Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 9026 del 05/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 9026 Anno 2014
Presidente: GENTILE DOMENICO
Relatore: BELTRANI SERGIO

SENTENZA


suVricorstv proposti> da:

PALUMBO ALFREDO N. IL 22/09/1941
PALUMBO ANTONINO N. IL 05/01/1974
avverso la sentenza n. 1590/2007 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 27/01/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. na -c.,:.Q. 5.14.4fteifts,.4.,4944.1.ok.t.Z.)
che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv

Data Udienza: 05/11/2013

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Q.A1

1

RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza emessa in data 29
marzo 2006 aveva – per quanto in questa sede rileva – dichiarato:
– ANTONINO PALUMBO colpevole dei reati di cui ai capi B. C. D. E. G.
H. I. 3. K., unificati dal vincolo della continuazione, e, ritenute in suo
favore le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza

ritenuta di giustizia, con le statuizioni accessorie;
– ALFREDO PALUMBO colpevole dei reati di cui ai capi A. B. C. D. del
proc. n. 1270/04 R.G.T., unificati dal vincolo della continuazione, e,
ritenute in suo favore le circostanze attenuanti generiche con giudizio di
prevalenza sulle circostanze aggravanti contestate, lo aveva condannato
alla pena ritenuta di giustizia, con le statuizioni accessorie.
2. La Corte d’appello di Reggio Calabria, con la sentenza indicata in
epigrafe, ha dichiarato:
– non doversi procedere nei confronti di ANTONINO PALUMBO in
ordine ai reati di cui ai capi D. E. G. H. I. 3. K., perché estinti per
prescrizione; ha, conseguentemente, rideterminato in termini più
favorevoli la pena principale, adeguando per l’effetto le statuizioni
accessorie, in relazione ai residui reati di cui ai capi B. (concorso in
falso ideologico aggravato e continuato in atto pubblico commesso
determinando a realizzare la falsità il pubblico ufficiale competente, al
fine di far risultare la legittimità di una richiesta di rimborso IVA) e C.
(concorso in falso materiale aggravato e continuato in atto pubblico
fidefaciente, commesso per la medesima finalità), fatti entrambi
commessi in Reggio Calabria, il primo il 12 maggio 2000, il secondo in
data successiva e prossima al 2 maggio 2000;
– non doversi procedere nei confronti di ALFREDO PALUMBO in ordine
ai reati di cui ai capi A. B. C., perché estinti per prescrizione; ha,
conseguentemente, rideterminato in termini più favorevoli la pena
principale, adeguando per l’effetto le statuizioni accessorie, in relazione _.-

alle circostanze aggravanti contestate, lo aveva condannato alla pena

à

2
al residuo reato di cui al capo D. (concorso in reimpiego della somma di
70 milioni di lire, di provenienza illecita, perché provento di truffa ai
danni dello Stato), commesso in Melito Porto Salvo il 23 maggio 2000.
3. Avverso tale provvedimento, gli imputati (entrambi con l’ausilio di
un difensore iscritto nell’apposito albo speciale) hanno proposto ricorso
per cassazione, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti

comma 1, disp. att. c.p.p.:

ricorso PALUMBO ANTONINO:
I – inosservanza degli artt. 187, 192, 194 e 546 c.p.p., nonché
omessa motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato,
nella parte in cui la Corte di appello non ha enunciato le ragioni per le
quali le risultanze favorevoli all’indagato (rectius, imputato) dovessero
essere ritenute non attendibili. Erronea applicazione degli artt. 48 – 479
c. p. ;
H – erronea applicazione degli artt. 61 n. 9, 157, 476, commi 1 e 2,
e 479 c.p., nonché illogicità della motivazione quanto alla mancata
dichiarazione di prescrizione del reato di cui al capo B). Violazione del
principio di correlazione tra accusa e sentenza;
III – violazione od erronea applicazione degli artt. 61 n. 9 – 476 479 c.p., nonché illogicità della motivazione [quanto al riconoscimento,
relativamente ai reati di cui ai capi B) e C), della circostanza aggravante
del fatto commesso in violazione dei doveri inerenti ad una pubblica
funzione, applicata a delitti di falso (materiale ed ideologico) commessi
dal pubblico ufficiale in atto pubblico che detta qualità già
presuppongono];
IV – violazione ed erronea applicazione della legge penale.
Ha concluso chiedendo l’annullamento – anche senza rinvio e con
ogni conseguenza di legge – della sentenza impugnata.

2

strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173,

3

Ricorso PALUMBO ALFREDO:
I – erronea applicazione dell’art. 648-ter c.p., nonché omessa o
manifesta illogicità della motivazione quanto all’ipotizzata sussistenza
degli elementi costitutivi del delitti di reimpiego;
H – violazione ed erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p. nonché
manifesta illogicità della motivazione quanto alla ritenuta
consapevolezza della provenienza illecita dei fondi impiegati ed alla

provenienza.
Ha concluso chiedendo l’annullamento, anche senza rinvio e con ogni
conseguenza di legge, della sentenza impugnata.

4.

All’odierna udienza pubblica, dopo il controllo della regolarità

degli avvisi di rito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e
questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato
mediante lettura in udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono, nel complesso, integralmente infondati, e vanno
rigettati.

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA
MOTIVAZIONE
1. E’ necessario premettere, con riguardo ai limiti del sindacato di
legittimità sulla motivazione dei provvedimenti oggetto di ricorso per
cassazione, delineati dall’art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., come
vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 46 del 2006, che,
a parere di questo collegio, la predetta novella non ha comportato la
possibilità, per il giudice della legittimità, di effettuare un’indagine sul
discorso giustificativo della decisione, finalizzata a sovrapporre la propria
valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, dovendo il
giudice della legittimità limitarsi a verificare l’adeguatezza delle
considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo
convincimento.

3

successiva volontà di ostacolare l’identificazione della predetta

4
1.1. La mancata rispondenza di queste ultime alle acquisizioni
processuali può, soltanto ora, essere dedotta quale motivo di ricorso
qualora comporti il c.d. «travisamento della prova» (consistente
nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della
valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato
probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività
nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purché

pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate
alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la
loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non
ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato.

1.1.1. Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione
dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. intenda far valere il vizio di
«travisamento della prova» deve, a pena di inammissibilità (Cass.
pen., Sez. I, sentenza n. 20344 del 18 maggio 2006, CED Cass. n.
234115; Sez. VI, sentenza n. 45036 del 2 dicembre 2010, CED Cass. n.
249035):
(a) identificare specificamente l’atto processuale sul quale fonda la
doglianza;
(b)

individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale

atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la
ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c)

dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato

probatorio invocato, nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale
su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti
nel fascicolo del dibattimento;
(d) indicare le ragioni per cui l’atto invocato asseritamente inficia e
compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della

4

siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si

5
motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno
dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

1.1.2.

In proposito, può ritenersi ormai consolidato, nella

giurisprudenza di legittimità, il principio della c.d. “autosufficienza del
ricorso”, inizialmente elaborato dalle Sezioni civili di questa Corte

Valorizzando dapprima la formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c. (a norma del quale le sentenze pronunziate in grado d’appello o in
unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione:
<<(...) 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; la disposizione stabilisce attualmente, all'esito delle modifiche apportate dall'art. 54 d.l. n. 83 del 2012, convertito in I. n. 134 del 2012, che l*e sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione <<(...) 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»), ed attualmente la formulazione (introdotta dal D. Lgs. n. 40 del 2006) dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: «(...) 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda»), si è osservato che il ricorso per cassazione deve ritenersi ammissibile in generale, in relazione al principio dell'autosufficienza che lo connota, quando da esso, pur mancando l'esposizione dei motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado, non risulti impedito di avere adeguata contezza, senza necessità di utilizzare atti diversi dal ricorso, della materia che era stata devoluta al giudice di appello e delle ragioni che i ricorrenti avevano inteso far valere in quella sede, essendo esse univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito 11.4 circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ. Sez. II, sentenza 2 dicembre 2005, 5 Suprema. 6 26234, CED Cass. n. 585217; Sez. lav., sentenza 17 agosto 2012, n. 14561, CED Cass. n. 623618). Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità, questa Corte Suprema ha già ritenuto che «la teoria dell'autosufficienza del ricorso elaborata in sede civile debba essere recepita e applicata anche in sede penale con la conseguenza compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato -deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso>> (Sez. I, sentenza n. 16706 del 18
marzo – 22 aprile 2008, CED Cass. n. 240123; Sez. I, sentenza n. 6112
del 22 gennaio – 12 febbraio 2009, CED Cass. n. 243225; Sez. V,
sentenza n. 11910 del 22 gennaio – 26 marzo 2010, CED Cass. n.
246552, per la quale è inammissibile il ricorso per cassazione che
deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur
richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale
trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto,
così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative
doglianze; Sez. VI, sentenza n. 29263 dell’ 8 – 26 luglio 2010, CED
Cass. n. 248192, per la quale il ricorso per cassazione che denuncia il
vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza
del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche
sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e
non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui
esame diretto è alla stessa precluso; Sez. II, sentenza n. 25315 del 20
marzo – 27 giugno 2012, CED Cass. n. 253073, per la quale in tema9T..e.
di 4
ricorso per cassazione, è onere del ricorrente, che lamenti l’omessa o
travisata valutazione dei risultati delle intercettazioni effettuate, indic

6

che, quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui

7
l’atto asseritamene affetto dal vizio denunciato, curando che esso sia
effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità o
anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione).

In proposito, va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
«In tema di ricorso per cassazione, va recepita e applicata anche in

sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti
processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa
o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto
mediante l’allegazione o la completa trascrizione dell’integrale contenuto
degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la
Corte Suprema alla lettura degli atti indicati, posto che anche in sede
penale è precluso al giudice di legittimità l’esame diretto degli atti del
processo»

1.2. La mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione,
come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore
tale da risultare percepibili ictu ocu/i, dovendo il sindacato di legittimità
al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando
ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le
deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza
vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere
tuttora condivisi, i principi affermati da questa Corte Suprema, Sez. un.,
sentenza n. 24 del 24 novembre 1999, CED Cass. n. 214794; Sez. un.,
sentenza n. 12 del 31 maggio 2000, CED Cass. n. 216260; Sez. un.,
sentenza n. 47289 del 24 settembre 2003, CED Cass. n. 226074).
Devono tuttora escludersi la possibilità, per il giudice di legittimità, di
«un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i
singoli atti, nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire
risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi»

7

(Cas

sede penale la teoria della “autosufficienza del ricorso”, elaborata in

8
pen., Sez. VI, sentenza n. 14624 del 20 marzo 2006, CED Cass. n.
233621; Sez. II, sentenza n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n.
239789), e di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione o dell’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti (Sez. VI, sentenza n. 27429 del 4
luglio 2006, CED Cass. n. 234559; Sez. VI, sentenza n. 25255 del 14

1.3. Il giudice di legittimità ha, pertanto, ai sensi del novellato art.
606 c.p.p., il compito di accertare (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n.
35964 del 28 settembre 2006, CED Cass. n. 234622; Sez. III, sentenza
n. 39729 del 18 giugno 2009, CED Cass. n. 244623; Sez. V, sentenza n.
39048 del 25 settembre 2007, CED Cass. n. 238215; Sez. II, sentenza
n. 18163 del 22 aprile 2008, CED Cass. n. 239789):
(a) il contenuto del ricorso (che deve contenere gli elementi sopra
individuati);
(b) la decisività del materiale probatorio richiamato (che deve essere
tale da disarticolare l’intero ragionamento del giudicante o da
determinare almeno una complessiva incongruità della motivazione);
(c) l’esistenza di una radicale incompatibilità con l’iter motivazionale
seguito dal giudice di merito e non di un semplice contrasto;
(d)

la sussistenza di una prova omessa od inventata, e del c.d.

<>
(Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED
Cass. n. 254584).

2.1.3. Risulta, pertanto, evidente che,

«se il motivo di ricorso si

limita a riprodurre il motivo d’appello, per ciò solo si destina
all’inammissibilità, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale

che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente
‘attaccato’, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata,
è di fatto del tutto ignorato. Nè tale forma di redazione del motivo di
ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello) potrebbe essere
invocata come implicita denuncia del vizio di omessa motivazione da
parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli nell’atto di
impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice d’appello
abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del
motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilità. E ciò
per almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale
anche per l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello)
non è mediata dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del
vizio di omessa motivazione (e tanto più nel caso della motivazione
cosiddetta apparente che, a differenza della mancanza “grafica”,
pretende la dimostrazione della sua mera “apparenza” rispetto ai temi
tempestivamente e specificamente dedotti); denuncia che, come detto,
è pure onerata dell’obbligo di argomentare la decisività del vizio, tale da
imporre diversa conclusione del caso>>.

2.1.4. Può, pertanto, concludersi che «la riproduzione, totale o
parziale, del motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di
ricorso (ed in alcune circostanze costituisce incombente essenziale
dell’adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso), ma solo
quando ciò serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con
autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che, ancora
indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e
con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei

12

è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto

13

principi consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei
provvedimenti giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei
parametri della prima sentenza con i motivi d’appello e della seconda
sentenza con i motivi di ricorso per cassazione, trovano piena
applicazione anche in ordine agli atti di impugnazione» (Sez. VI,
sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n.

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA D’APPELLO
3. Anche il giudice d’appello non è tenuto a rispondere a tutte le
argomentazioni svolte nell’impugnazione, giacché le stesse possono
essere disattese per implicito o per aver seguito un differente

iter

motivazionale o per evidente incompatibilità con la ricostruzione
effettuata (per tutte, Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 1307 del 26
settembre 2002 – 14 gennaio 2003, CED Cass. n. 223061).

3.1. In presenza di una doppia conforma affermazione di
responsabilità, va, peraltro, ritenuta l’ammissibilità della motivazione
della sentenza d’appello

per relationem

a quella della decisione

impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo
grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già
esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell’effettuazione
del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza
impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite
dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il
primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di
appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici
dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli
usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle
determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisi

13

254584).

14
sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano
una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre
1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III, sentenza n.
13926 del 10 dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615).

L’AFFERMAZIONE DI RESPONSABILITA’ <>.

«oltre ogni ragionevole dubbio», presente nel testo novellato dell’art.
533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente
all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare
che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone,
ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione
di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è
permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha
una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in
precedenza, il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato
ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530,
comma 2, c.p.p., sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso
criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente
adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in
precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed
ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di
questa Corte Suprema – per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10
luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel
testo novellato dell’art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile
soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della
responsabilità dell’imputato (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 19575 del
21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. II, sentenza n. 16357 del 2
aprile 2008, CED Cass. n. 239795).
In argomento, si è più recentemente, e conclusivamente, affermato
(Sez. II, sentenza n. 7035 del 9 novembre 2012 – 13 febbraio 2013,
CED Cass. n. 254025) che «La previsione normativa della regola •

14

4. Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione

15
giudizio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che trova fondamento
nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha
introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova
ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di
condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità

I RICORSI
5.

Alla luce di queste necessarie premesse vanno esaminati gli

odierni ricorsi.

Ricorso PALUMBO ANTONINO
6. Il ricorso presentato nell’interesse di ANTONINO PALUMBO è, nel
complesso, infondato, e va rigettato.

6.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta che l’appello proposto
nel suo interesse dall’avv. GIULIA DIENI sia stato in parte rigettato
senza motivazione, e che la condotta accertata sarebbe stata comunque
inidonea a trarre in inganno il funzionario della competente Agenzia delle
Entrate.

6.1.1. Il motivo è generico e manifestamente infondato.
Deve premettersi che, in tema di ricorso per cassazione, è
inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’art. 192 c.p.p.,
anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), c.p.p., per
censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova
acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed
indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio,
in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla
motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e),
c.p.p., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art.
606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella parte in cui consente di dolersi
dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità
(Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45249 dell’8 novembre 2012, C
Cass. n. 254274).

15

dell’imputato».

16

6.1.2. Peraltro, la Corte di appello, con rilievi esaurienti, logici, non
contraddittori, e pertanto incensurabili in questa sede, con i quali il
ricorrente non si confronta con la necessaria specificità, in concreto
riproponendo più o meno pedissequamente doglianze già costituenti
motivo di appello e già motivatamente confutate dalla Corte di appello,
ha dettagliatamente indicato le ragioni poste a fondamento della

attraverso il rinvio al percorso argomentativo seguito dalla sentenza di
primo grado, come è fisiologico in presenza di una doppia conforme
affermazione di responsabilità) – in primis l’ampia confessione resa
dall’imputato nel corso dell’interrogatorio di garanzia, oltre agli esiti degli

«accertamenti documentali sul contenuto dei verbali di accesso» e le
«deposizioni dei funzionari che ebbero a redigerli (da cui è risultata la
materiale falsificazione del verbale indicato al capo C) e la falsità
ideologica mediante induzione in errore di quello citato al capo B)».
«riscontri documentali compiuti

Sono stati, inoltre, valorizzati i

dalla Guardia di Finanza presso i soggetti indicati come apparenti
emittenti delle fatture utilizzate per richiedere i rimborsi, da cui
emergeva che esse non erano mai state emesse, oppure erano state
emesse nei confronti di soggetti diversi».
La Corte di appello ha anche osservato che «Al riguardo, nessun

elemento concreto è stato fornito dalla difesa per confutare la
fondatezza di siffatti accertamenti, se non il generico riferimento ad un
giudizio negativo del Garante, riguardante altre aziende, non presenti in
questo giudizio, per come ammesso dalla stessa difesa. Al contrario, la
piena conferma dell’inesistenza di quelle operazioni proviene dagli stessi
soggetti indicati nelle fatture come emittenti (TOMASELLO, SPINELLA,
COSTARELLA, PULLANO), i quali, deponendo in dibattimento, hanno
negato di avere effettuato le prestazioni riportate nele fatture
medesime. Nessun dubbio, pertanto, residua sulla responsabilità di
+
ANTONINO PALUMBO per i fatti addebitatigli ai capi B), C), D) ed E),
anche se solo per i primi due va confermata la condanna, essendo •
altri due estinti per intervenuta prescrizione».

16

contestata affermazione di responsabilità (f. 10 ss.), valorizzando (anche

17
Ed anche quanto alla contestata idoneità ingannatoria dei falsi
documenti in oggetto, i rilievi difensivi appaiono inaccoglibili, tenuto
conto dei seguenti elementi:
– risulta accertata l’intervenuta falsificazione dei documenti dei quali
si discute;
– nulla dimostra che i predetti documenti falsi fossero inidonei a
trarre in inganno chi si fosse trovato a valutarne il contenuto;
è stato accertato che i predetti documenti falsi in concreto

produssero l’effetto ingannatorio oggetto di contestazione: a fronte di
tale, ineludibile, dato, non ha senso discutere se i documenti de quibus
fossero o meno idonei a produrre l’inganno ipotizzato, poiché, nei fatti,
lo hanno prodotto.

A tali rilievi il ricorrente non ha opposto alcunché di decisivo, se non
generiche ed improponibili doglianze fondate su una personale e
congetturale rivisitazione ed interpretazione dei fatti di causa, che
evocano presunte ed indimostrate irregolarità amministrative senza
illustrarne con la necessaria specificità il fondamento e, soprattutto, la
rilevanza in relazione alle censure formulate, e senza documentare
eventuali travisamenti nei modi che si è (in premessa) evidenziato
essere di rito.

6.2.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la mancata

declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di cui al capo

B),

motivata dalla Corte di appello per il rilievo che entrambi gli atti
falsificati sarebbero fidefacienti, pur se ciò non risulta formalmente
contestato all’imputato sub B).

6.2.1. Il motivo è infondato.
Effettivamente, la fidefacienza dell’atto falsificato è esplicitata
all’interno del solo capo C), non anche del capo B).
La doglianza difensiva appare, peraltro, infondata, in difetto di u
reale vulnus per i diritti della difesa, poiché:

17

18
– l’atto oggetto delle condotte di cui ai capi B) e C) è lo stesso, e,
pertanto, dal complesso delle imputazioni, era senz’altro deducibile che
se ne enunciava in contestazione la natura fidefaciente;
– lo stesso ricorrente non contesta che l’atto in questione avesse in
concreto natura fidefaciente.
D’altro canto, se anche dovesse ritenersi che la Corte di appello abbia

sarebbe rilevabile alcuna violazione del diritto di difesa, in quanto la
parte ha comunque avuto modo di esplicare senza limiti (trattandosi di
questione di puro diritto) le sue difese in sede di legittimità.
Questa Corte Suprema (Sez. II, sentenza n. 32840 del 9 maggio
2012, CED Cass. n. 253267; Sez. II, sentenza n. 45795 del 13
novembre 2012, CED Cass. n. 254357; Sez. II, sentenza n. 21170 del 7
maggio 2013, CED Cass. n. 255735; Sez. II, sentenza n. 37413 del 15
maggio 2013, CED Cass. n. 256652) ha, infatti, già chiarito che
l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla
qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a
rispondere, sancito dall’art. 6 CEDU, comma primo e terzo, lett. a) e b),
e dall’art. 111, comma terzo, Cost., è assicurata anche quando il giudice
d’appello provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in
sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto
l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa
proponendo ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, lett. b), c.p.p.,
trattandosi di questione di diritto la cui trattazione non incontra limiti nel
giudizio di legittimità.

6.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che la medesima
condotta gli sia stata imputata sia come elemento integrante i fatti reato
di cui ai capi B) e C), sia come circostanza aggravante: la violazione dei
doveri inerenti ad una pubblica funzione costituisce, infatti, elemento
essenziale della condotta tipica dei predetti reati di falso, e non p
anche essere contestata a titolo di circostanza aggravante.

18

in parte diversamente qualificato in diritto il fatto contestato sub B), non

19
6.3.1. Il motivo non è consentito, perché la violazione di legge che
ne costituisce oggetto, in ipotesi verificatasi nel corso del giudizio di
primo grado, è stata dedotta per la prima volta in questa sede, in
violazione di quanto stabilito dall’art. 606, comma 3, ultima parte, c.p.p.
Invero, la relativa doglianza non risulta formulata tra i motivi di
appello, come si evince dal riepilogo degli stessi riportato nella sentenza
impugnata (f. 1: con l’appello era stata unicamente chiesta l’esclusione

contestata sub E), che l’odierno ricorrente, tenuto conto di quanto
disposto dall’art. 606, comma 3, ultima parte, c.p.p., ed in virtù
dell’onere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, imposto
dall’art. 581, comma 1, lett. C), c.p.p., avrebbe avuto il dovere
processuale di contestare specificamente nell’odierno ricorso, se ritenuto
incompleto o comunque non corretto, poiché la previa deduzione della
violazione di legge come motivo di appello costituisce requisito che ne
legittima la riproposizione in cassazione e, pertanto, di ciò il ricorso, a
pena di inammissibilità per difetto di specificità, deve dar conto.

Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:

«Il ricorso proposto per violazioni di legge asseritamente
verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, per soddisfare l’onere
di specificità dei motivi imposto a pena di inammissibilità dall’art. 581,
comma 1, lett. C), c.p.p., deve contenere la specifica contestazione del
riepilogo dei motivi di appello contenuto nella sentenza impugnata, nel
caso in cui lo stesso non dia conto della deduzione della predetta
violazione di legge come motivo di appello; il ricorso proposto per
violazioni di legge verificatesi nel corso del giudizio di primo grado, ma
non dedotte con i motivi di appello, sarebbe, infatti, ai sensi dell’art.
606, comma 3, ultima parte, c.p.p., inammissibile».

6.3.2.

Deve, peraltro, aggiungersi che non appare esplicitato

l’interesse del ricorrente alla doglianza, atteso che nella motivazione
della sentenza impugnata (f. 14) si legge espressamente che «Quanto

al trattamento sanzionatorio nei confronti di ANTONINO PALUM80, va
tenuto conto del fatto che il giudice di primo grado ha già concesaJ

19

della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p., che era

20
attenuanti generiche, equivalenti alla contestata aggravante, costituita
dalla funzione fidefaciente degli atti falsificati», il che evidenzia che
della contestata circostanza aggravante non si è in concreto tenuto
conto.
In proposito, il ricorrente nulla ha dedotto.

6.4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta:

reato posto in continuazione, evidenziando che in primo grado era stato
disposto un aumento globale per 8 reati satellite pari a 18 mesi di
reclusione, e che la Corte di appello ha disposto per l’unico reato satellite
residuo un aumento pari ad 8 mesi di reclusione che è ritenuto
sproporzionato;
b) omessa motivazione in ordine alla mancata applicazione delle
circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza, poiché sul
punto la Corte di appello nulla avrebbe osservato.

6.4.1. Il motivo è, in entrambe le sue articolazioni, generico e
manifestamente infondato.
Le doglianze non indicano, infatti, con la dovuta specificità, gli
elementi in ipotesi non valutati o mal valutati dalla Corte di appello, che,
al contrario, ha espressamente ritenuto congruo il giudizio di
equivalenza tra le circostanze concorrenti (f. 14), valorizzando, anche ai
fini della determinazione dell’aumento per la continuazione, l’entità del
profitto conseguito e la particolare callidità con la quale vennero
realizzate quelle operazioni, entrambe sintomatiche di particolare
capacità criminale e rilevanti ex art. 133 c.p.

Ricorso PALUMBO ALFREDO
7. Il ricorso presentato nell’interesse di ANTONINO PALUMBO è, nel
complesso, infondato, e va rigettato.

7.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta che la Corte di appello

r_…:._7
abbia valorizzato unicamente il reimpiego consapevole, da parte
dell’imputato (padre del coimputato ANTONINO PALUMBO), di una

20

a) illogicità della motivazione in ordine all’aumento disposto per il

21
somma proveniente da una truffa perpetrata dal figlio ANTONINO, per
operare un fittizio aumento del capitale sociale de LA ZAGARA s.a.s.
Nei motivi di appello, era stata negata la possibilità di configurare, in
relazione alla accertata condotta, il delitto di reimpiego, ma in proposito
la sentenza impugnata sarebbe rimasta del tutto silente:
– quanto al mancato impiego della somma de qua in una attività
economica o finanziaria, dovendo trattarsi di condotte professionali del

mentre, nel caso di specie, vi era stato un utilizzo in attività illecite, che
evidenzia l’assenza del necessario fine di “ripulire la somma”. In
riferimento al carattere illecito dell’attività, per così dire,

ad quem, il

ricorrente valorizza l’intervenuta contestazione della fittizietà del
conferimento di 700 milioni di lire nella ZAGARA s.r.I., materialmente
operato con 10 versamenti e contestuali prelievi di importi pari ai 70
milioni di lire de quibus, pur in difetto di una specifica contestazione del
reato di cui all’art. 2632 c.c. Detta attività, asseritamente posta in
essere nel caso concreto, non corrisponderebbe a quella tipica del delitto
di reimpiego, integrando al più il non contestato reato di cui all’art. 2632
c.c.;
– quanto alla necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui
all’art. 648-ter c.p., della conoscenza del fatto che la

res che ne

costituisce oggetto sia già stata in precedenza “ripulita” per impedirne la
riconducibilità al delitto presupposto; nella specie, potrebbe al più
ricorrere il delitto di cui all’art. 648-bis c.p., poiché per il diverso delitto
di reimpiego occorrerebbe il consapevole investimento di una somma
che si sa essere di provenienza delittuosa, e si sa essere stata già in
precedenza oggetto di attività di “ripulitura” da parte di terzi.

7.1.1. Il motivo è in parte generico, in parte non consentito, in parte
infondato.

7.1.2. Come anticipato nel § 2 di queste Considerazioni in diritto, la
censura la censura alternativa ed indifferenziata di omessa manifesta
illogicità della motivazione risulta priva della necessaria specificità, il che
rende il ricorso inammissibile.

21

tutto lecite, caratterizzate da stabilità, non da mera occasionalità,

22
7.1.3. Inoltre, come anticipato nel § 1.4. s. di queste Considerazioni
in diritto, in sede di legittimità che non è denunciabile il vizio di
motivazione con riferimento a questioni di diritto.

7.1.4. La censura inerente all’erronea applicazione dell’art. 648-ter
c.p. sarà esaminata insieme alle censure costituenti oggetto del secondo

7.1.5. Quanto all’ultima doglianza formulata con il primo motivo, è di
solare evidenza che a fondamento della contestazione del reato di cui
all’art. 648-ter c.p. sia stata valorizzata la provenienza illecita della
somma reimpiegata, non necessaria ai fini della configurabilità del reato
di cui all’art. 2632 c.c.

7.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che sia stato
valorizzato, ai fini dell’integrazione degli elementi costitutivi del reato di
reimpiego, il continuo scambio di somme di denaro, anche cospicue, tra
ALFREDO ed ANTONINO PALUMBO (rispettivamente, padre e figlio),
senza, peraltro, accertare se il padre fosse al corrente della provenienza
illecita di esse: il figlio era, all’epoca, incensurato, ed i due
condividevano la conduzione di uno studio professionale e gestivano
numerosi clienti, e nulla dimostra quindi che il padre fosse consapevole
della provenienza della somma in oggetto da un rimborso IVA, in ipotesi
illecitamente ottenuto dal figlio. Illogicamente, la Corte di appello
avrebbe valorizzato il legame di consanguineità, trascurando che – se la
motivazione della sentenza impugnata fosse corretta – il padre dovrebbe
essere ritenuto responsabile, a titolo di concorso, del reato di truffa
costituente presupposto di quello ascrittogli di reimpiego; la Corte di
appello ha anche valorizzato la contestualità dei versamenti, poiché
l’indebito rimborso IVA fu percepito nello stesso giorno in cui ebbe luogo
la contestata operazione di presunto reimpiego, ma ciò, a parere del
ricorrente, rafforzerebbe l’ipotesi di una comune programmazione dei
fatti, e quindi la responsabilità concorsuale del padre nel reato
presupposto di truffa.

22

motivo.

23
Il ricorrente lamenta, infine, la mancanza di prova della volontà da
parte dell’imputato di ostacolare l’identificazione della provenienza della
somma, confermata dall’utilizzazione, per le presunte operazioni di
reimpiego, di un assegno circolare, che doveva contenere l’indicazione
dell’emittente e del beneficiario, e rendeva, quindi, la somma in oggetto
senza dubbio “tracciabile” .

infondato.

7.2.2. Vanno immediatamente richiamate la puntuale ricostruzione
dei fatti accertati (f. 16 s.) e le argomentazioni con la quali la Corte di
appello ha rigettato i motivi di appello presentati nell’interesse del
ricorrente, con i quali si mirava a negare che l’imputato avesse
consapevolezza della provenienza illecita della somma reimpiegata (f. 17
ss.).

7.2.3. Si è già osservato (cfr. § 6.1.1. di queste Considerazioni in
diritto) che è inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione
dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1,
lett. e), c.p.p., per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni
elemento di prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica
ed indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro
istruttorio,

7.2.4. La Corte di appello, per trarre prova della consapevolezza che
ALFREDO PALUMBO aveva circa la provenienza illecita della somma di
denaro consegnatagli dal figlio ANTONINO ha valorizzato, con
motivazione esauriente, logica, non contraddittoria, come tale
incensurabile in questa sede, una serie di elementi (puntualmente
riportati a f. 17 s.), senz’altro all’uopo significativi, e non tali da dover
lasciare necessariamente desumere che padre e figlio fossero anche
concorrenti nel reato presupposto, ricavandosi da essi al più una
generica e penalmente irrilevante connivenza del padre nelle att vità

23

7.2.1. Il motivo è in parte manifestamente infondato, in parte

#

24
delittuose poste in essere dal figlio (in difetto di un obbligo di denuncia,
che neanche il ricorrente argomenta essere sussistente).

7.3. Le ulteriori censure (costituenti oggetto del primo e del secondo
motivo) inerenti all’erronea applicazione dell’art. 648-ter c.p. sono
infondate.

danni dello Stato finalizzata a riscuotere indebitamente un
finanziamento di oltre 700 milioni di lire ex lege 488 del 1992 (la cui
erogazione era prevista quale agevolazione finanziaria alle attività
produttive delle aree depresse del Paese) e simulare il conferimento ne
LA ZAGARA s.a.s. di una somma a sua volta pari a 700 milioni di lire,
l’imputato avrebbe impiegato una somma di 70 milioni di lire,
illecitamente ottenuta dal figlio quale indebito rimborso IVA, per
effettuare 10 versamenti, con contestuali prelievi di somme per lo stesso
ammontare.

7.3.2. Il ricorrente essenzialmente lamenta erronea applicazione
dell’art. 648-ter c.p. per più ordini di ragioni:
– per configurare il delitto di reimpiego la somma de qua deve essere
impiegata in attività economiche o finanziarie lecite, non come nella
specie

asseritamente

fraudolente,

e

quindi

illecite,

svolte

professionalmente;
– sarebbe, inoltre, necessario che detta somma sia già stata in
precedenza “ripulita”, il che non sarebbe configurabile nel caso di
specie;

mancherebbe, nel caso di specie, la prova della volontà

dell’imputato di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa
della somma reimpiegata.

7.3.3. Va immediatamente richiamata la puntuale ricostruzion dei
fatti accertati (f. 16 s.), che in concreto il ricorrente non contesta.

24

7.3.1. Secondo la contestazione, al fine di realizzare una truffa ai

25

7.3.4. Ciò premesso, occorre innanzi tutto osservare che, attraverso
la norma incriminatrice di cui all’art. 648-ter c.p. il Legislatore ha inteso
tutelare la genuinità del libero mercato da qualunque forma di
inquinamento proveniente dall’immissione di somme di provenienza
illecita nei normali circuiti economici e finanziari; come osservato da
autorevole dottrina,

«si vuole in tal modo impedire che l’ordine

economico possa subire gravi turbamenti, anche sotto forma di

disponibilità di ingenti risorse a costi inferiori a quelli dei capitali leciti
consente alle imprese criminali di raggiungere più facilmente posizioni
monopolistiche».

7.3.5.

L’ambito di operatività dell’art. 648-ter c.p. ricomprende

l’impiego di denaro di provenienza illecita in attività economiche o
finanziarie non soltanto svolte professionalmente (come pure ritiene
parte autorevole della dottrina), ma anche svolte sporadicamente od
occasionalmente: a ciò induce inequivocabilmente la previsione di una
circostanza aggravante speciale ad hoc per i fatti commessi nell’esercizio
di un’attività professionale» (art. 648-ter, comma 2, c.p.).

Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:

«Integra il delitto di cui all’art.

648-ter c.p. anche l’impiego di

denaro di provenienza illecita in attività economiche o finanziarie svolte
non professionalmente, ma sporadicamente od occasionalmente.

7.3.6. Tenuto conto delle finalità perseguite dall’art. 648-ter c.p.
(cfr. § 7.3.4. di queste Considerazioni in diritto), per configurare il
delitto di reimpiego non è neanche necessario che la somma di
provenienza illecita sia impiegata in attività economiche o finanziarie
lecite.
Nessuna rilevanza diretta può, quindi, assumere, per escludere la
configurabilità del reato, l’eventuale illiceità dell’attività economa o
finanziaria nella quale siano impiegate somme di denaro di proveni n±a

25

violazione del principio della libera concorrenza, posto che la

26
illecita, poiché in tal caso l’offesa arrecata dalla condotta al bene
tutelato è anche maggiore.

Va, in proposito, affermato il seguente principio di diritto:
«Integra il delitto di cui all’art.

648-ter c.p. anche l’impiego di

denaro di provenienza illecita in attività economiche o finanziarie

7.3.7. Per quanto riguarda la mancanza di prova della volontà da
parte dell’imputato di ostacolare l’identificazione della provenienza
delittuosa della somma reimpiegata, è nota al collegio l’esistenza di un
orientamento giurisprudenziale a parere del quale, premesso che

il

presupposto comune delle fattispecie incriminatrici previste dagli artt.
648, 648-bis e 648-ter c.p. è costituito dalla provenienza da delitto del
denaro e dell’altra utilità di cui l’agente è venuto a disporre, le dette
fattispecie si distinguono, sotto il profilo soggettivo, per il fatto che la
prima di esse richiede, oltre alla consapevolezza della suindicata
provenienza, necessaria anche per le altre, solo una generica finalità di
profitto, mentre la seconda e la terza richiedono la specifica finalità di
far perdere le tracce dell’origine illecita, con l’ulteriore peculiarità,
quanto alla terza, che detta finalità deve essere perseguita mediante
l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie.
L’art. 648-ter si pone, quindi, in rapporto di specialità con l’art. 648bis e questo lo è, a sua volta, con l’art. 648.
Il principio è stato affermato per la prima volta da Sez. IV, sentenza
n. 6534 del 23 marzo 2000, CED Cass. n. 216733, ma in modo
meramente assertivo, senza ulteriori argomentazioni, ed è stato in
seguito pedissequamente ribadito, sempre senza un’autonoma esegesi
delle fonti, da Sez. I, sentenza n. 1470 dell’Il dicembre 2007, dep. 11
gennaio 2008, CED Cass. n. 238840, e Sez. II, sentenza n. 39756 del 5
ottobre 2011, CED Cass. n. 251194, per la quale, da ultimo, le
fattispecie criminose di riciclaggio e reimpiego, pur a forma libe a,
richiedono che le condotte siano caratterizzate da un tipico effe

26

illecite».

27
dissimulatorio, avendo l’obiettivo di ostacolare l’accertamento o
l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa del denaro.

Detto orientamento appare, peraltro, in contrasto con la lettera delle
disposizioni interessate, e non può essere accolto.

Invero, l’art. 648-bis, comma 1, stabilisce che «Fuori dei casi di

altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in
relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione
della loro provenienza delittuosa, è punito …>>.
L’art. 648-ter, stabilisce, a sua volta, che «Chiunque, fuori dei casi
di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis,
impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità
provenienti da delitto, è punito …»
A ben vedere, quindi, la necessità che la condotta incriminata
ostacoli l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro et c. è
testualmente richiesta soltanto ai fini della configurabilità del delitto di
riciclaggio.

A questo primo argomento, di ordine squisitamente, ma
inequivocabilmente, testuale (poiché la diversa terminologia adoperata
nel medesimo contesto – le due disposizioni sono collocate in sequenza rivela, a parere del collegio, la trasparente intenzione del Legislatore di
fare riferimento ad elementi costitutivi diversi: in caso contrario, sarebbe
davvero incomprensibile l’avere previsto, soltanto in una norma e non
anche nell’altra, un requisito strutturale in realtà comune), se ne
accompagna uno ulteriore, di ordine sistematico.
E’ stata già posta in risalto (cfr. § 7.3.4. di queste Considerazioni in
diritto) la finalità perseguita dal legislatore attraverso la norma
incriminatrice di cui all’art. 648-ter.
Autorevole dottrina ha osservato che il delitto di riciclaggio presenta
una oggettività giuridica composita (patrimonio; amministrazione d Ila
giustizia; ordine economico quale momento dell’ordine pubblico;
trasparenza dei rapporti a contenuto patrimoniale); diversame

27

concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o

28
secondo le intenzioni del Legislatore, lo specifico spazio di operatività
dell’art. 648-ter c.p.

«è destinato a coprire una fase successiva a

quella del riciclaggio, e cioè l’anello terminale sfociante nell’investimento
produttivo dei proventi di origine illecita».
Ed in virtù della clausola di riserva (<>)
all’art. 648-ter viene riconosciuta una funzione di difesa residuale, poiché

fattispecie di ricettazione e riciclaggio.

Soltanto per il riciclaggio, dunque, l’art. 648-bis fa espresso
riferimento alla necessità che la condotta risulti idonea ad ostacolare la
ricostruzione del cosiddetto

“paper trail”,

mentre nel reimpiego la

condotta tipica si concretizza nel mero di impiego in attività economiche o
finanziarie di denaro, beni ed altre utilità provenienti da delitto, poiché
esso – anche a prescindere da non richieste finalità dissimulatorie – è di
per sé idoneo a ledere il bene-interesse tutelato.

Va, in proposito, affermato, il seguente principio di diritto:

«Per la configurazione del delitto di reimpiego (art. 648-ter c.p.)
non occorre che la condotta sia caratterizzata da un effetto
dissimulatorio, al contrario richiesto dal solo art. 648-bis c.p. ai fini della
configurabilità del delitto di riciclaggio; il reimpiego costituisce, infatti,
fattispecie residuale, che mira unicamente a tutelare la genuinità del
libero mercato da qualunque forma di inquinamento proveniente
dall’immissione di somme di provenienza illecita nei normali circuiti
economici e finanziari».

7.3.8.

Pur se la Corte di appello si è rifatta ad un orientamento

giurisprudenziale che si è appena ritenuto non condivisibile, nondimeno le
conclusioni dispositive cui essa è giunta quanto alla configurabilità del
delitto di cui all’art. 648-ter c.p. sono, in definitiva, corrette, essendo nel
caso di specie il predetto delitto configurabile per il solo fatto dell’impiego
in una attività economico-finanziaria di denaro provenienti da una tr

28

la disposizione non è applicabile nei casi in cui il fatto integri già le

29
a prescindere dalla volontà, da parte dell’imputato, di ostacolare
l’identificazione della provenienza della somma.

7.3.9. Quanto alla necessità o meno, ai fini della configurabilità del
delitto di cui all’art. 648-ter c.p., che la somma reimpiegata sia già stata
in precedenza “ripulita”, i rilievi che precedono evidenziano l’estraneità
di essa alla materialità della fattispecie, e quindi la non necessità.

LE STATUIZIONI ACCESSORIE
8. Il rigetto totale dei ricorsi comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 5 novembre 2013.

Anche tale doglianza è, pertanto, infondata.

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