermo alle
cui attività commerciali egli era indirettamente interessato. Ulteriori elementi
sintomatici, in tal senso, la Corte d’appello ha ravvisato non solo nelle
dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia – secondo cui il Gelsomino era in
contatto con vari esponenti mafiosi della zona di Carini ed era disponibile a
svolgere attività di copertura in loro favore – ma anche nel contenuto di un’altra
conversazione intercorsa fra due affiliati (Lo Duca Giuseppe e Curulli Vincenzo),
che pensavano di ottenere proprio tramite il Gelsomino – con interessi
apparentemente orientati in settori commerciali del tutto diversi, come quello
ortofrutticolo – informazioni riservate sugli intestatari di alcune utenze
telefoniche mobili.

5.2. Sotto altro, ma connesso profilo, l’impugnata pronuncia, dopo aver

indicato le ragioni della palese sproporzione tra il valore dei beni oggetto della
misura patrimoniale e le entrate accertate del proposto e dei componenti il suo
nucleo familiare, ha svolto un’articolata ed attenta disamina della
documentazione in atti richiamata, coerentemente ritenendo, sulla base di una
congrua ed esaustiva motivazione, del tutto incompatibile la situazione
reddituale e le risorse finanziarie accertate all’epoca della costituzione della su
indicata società – oltre che nel periodo immediatamente precedente e successivo
– con gli investimenti necessari per avviarne la gestione, sì come logicamente
individuati non solo nel conferimento del capitale sociale, ma anche nel

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Al riguardo, in particolare, la Corte di merito ha congruamente ed

pagamento delle somme relative al canore d’affitto e nei materiali costi di
esercizio dell’attività, pur di non rilevanti dimensioni.
Sul punto, in definitiva, a fronte di un quadro argomentativo logicamente
strutturato e linearmente illustrato, i ricorrenti si sono limitati a riproporre le
medesime doglianze già ritenute infondate, in punto di fatto, dal Giudice del
gravame, sicché le questioni dedotte in ricorso, oltre che improponibili, in questa
Sede, sotto il profilo del vizio di motivazione, devono ritenersi anche non
specificamente prospettate, sia per la loro sostanziale indeterminatezza, sia per

e quelle poste a fondamento dell’impugnazione.

6. Manifestamente infondati devono altresì ritenersi il secondo ed il terzo
profilo di doglianza, ove si consideri:

a) che alla luce di un consolidato

orientamento di questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 39205 del 17/05/2013, dep.
23/09/2013, Rv. 256769; v., inoltre, Sez. 5, n. 3538 del 22/03/2013, dep.
23/01/2014, Rv. 258658; Sez. 6, n. 35357 del 10/04/2008, dep. 15/09/2008,
Rv. 241251), in tema di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di
appartenere ad associazioni di tipo mafioso, il principio secondo cui il requisito
dell’attualità della pericolosità è da considerare implicito nella ritenuta attualità
dell’appartenenza opera anche quando quest’ultima assume la forma del
“concorso esterno”, caratterizzato dalla non temporaneità del contributo prestato
al sodalizio e, quindi, dalla presunzione di attualità del pericolo, salvo che non
ricorrano elementi dai quali si desuma l’avvenuta interruzione del rapporto;

b)

che, entro i limiti e per gli effetti dianzi esposti e precisati, non è ipotizzabile
alcun contrasto fra l’adozione di una pronuncia assolutoria in sede penale e la
formulazione di un giudizio di pericolosità all’esito di un procedimento, come
quello di prevenzione, del tutto diverso nei presupposti, nell’articolazione
strutturale e nei relativi epiloghi decisori (v., ad es., Sez. 1, n. 5786 del
21/10/1999, dep. 04/01/2000, Rv. 215117), laddove la disposizione di cui al
secondo comma dell’art. 166 cod. pen. si limita ad introdurre il divieto, in
presenza della diversa evenienza legata all’accertata commissione di un reato, di
fondare unicamente sulla condanna a pena condizionalmente sospesa
l’applicazione di misure di prevenzione, senza peraltro impedire al giudice di
valutare, nell’indagine circa la pericolosità del soggetto proposto per la misura,
gli elementi fattuali desumibili dal giudizio penale conclusosi con la suddetta
condanna, unitamente ad altri e diversi elementi che risultino “aliunde”

la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata

desumibili (da ultimo, v. Sez. 2, n. 24972 del 22/05/2013, dep. 06/06/2013, Rv.
256492).

7. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ex art. 616
c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della
somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno a quella della somma di euro mille in favore della
Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, lì, 11 novembre 2014

Il Consigliere estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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