Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9089 del 20/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 9089 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MARZOLI ROBERTO N. IL 06/07/1949
STROPPA DARIO N. IL 12/08/1936
avverso la sentenza n. 328/2006 CORTE APPELLO di ANCONA, del
16/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. V.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

.-

Data Udienza: 20/11/2013

e

Fatto e diritto
Propongono ricorso per cassazione Marzoli Roberto e Stroppa Dario, avverso la sentenza della Corte
d’appello di Ancona, in data 16 febbraio 2012, con la quale è stata riformata quella di primo grado-emessa
il 15 giugno 2005- e, per l’effetto, è stata ribadita la condanna di Marzoli in ordine ai reati di bancarotta
fraudolenta per distrazione e dissipazione nonché documentale (capi A, B, C) e di Stroppa, per il solo reato
di bancarotta per dissipazione di cui al capo B), in concorso con Marzoli.
Le dette fattispecie criminose sono state addebitate al primo, in qualità di amministratore, dapprima di
diritto e poi di fatto, della S.r.l. M. P. Confezioni, dichiarata fallita l’8 febbraio 1999.
stato addebitato nella qualità di amministratore unico della società Nuova M.P. Confezioni di Stroppa
Dario, che è risultata essere la cessionaria, a prezzo vile, della intera azienda riferibile alla fallita.
Agli imputati sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti e sulla
recidiva.
Deduce il difensore di Stroppa l’assoluta insussistenza del reato di bancarotta per dissipazione.
E infatti era rimasto accertato, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, che l’azienda della fallita era
stata acquisita dell’imputato alla luce del sole, attraverso un contratto stipulato dinanzi al notaio il
3 novembre 1997. In seguito i beni erano stati venduti all’asta dall’esattoria, che vantava dei crediti,
risultando quindi ceduti a terzi che poi li avevano dato in affitto.
Inoltre non era stato considerato che il reato in contestazione è proprio, mentre l’imputato non
rivestiva alcuna carica all’interno della società fallita.
Deduce il difensore di Marzoli
la inosservanza della legge penale sulla decorrenza del termine di prescrizione.
Sostiene il difensore che il termine da applicare è quello di 10 anni, da prorogare di un quarto,
desumibile dal vigente testo degli articoli 157 e 161 c.p.
Sostiene che la attuale e più favorevole disciplina in materia di prescrizione debba essere applicata
al ricorrente nonostante il diverso disposto della disposizione transitoria della legge numero 251
2005, da ritenersi, dunque, costituzionalmente illegittima perché in violazione del principio di
uguaglianza e in violazione al principio del favor rei di cui agli articoli 2 e 4 c.p.
Rileva il difensore che proprio tale principio sta a fondamento della sentenza della Corte
costituzionale che ha dichiarato illegittimo l’articolo 10 comma 3 della I. n. 251 del 2005, sia pure
per un aspetto diverso da quello che qui viene in considerazione.
I ricorsi sono inammissibili.
Col primo atto d’impugnazione- come del resto con il secondo- vengono letteralmente riproposte questioni
di fatto già sottoposte al giudice dell’appello e da questi risolte con motivazione del tutto adeguata.
L’esistenza di un atto formale di cessione dell’azienda non è stato ignorato dalla Corte d’appello la quale ha,
piuttosto, valorizzato la considerazione di ordine logico secondo cui si è trattato, in buona sostanza, di un
atto formale che è servito soltanto a coprire un comportamento di natura effettivamente e concretamente
dissipatoria, previsto e condiviso sia dagli amministratori della società in stato di decozione che dal
rappresentante legale della società che ha acquisito l’azienda.
Infatti è stato segnalato come l’atto di cessione dell’azienda, nonostante la situazione di decozione della
cedente, non sia stato assistito da alcuna garanzia circa il regolare pagamento del prezzo e inoltre, come
1

Invece, allo Stroppa, il reato di bancarotta per dissipazione, di cui al capo B), in concorso con Marzoli, è

detto pagamento, di fatto, non sia avvenuto, avendo, l’acquirente, versato solo 26 milioni di lire a fronte di
un prezzo pattuito di oltre 117 milioni.
Una simile operazione di cessione, in altri termini, per quanto apparentemente “vestita” giuridicamente
attraverso uno strumento di negoziazione tipico, tuttavia è risultata, in concreto, di natura dissipativa sin
dal momento della sua programmazione ad opera della parte venditrice e della parte acquirente: ciò in
ragione del fatto che si è realizzata una perdita secca a carico del patrimonio che avrebbe dovuto garantire
le ragioni dei creditori, senza una effettiva contropartita per la società cedente.
In tale prospettiva, ovviamente, non rileva la qualità dell’imputato quale soggetto estraneo alle cariche
sociali della fallita, essendo stato egli chiamato a rispondere del reato quale terzo concorrente con l’autore

Anche il motivo di ricorso articolato da Marzoli è destituito di qualsiasi fondamento esattamente per le
ragioni già evidenziate dal giudice dell’appello e del tutto ignorate nel ricorso.
Come del resto ribadito anche dalle Sezioni unite di questa Corte, con sentenza numero 47008 del 2009, ai
fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della
sentenza di condanna di primo grado- prima della entrata in vigore della nuova e più favorevole disciplinadetermina la pendenza in grado d’appello del procedimento che è ostativa, in base alla legge citata,
all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.
Tale realtà normativa- derivante dall’assetto disposto con la disposizione transitoria dell’art. 10 comma 3 I.
n. 251 del 2005 – era già stata giudicata compatibile con la Carta costituzionale, ad opera del giudice delle
leggi che, con la sentenza numero 78 del 2 aprile 2008, citata anche dalla Corte d’appello, ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo, sollevata in riferimento agli articoli
3,10 comma secondo e 11 della Costituzione, relativamente allo specifico profilo della inapplicabilità delle
disposizioni più favorevoli ai procedimenti penali pendenti in grado d’appello.
In seguito, con ulteriore sentenza numero 236 del 27 luglio 2011, la stessa Corte costituzionale chiamata
nuovamente pronunciarsi sulla medesima questione, in riferimento al principio di retroattività della lex
mitior come riconosciuto dalla giurisprudenza della CEDU alla luce dell’articolo 7 della Convenzione, e
dunque al parametro derivante dall’articolo 117 primo comma della Costituzione, ha reiterato il giudizio di
infondatezza della questione di legittimità.
Ha posto in evidenza, la Corte costituzionale, ben prima che fosse emessa la sentenza impugnata e, a
maggior ragione, redatti i motivi di ricorso, che il principio riconosciuto dalla CEDU, non coincide con quello
che, nel nostro ordinamento, è regolato dall’art. 2, quarto comma, cod. pen. Quest’ultimo infatti riguarda
ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di
qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento
riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i
reati e le relative sanzioni. La diversa, e più ristretta, portata del principio convenzionale – confermata dal
riferimento che la giurisprudenza europea fà alle fonti internazionali e comunitarie (art. 15 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici ed art. 49 della Carta di Nizza) e alle pronunce della Corte di giustizia
dell’Unione europea – implica dunque che il principio di retroattività della lex mitior, riconosciuto dalla
Corte di Strasburgo, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee
all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento,
favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di
minore gravità. Esso non può pertanto riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso
favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca
l’effetto estintivo del reato: in conseguenza, la norma censurata, nella parte in cui esclude l’applicazione dei
2

materiale del reato proprio.

,

nuovi termini di prescrizione, se più brevi, nei processi pendenti in appello o avanti alla Corte di cassazione,
non si pone in contrasto con l’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e quindi non
viola l’art. 117, primo comma, Cost.
Ne consegue che la reiterazione della questione, anche ai fini della rimessione alla Corte costituzionale, è
destituita di qualsiasi fondamento.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 cpp, la condanna di ciascun ricorrente al versamento, in favore
della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro 1000.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed
a versare alla cassa delle ammende la somma di euro 1000.
Così deciso in Roma i 20 novembre 2013

nte

il Cons. est.

PQM

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