Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 890 del 12/11/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 890 Anno 2016
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da

GIOVAGNOLI Flavio, nato a Minturno 1’08/08/1946

avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino del 27 marzo 2015;

udita la relazione del consigliere Paolo Antonio Bruno;
sentito il Procuratore Generale, in persona del Sostituto Gabriele Mazzotta, che ha
concluso chiedendo il rigetto del ricorso, previo deposito di note d’udienza;
sentito, altresì, l’avv. Francesco Missori, sostituto processuale dell’avv. Carlo
Porrati, che si è riportato ai motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Flavio Giovagnoli era chiamato a rispondere, innanzi al Tribunale di
Alessandria, dei reati di seguito indicati:
1) ai sensi degli artt. 81 cpv cod pen., 2621 cod. civ. e 223 legge fall. perché, con
più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, agendo quale amministratore
unico della società E.S.B.-Euro Swap Bodies s.r.I., con sede in Alessandria,

Data Udienza: 12/11/2015

dichiarata fallita dal Tribunale di Alessandria con sentenza del 21 dicembre 2006, al
fine di ingannare il pubblico (in particolare gli enti creditizi ed i terzi contraenti della
società) e di conseguire per la società predetta un ingiusto profitto, nei bilanci
relativi agli esercizi dal 2002 al 2005, esponeva fraudolentemente, in modo idoneo
ad ingannare i destinatari sulla reale situazione economica, finanziaria e
patrimoniale della società, fatti non corrispondenti al vero ovvero ometteva
informazioni necessarie sulla situazione predetta. In particolare:

il conto soci c/finanziamenti è stato portato in detrazione dei crediti della

al fondo svalutazione crediti non erano appostate somme di importo idoneo a

fronteggiare i rischi di inadempimento né erano effettuate adeguate svalutazioni dei
crediti scaduti o incagliati, nonostante l’enorme massa di crediti siffatti, che sono
stati svalutati, nel gennaio 2006, per l’importo complessivo di C 1.642.764,10;

nel bilancio relativo all’esercizio 2002 risulta un finanziamento soci fittizio

pari a C 409.653,41;

nel bilancio relativo all’esercizio 2003 risulta un finanziamento soci fittizio

pari a € 39.326,29 ed un’omessa contabilizzazione dei ricavi per C 40.000;

nel bilancio relativo all’esercizio 2004 risulta un finanziamento soci fittizio

pari a C 149.814,23 ed un’omessa contabilizzazione di ricavi per C 53.820;
e concorreva a cagionare il dissesto della società (con la condotta evidenziata,
infatti, era impedita l’emersione tempestiva di perdite del capitale sociale o della
completa erosione di esso, che avrebbero determinato l’adozione delle misure di cui
agli artt. 2446 e 2447 cod. civ., ovvero il ripianamento delle perdite e la
ricostituzione del capitale o l’immediata messa in liquidazione della società, con una
riduzione dei danni a terzi e del passivo).
2) Ai sensi degli artt. 216 e 223 legge fall. perché, agendo nella qualità di cui al

capo 1, distraeva e dissipava beni sociali. In particolare:
non consegnava al curatore del fallimento il fondo cassa pari a C 13.166,91
risultante dall’ultimo saldo contabile alla data del 2 agosto 2006;
effettuava o comunque acconsentiva prelievi nelle casse sociali a favore dei soci
di danaro poi non destinato a scopi sociali, per un importo pari almeno a C
220.952,71, per l’esercizio 2002, C 196.198,11 per l’esercizio 2003 e € 2898,37 per
l’esercizio 2006;
vendeva beni sociali, nella fattispecie casse mobili, ad un unico cliente, nel
2004 per C 130.999,81 e nel 2006 per C 150.500,00, non riscuotendone il credito
relativo alla prima cessione effettuata quando la società doveva considerarsi già in
stato di insolvenza, integralmente svalutato il 31 gennaio 2006, né quello relativo
alla seconda cessione, effettuata peraltro pochi giorni prima che il credito relativo
alla prima fosse integralmente svalutato.

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società per rilevanti importi, anziché essere esposto tra i debiti della stessa;

Con sentenza del 15 giugno 2009 il Gup del Tribunale di Alessandria,
pronunziando con le forme del rito abbreviato, ritenuto il vincolo della continuazione
tra i reati contestati e previa concessione delle attenuanti generiche, dichiarava
Flavio Giovagnoli responsabile dei reati a lui ascritti e – previa concessione delle
attenuanti generiche – lo condannava alla pena di anni due di reclusione, oltre
consequenziali statuizioni.
Pronunciando sul gravame proposto nell’interesse dell’imputato, la Corte
d’appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della

limitatamente all’omessa consegna al curatore del fondo cassa, con formula perché
il fatto non sussiste; e, valutate le già concesse attenuanti generiche come
prevalenti sull’aggravante di cui di cui all’art. 219, comma 2 n. 1 legge fall.,
ritenuta contestata in fatto, rideterminava la pena nella misura di anni uno e mesi
quattro di reclusione; con ulteriori statuizioni di legge e conferma nel resto.
Avverso l’anzidetta pronuncia il difensore dell’imputato, avv. Carlo Porrati, ha
proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura di seguito indicate.
Con il primo motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione degli artt.
2621 cod. civ. e 216 223 legge fall. e mancanza o manifesta illogicità della
motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen.
Si contesta, in particolare, la valutazione delle risultanze processuali con
specifico riferimento all’addebito di mancata appostazione di somme di importo
idoneo a fronteggiare i rischi di inadempimento ed alla mancata, adeguata,
svalutazione dei crediti scaduti od incagliati.
Si osserva, in proposito, che i crediti esposti in bilancio erano reali, donde
l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato in questione, ai sensi dell’art. 223,
comma 2, n. 1 legge fall. in rapporto all’art. 2621 cod. civ., che richiedeva la
“esposizione dei fatti materiali non rispondenti al vero”.
La nuova formulazione del citato art. 2621 cod. civ., rispetto alla precedente
versione, non fa più riferimento ai “fatti”, ma precisa che deve trattarsi di “fatti
materiali” non rispondenti al vero; con esclusione, quindi, delle “mere valutazioni”.
Le valutazioni estimative (quali, ad esempio, il valore di un immobile od il
presumibile valore di realizzo di un credito o di un brevetto) di per sé non sarebbero
punibili, ma lo diventano solo se – e quando – si riferiscano a fatto materiale non
rispondente al vero, sicché non rileva l’errato apprezzamento del valore di realizzo
di un credito effettivo. Non è, dunque, pertinente il richiamo della sentenza
impugnata al precedente giurisprudenziale (Sez. 5 n. 8084/2000), proprio perché
anteriore alla riforma del decreto legislativo n. 61 del 2002.
L’altro precedente giurisprudenziale indicato dalla sentenza impugnata (Sez. 1
n. 42116/2013) conferma, sostanzialmente, l’assunto difensivo: il reato può

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pronuncia impugnata, assolveva l’imputato dal reato di cui al capo 1),

sussistere solo se è provato che siano stati indicati nell’attivo patrimoniale crediti
sicuramente irrealizzabili.
Il giudice di appello non ha indicato alcuna prova che, già anteriormente al
gennaio 2006, i crediti in parola fossero, con certezza, irrealizzabili né valgono a
supplire mere congetture in relazione ai tempi di riscossione dei crediti. Donde,
l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato in contestazione.
In ogni caso, é insussistente l’elemento soggettivo, atteso che il giudice di
appello, al di là di mere congetture, non ha indicato alcuna prova dimostrativa che

tantomeno, h indicato alcuna prova dimostrativa che lo stesso, pur essendo a
conoscenza dell’inesigibilità, non abbia effettuato adeguata svalutazione dei crediti,
con il dolo specifico di ingannare il pubblico e di conseguire per la società un
ingiusto profitto.
Con il secondo motivo si denuncia mancanza o, comunque, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen.,
con riferimento all’indicazione di voci fittizie, con riguardo all’appostazione di
finanziamenti soci, alla quale avrebbe dovuto far riscontro, in regime di “partita
doppia”, correlata appostazione dal lato opposto dello stato patrimoniale.
Non è stato considerato, inoltre, che le fatture relative alle operazioni
contestate esistevano realmente, così come riconosciuto dal consulente del Pm dott.
Ruggiero. I pagamenti erano stati, peraltro, effettuati tramite banca, a mezzo
ricevute bancarie e, quindi, erano documentate, effettive ed incontestabili; e tanto
risultava per tabulas dagli estratti conto acquisiti agli atti.
Il giudice d’appello ha redatto una motivazione meramente apparente e,
comunque, non vi è stato contraddittorio sul punto.
Non c’era stata alcuna dolosa omessa contabilizzazione e la fattura, emessa
dalla società nei confronti della CCFC per C 43.200,00, era stata regonnarlrnente
pagata con ricevuta bancaria, il cui importo era stato anticipato dai soci e, quindi,
correttamente era stato movimentato il conto soci c/finanziarnenti.
Erronea, inoltre, era stata la valutazione in ordine all’eccedenza dei prelievi-soci
rispetto ai versamenti-soci, in quanto il presupposto fattuale era del tutto privo di
riscontro probatorio.
Con il terzo motivo si denuncia mancanza e, comunque, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla ritenuta distrazione o
dissipazione di beni sociali – nella fattispecie casse mobili – mediante loro vendita
ad un unico cliente (la Transitai Limited), nel 2004, per C 130.999,81 e, nel 2006,
per C 150.500,00, senza riscuotere né il corrispettivo della prima cessione asseritamente effettuata quando la società doveva considerarsi già in stato di
insolvenza – né quello della seconda cessione.

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l’imputato avesse, all’epoca, conoscenza dell’insolvibilità dei suoi clienti; né,

Anche sul punto il giudice di appello era incorso nel vizio di mancanza di
motivazione, recependo, pedissequamente, le errate affermazioni del consulente del
Pm., ancorché le relative affermazioni fossero smentite dalla contabilità della
società fallita acquisita agli atti. Anzi, a precise contestazioni della difesa, lo stesso
consulente avesse riconosciuto, in sede di esame dibattimentale, gli errori in cui era
incorso.
L’affermazione del giudice di appello secondo cui, a fronte della vendita di casse
mobili del 2004 per C 130.999,81, non risultasse emessa alcuna fattura era

erano state valutate le dichiarazioni del dott. Mauro Marenco, commercialista
incaricato della tenuta della contabilità. Era emerso, in particolare, che la consegna
dei documenti contabili aveva luogo, per disguido o mera dimenticanza, con un
certo ritardo, sicché, di conseguenza, anche le registrazioni contabili erano
intempestive. Il giudice di appello non aveva neppure considerato le allegate fatture
Transitai, accluse al ricorso.
Con il quarto motivo si denuncia inosservanza dell’art. 597, comma 3 cod. proc.
pen., ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) dello stesso codice di rito.
Il giudice a quo, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva applicato
d’ufficio la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e
dell’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa, sostenendo che l’art. 597, comma 3, non contemplerebbe tra i
provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, in ipotesi di impugnazione
proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie.
L’assunto era, però, in contrasto con un orientamento giurisprudenziale di
legittimità.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso pone il quesito di diritto se, a seguito della novella
dell’art. 2621 cod. civ., ad opera dell’art. 9 legge 27.5.2015 n. 69, il falso c.d.
valutativo o “qualitativo” rientri, tuttora, nella sfera di punibilità delle false
comunicazioni sociali, con le ovvie implicazioni anche sul versante della
configurabilità della c.d. fattispecie impropria da reato societario, di cui all’art. 223
legge fall., per l’ipotesi in cui il reato presupposto sia proprio quello di cui al citato
2621 cod. civ.
La fattispecie oggetto di giudizio riguarda, in particolare, la dissimulata
esistenza di un’enorme quantità di crediti “incagliati” – ossia in sofferenza e, di
fatto, oramai inesigibili – nella ragguardevole misura del 62% del totale e per un
importo complessivo, come da successiva svalutazione, di C 1.642.764,10.

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smentita dall’acquisita contabilità, che non era stata considerata, così come non

Tale condizione di sostanziale inesegibilità, significativamente rivelata già
dall’indicazione di un tempo medio d’incasso progressivamente crescente, sino a
valori abnormi (188 giorni nel 2001, 235 giorni nel 2002, 493 giorni nel 2003,
6.024 giorni nel 2005), era stata non solo sottaciuta, ma artatamente simulata,
attestandosi nelle relazioni ai bilanci del 2002, 2003, e 2004 che «i crediti ed i

debiti sono valorizzati al valore di realizzo, in quanto, per ciò che concerne i crediti,
si tratta di uno stock fisiologico dovuto alle normali tempistiche di pagamento e non
vi sono dubbi sulla solvibilità delle ditte nostre debitrici».

pienamente avvertiti, l’indicazione in bilancio di improbabile valore di realizzo (in
luogo dell’iscrizione secondo il presumibile valore di realizzo come prescritto dall’art.
2426 n. 8, cod. civ.) ed il mancato ricorso alla tempestiva svalutazione, con
regolare appostazione nel fondo svalutazione crediti, integravano artificiosa
rappresentazione, mediante mendace esposizione – e, finanche,

“occultamento”

(sotto lo specifico riflesso della detta inesegibilità) – di fatti materiali rilevanti non
rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della
società.
Insomma, in siffatta prospettiva era, ovviamente, del tutto irrilevante la reale
esistenza delle ragioni creditorie, non essendo in discussione il fatto materiale della
relativa sussistenza, quanto, piuttosto, la falsa rappresentazione, nei successivi
bilanci di esercizio, di un valore di realizzo sempre più problematico ed inverosimile
nonché l’occultamento della sostanziale inesegibilità.
L’inveritiera esposizione delle componenti positive di reddito, in uno ad altri
“artifici” contabili, era finalizzata a consentire alla società di continuare ad offrire (ai
fornitori ed agli istituti di credito) una falsa, rassicurante, rappresentazione della
situazione patrimoniale e finanziaria, continuando, in particolare, a mascherare
continui, ingiustificati, prelievi dalle casse sociali. Il progressivo “drenaggio” di
risorse della società, anche quando la stessa versava, oramai, in stato di
irreversibile sofferenza, aveva contribuito ad aggravarne il dissesto, che avrebbe,
invece, imposto l’immediato ricorso ai rimedi di legge.
Nel sostenere la tesi della non punibilità del falso “valutativo”, in base alla
nuova formulazione dell’art. 2621 cod. civ., il ricorrente ha fatto espresso richiamo
a recente pronuncia di questa Corte di legittimità (Sez. 5, n. 33774 del 16/06/2015,

Crespi, Rv. 264868).
L’assunto non può, però, essere condiviso per le ragioni che si andrà ad
esporre.

2. Giova, intanto, premettere che la “novella” ha profondamento inciso sulla
precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali, prima
articolata – in una sorta di progressione criminosa – in due distinte ipotesi (la prima,
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Insomma, a fronte dell’incontestabile realtà di crediti della cui inesigibilità si era

prevista dall’originario art. 2621 cod. civ., in termini di reato contravvenzionale; la
seconda come reato di danno).
Sono, ora, previste due distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di
società non quotate (odierno art. 2621 cod. civ.) o quotate (nuovo art. 2622 cod.
civ.), entrambe concepite come delitti di pericolo, punibili di ufficio. Incisivo è stato
l’intervento sulla stessa morfologia dell’illecito, mediante l’eliminazione delle soglie
di punibilità; mentre, quanto all’elemento soggettivo, alla rimozione dell’inciso
l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico»

«con

ha fatto riscontro l’impiego

fine di procurare per sé o per altro un ingiusto profitto»

(Sez. 5, n. 37570 del

08/07/2015, Rv. 265020).
Sono stati, inoltre, introdotti due nuovi articoli, e cioè gli artt. 2621-bis e 2621ter cod. civ.
Il primo prevede una diminuzione di pena, ove i fatti di cui all’art. 2621 siano di
lieve entità, «tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle
modalità o degli effetti della condotta»;

e prevede, altresì, lo stesso regime

sanzionatorio per i fatti di cui allo stesso art. 2621 cod. civ. (salvo che costituiscano
più grave reato), riguardanti società che non superino i limiti indicati dal secondo
comma dell’art. 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, stabilendo, in ipotesi siffatta, la
procedibilità a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari
della comunicazione sociale.
L’art. 2621-ter cod. civ. stabilisce, invece, la non punibilità per particolare
tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., qualora il giudice valuti «in modo
prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori
conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis».

3. E’ noto che la nuova formulazione letterale dell’art. 2621 cod. civ. (che
sanziona l’esposizione «nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali
dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, (…) fatti materiali rilevanti non
rispondenti al vero»

ovvero nell’omettere

«fatti materiali rilevanti la cui

comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o
finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo
concretamente idoneo ad indurre altri in errore») costituisce l’epilogo di un processo
di continua trasformazione nel tempo del dato positivo.
Nell’evoluzione storica del testo si è, infatti, passati dalla locuzione “fatti falsi”
che figurava nel codice di commercio Zanardelli del 1882 a quella

«fatti non

rispondenti al vero» introdotta dal legislatore del 1942, per giungere, poi, alla
formula utilizzata dal d.lgs. n. 61 del 2002 «fatti materiali non rispondenti al vero
ancorché oggetto di valutazioni» (usata anche nella formulazione del delitto di
ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza, di cui all’art. 2638 cod. civ.); da
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dell’avverbio “consapevolmente”, ferma restando la necessità del dolo specifico («al

ultimo ridisegnata dalla legge n. 69 del 2015 nei termini riferiti, ossia

«fatti

materiali rilevanti non rispondenti al vero», mediante elisione dell’inciso “ancorché
oggetto di valutazioni” ed aggiunta dell’aggettivo “rilevanti” al sintagma «fatti
materiali».
La

quaestio iuris

indicata in premessa è insorta proprio a seguito del

menzionato intervento “ortopedico” sulla pregressa formulazione, risolvendosi nello
specifico interrogativo se la soppressione dell’inciso possa spiegare rilevanza sul
versante sostanziale, comportando l’espunzione dall’alveo dei fatti punibili di quelli

Orbene, sono noti i termini dell’acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale
che si è agitato attorno alle formule di volta in volta usate dal legislatore,
segnatamente sulla valenza semantica della locuzione “fatti materiali”.
Reputa il Collegio che non sia il caso di ripercorrere i punti salienti della

querelle, in quanto indagini retrospettive possono assumere valore meramente
indicativo e, ad ogni modo, marginale, così come valore solo relativo possono avere
quelle che evocano i lavori preparatori. Ed infatti, l’interpretazione deve,
primariamente, confrontarsi con il dato attuale, nella sua pregnante significazione,
e con la voluntas legis quale obiettivizzata e “storicizzata” nel testo vigente, da
ricostruire anche sul piano sistematico – nel contesto normativo di riferimento senza che possano assumere alcun valore le contingenti intenzioni del legislatore di
turno.
L’esegesi della norma dovrà, ovviamente, essere condotta secondo gli ordinari
canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, secondo cui «nell’applicare la legge

non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore»,
quest’ultima da intendersi – per quanto si è detto – in termini rigorosamente
oggettivi, come volontà “consacrata” nel dettato normativo.
Solo in via sussidiaria, in caso di ambiguità del dato testuale, è consentito il
ricorso ad altri parametri interpretativi di supporto.

4.

Nel caso di specie, opina il Collegio che all’ineludibile indagine testuale

debba associarsi il richiamo al canone logico-sistematico ed a quello teleologico, ai
fini della compiuta focalizzazione dell’impatto della novella sull’assetto normativo
preesistente.
Sul primo versante, non v’é dubbio che l’indagine letterale sconti, come di
consueto, un quid di relativismo per la non sempre ineccepibile formulazione della
struttura espositiva, talora persino in rapporto

all’ortodossia

sintattico-

grammaticale. Tale approssimazione è, notoriamente, frutto non solo di scarso
tecnicismo, ma anche della complessità della stessa procedura di elaborazione del
testo delle leggi, sovente effetto di successive modifiche ed emendamenti, nel
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“valutativi” (rectius di “quelli oggetto di valutazione”).

perseguimento di problematici equilibrismi strategici e compromissori, che, a volte,
finiscono con lo stravolgere il significato inizialmente concepito.
Nondimeno, nel caso di specie, non sembra revocabile in dubbio che la
rimozione dal testo previgente della locuzione “ancorché oggetto di valutazioni” non
possa, di per sé, assumere alcuna decisiva rilevanza.
Quella in esame, infatti, è tipica proposizione “concessiva” introdotta da
congiunzione

(ancorché)

notoriamente equipollente ad altre tipiche e similari

(“sebbene”, “benché”, “quantunque”, “anche se” et similia). Ed è risaputo che una

nucleo sostanziale della proposizione principale. Nel caso di specie, il suo precipuo
significato si coglie in funzione della precisazione – ritenuta opportuna, onde fugare
possibili dubbi (agitati in sede interpretativa) – che nei “fatti materiali” oggetto di
esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai

soci o al pubblico, sono da intendersi ricompresi anche quelli oggetto di valutazione.
La proposizione concessiva ha, dunque, funzione prettamente esegetica e, di
certo, non additiva, di talché la sua soppressione nulla può aggiungere o togliere al
contesto semantico di riferimento.
Conseguentemente, nel caso di specie, l’elisione di una proposizione siffatta
non può, certo, autorizzare la conclusione che si sia voluto imnnutare l’ambito
sostanziale della punibilità del falsi materiali, che, invece, resta impregiudicata,
continuando a ricomprendere, come in precedenza, anche i fatti oggetto di mera
valutazione. In sostanza, l’intervento in punta di penna del legislatore ha inteso
“alleggerire” il precipitato normativo, espungendo una precisazione reputata
superflua, siccome mera superfetazione linguistica.

4.1. Non appena si abbandoni, poi, il piano prettamente testuale, per volgere lo
sguardo al versante logico-sistematico, è dato cogliere appieno l’ininfluenza della
rinnodulazione normativa.
D’altro canto, un’indagine esclusivamente testuale, nella ricerca del più
appropriato significato della locuzione “fatti materiali rilevanti”, secondo la comune
accezione dei termini usati, sarebbe inconferente e, persino, erronea.
Ed invero, a giudizio della Corte, le interpretazioni che, di volta in volta, si sono
impegnate nell’analisi della formulazione linguistica, secondo la comune accezione
dei lemmi che la compongono, sono incorse in macroscopico errore di prospettiva,
non considerando che “materiali e rilevanti” sono termini squisitamente “tecnici” e
non comuni, siccome frutto di mera trasposizione letterale di formule lessicali in uso
nelle scienze economiche anglo-americane e, soprattutto, nella legislazione
comunitaria, la cui originaria matrice non può, certamente, ritenersi dissolta nella
detta traslazione.
Non fosse altro perché la disciplina civilistica del bilancio e delle altre comunicazioni
sociali ha – già di per sé – connotazione eminentemente tecnica e non può, dunque,

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proposizione siffatta ha finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del

non avvalersi di strumenti linguistici propri della scienza contabile od aziendalistica,
anche d’oltre confine. Anzi, con riferimento alla normazione comunitaria, l’uso di
lemmi corrispondenti è quasi imposto dall’obbligatoria osservanza delle direttive in
materia, ove recepite nel nostro sistema giuridico, considerato che obiettivo
primario delle stesse è quello di armonizzare – pure sul piano propriamente
lessicale – gli ordinamenti interni degli Stati membri, anche attraverso l’impiego di
schemi di bilancio comuni, onde agevolare la comparazione del principale veicolo di
informazione ed il relativo esame da parte di una più vasta platea di destinatari,

Per questo, l’individuazione della significazione precipua dei termini materiali e
rilevanti non può prescindere dal richiamo ai contesti in cui gli stessi sono maturati
e da cui sono stati recepiti.
4.2. Ed allora, la qualificazione materiale si riconnette al concetto tecnico di
materialità (o materiality), che, da tempo, gli economisti anglo-americani hanno
adottato come criterio fondamentale di redazione dei bilanci di esercizio ed anche
della revisione.
Esula, di certo, dalle esigenze del presente giudizio l’approfondimento delle
diverse prospettazioni dottrinarie sulla nozione di materialità e sui criteri (qualitativi
o quantitativi) cui deve ispirarsi la relativa “concretizzazione”, nella fase sia della
redazione del bilancio che della sua revisione. Basterà osservare, al riguardo, che,
al di là di espressa formalizzazione nei diversi ordinamenti giuridici nazionali, il
principio della materialità è universalmente riconosciuto come criterio-guida, nella
redazione del bilancio, dalle prassi contabili di tutti i paesi più evoluti, secondo le
indicazioni di autorevoli organismi internazionali di settore.
Pur nella diversità di sfumature in cui è usato, può affermarsi – con
apprezzabile margine di approssimazione – che il termine è, sostanzialmente,
sinonimo di essenzialità, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono trovare
ingresso – ed essere valutati – solo dati informativi “essenziali” ai fini
dell’informazione, restandone al di fuori tutti i profili marginali e secondari.
E’ pacificamente riconosciuto che il principio della materialità è strettamente
correlato a quello fondamentale – caratterizzante la legislazione comunitaria – della
true and fair view (espressamente menzionato nell’art. 2, comma terzo, della IV
direttiva CEE sul bilancio d’esercizio e nell’art. 16, comma terzo, della VII Direttiva
CEE sul bilancio consolidato), che è stato tradotto dal nostro legislatore, nell’art.
2423 cod. civ., con l’espressione

«rappresentazione veritiera e corretta della

situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato
economico di esercizio».

Si ritiene, cioè, che soltanto le informazioni essenziali

siano coerenti con l’idea di una rappresentazione adeguata e realmente efficace,
specie in diretta connessione con il suo fine precipuo (che è quello di informare i
terzi, utilizzatori del bilancio, sulle reali condizioni economico-finanziarie della

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coincidente con l’intero bacino comunitario.

società, al fine di orientarne correttamente le scelte operative, in modo consapevole
e responsabile).
In termini, di certo, condivisibili si è osservato in dottrina che il principio in
questione, implicito nella formulazione della c.d. clausola generale della chiarezza e
veridicità del bilancio, di cui al menzionato art. 2423 cod. civ., deve, in fondo,
ritenersi immanente nel nostro sistema giuridico e, di fatto, già presente nelle
pieghe della disciplina codicistica, traducendosi nei postulati dell’opportunità e
dell’efficienza.

giuridica romana, discendendo dal brocardo “de minimis non curat praetor”,

a

significazione del fatto che, come il giudice non deve occuparsi delle cose di poco
conto, così il contabile e l’analista finanziario devono interessarsi solo dei dati
fondamentali e di particolare momento, tralasciando tutto quanto sia di
insignificante rilievo.
4.1 Allo stesso modo l’aggettivo “rilevante” è di stretta derivazione dal lessico
della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di

rilevanza

sancito

dall’art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE (relativa ai bilanci di esercizio, ai
bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese,

recepita

nel nostro ordinamento con d.lgs. 14/08/2015, n. 136, entrato in vigore il
16/09/2015), che definisce “rilevante” lo stato dell’informazione

«quando la sua

omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni
prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa», con la precisazione che
«la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe».
Il concetto di “rilevanza” (al pari della

materialità)

deve, dunque, essere

apprezzato in rapporto alla funzione precipua dell’informazione, cui sono preordinati
i bilanci e le altre comunicazioni sociali dirette ai soci ed al pubblico, nel senso che
l’informazione non deve essere “fuorviante”, tale, cioè, da influenzare, in modo
distorto, le decisioni degli utilizzatori.
Ulteriori specificazioni del concetto si leggono all’art. 6, par. 1, lett. j) della
stessa direttiva, ove è stabilito che

«non occorre rispettare gli obblighi di

rilevazione, valutazione, presentazione, informativa e consolidamento previsti dalla
presente direttiva quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti»; ed al punto
17 del considerando ove è detto che «i/ principio della rilevanza dovrebbe regolare
la rilevazione, la valutazione, la presentazione, l’informativa e il consolidamento nei
bilanci».
Dall’insieme di tali prescrizioni – recepite nel nostro ordinamento con appositi
atti normativi – può trarsi la conclusione che è stato normativamente introdotto nel
nostro sistema un nuovo principio di redazione del bilancio, ossia quello della
rilevanza.

11

Anzi, il principio – secondo alcuni – sarebbe diretta derivazione della tradizione

“Materialità” e “rilevanza” dei fatti economici da rappresentare in bilancio
costituiscono, allora, facce della stessa medaglia ed entrambe sono postulato
indefettibile di “corretta” informazione, sicché le aggettivazioni materiali e rilevanti,
ben lungi dal costituire ridondante endiade, devono trovare senso compiuto nella
loro genesi, finalisticamente connessa – per quanto si è detto – alla funzione
precipua del bilancio e delle altre comunicazioni sociali, quali veicoli di informazioni
capaci di orientare, correttamente, le scelte operative e le decisioni strategiche dei
destinatari. Ed in tanto l’orientamento può essere “corretto” ed adeguato, in

oltreché veritiera, sia anche “immediata”, nella sua essenzialità, e significativa.
4.4. In siffatta prospettiva ermeneutica anche il lemma fatto non può essere
inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento del mondo fenomenico,
quanto piuttosto nell’accezione tecnica, certamente più lata, di dato informativo
della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono
destinati a proiettare all’esterno. In proposito, inutilmente si cercherebbe di trarre
spunto, sul piano esegetico, dalla soppressione – intervenuta nel corso dei lavori
preparatori – del termine informazioni (che figurava nell’art. 4 del disegno di legge
15.3.2013, n. 19), ripristinando l’originario lemma fatti, o dalla stessa sostituzione
del termine “informazioni”, assunto ad oggetto della condotta omissiva nella
previgente formulazione dell’art. 2621 cod. civ., con l’attuale sintagma

fatti

materiali rilevanti.
E’ agevole osservare, al riguardo, che il sostantivo informazioni sarebbe stato
persino superfluo in un contesto comunicativo (bilancio ed altre comunicazioni
sociali) che si sostanzia null’altro che di informazione.
L’utilizzo del termine fatti non è casuale, non solo per la più ampia accezione in
cui deve essere inteso (in un insieme eminentemente tecnico), tale da
ricomprendere tutti gli elementi di pertinente informazione, ma soprattutto per la
sua flessibilità, in quanto utilmente spendibile in riferimento non solo al bilancio,
ma anche alle altre, obbligatorie, comunicazioni sociali.
Anzi, se – a stretto rigore – in riferimento al bilancio il termine in esame può
anche apparire di dubbia pertinenza (posto che nel bilancio ciò che rileva non è
tanto il fatto in sé, quanto piuttosto il dato espresso dalla elaborazione anche
valutativa dello stesso fatto e la conseguente, sua, traduzione in grandezza
numerica: cfr. anche art. 2427 n. 1 cod. civi, secondo cui la nota integrativa deve,
tra l’altro, indicare “i criteri applicati nella valutazione delle voci di bilancio), risulta,
invece, quanto mai appropriato per le altre comunicazioni, nelle quali devono
trovare esposizione anche fatti stricto sensu, ossia gli eventi di gestione, intervenuti
nel corso dell’esercizio od anche successivamente alla relativa chiusura, di segno
positivo o negativo, comunque influenti – siccome essenziali e rilevanti, in chiave

12

funzione di opzioni davvero consapevoli e responsabili, in quanto l’informazione,

contabile/aziendalistica – sulla rappresentazione della situazione economicofinanziaria della società e del risultato economico di esercizio.
E l’aggettivo “rilevante” finisce, così, con l’essere dato linguistico rafforzativo
della necessità di significazione in quella direzione finalistica e, al tempo stesso,
“selettivo”, per tenere fuori della piattaforma d’indagine tutti gli aspetti secondari e
marginali – anche espressione di meri apprezzamenti, pronostici, proiezioni e
congetture – o, comunque, privi di ragionevole rilievo.
La mancata riproposizione dello stesso aggettivo nell’individuazione delle

di società quotate – salvo a non voler pensare a non improbabile svista del
legislatore – può trovare verosimile giustificazione alla luce del particolare (e più
rigoroso) regime di garanzia cui è sottoposta quella peculiare tipologia societaria
(oltre all’obbligo del previo controllo del bilancio da parte di società di revisione).

4.5. Certo, è innegabile che i concetti di “materialità” e “rilevanza” siano
indeterminati, essendosi ben guardato il legislatore dal puntualizzarne l’ambito
applicativo, operazione, del resto, assai ardua e forse impossibile stante la
complessità del bilancio e delle correlate comunicazioni, la varietà di schemi
rappresentativi e la molteplicità degli interessi sottesi alla loro redazione.
La formulazione in termini volutamente generici ed indeterminati demanda,
allora, al giudice il compito di specifica determinazione in riferimento alle concrete
fattispecie al suo esame, onde accertare se i fatti, di cui si assuma la falsa
rappresentazione, siano o meno

materiali e rilevanti.

Indagine che non può,

comunque, ritenersi arbitraria, in quanto, pur se irrefutabilmente discrezionale,
attiene pur sempre ad ambito di discrezionalità “tecnica”, parametrabile sulla base
degli ordinari dettami delle scienze contabili ed aziendalistiche. Ma, ancor prima di
tali specialistici parametri, il criterio guida è offerto dalla stessa clausola generale
prevista dal comma secondo dell’art. 2423 cod. civ. e dal combinato disposto delle
nuove disposizioni penali.
Ed invero, i fatti possono dirsi essenziali e rilevanti solo nella misura in cui
riescano a rendere una rappresentazione corretta e veritiera della situazione
economico-finanziaria della società, in diretta connessione con il fine primario di
orientare responsabilmente le scelte degli operatori (pubblico: risparmiatori, istituti
di credito ed altri interessati; e soci). Sicché la mera potenzialità al distorto
condizionamento, da apprezzarsi

ex ante, costituisce il parametro primario di

giudizio, da condursi – come si conviene ad ogni apprezzamento di merito – secondo
canoni di buon senso e ragionevolezza.
Il combinato disposto delle nuove norme penali vale, poi, a dimostrare come
anche il legislatore abbia, di fatto, applicato proprio il criterio della “rilevanza”.
Quanto mai significativo, in particolare, è il riferimento alle norme di cui ai
nuovi art. 2621-bis (Fatti di lieve entità), che prevede una diminuzione di pena ove

13

condotte commissive necessarie ai fini del reato di cui all’art. 2622 cod. civ. in tema

i fatti di cui all’art. 2621 siano di lieve entità,

«tenuto conto della natura e delle

dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta» e nel caso in
cui i fatti di cui all’art. 2621 riguardino società che non superino i limiti indicati dal
secondo comma dell’art. 1 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, ai fini della fallibilità; e
2621-ter

(Non punibilità per particolare tenuità),

che stabilisce che, ai fini

dell’applicabilità ; in materia, della causa di non punibilità per particolare tenuità di
cui all’art. 131-bis cod. pen., il giudice deve tener conto, «in modo prevalente, (ndr.
del…) l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori

L’utilizzo del criterio della rilevanza fa anche da contrappeso all’eliminazione
delle soglie di punibilità e del riferimento alle valutazioni estimative (che figurava
nella precedente formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ.), per riaffermare il
potere discrezionale del giudice in materia di accertamento del coefficiente di
significatività (nel senso anzidetto) della falsa rappresentazione, da apprezzarsi in
concreto al di là di ogni predeterminazione positiva in termini quantitativi.

5. Venendo, ora, al tema specifico del falso, nulla quaestio – alla stregua delle
superiori considerazioni – per la falsità riguardante gli enunciati descrittivi, ossia le
mendaci esposizioni in bilancio, nelle allegate relazioni od in altre obbligatorie
comunicazioni, di “fatti di rilievo” (nel senso anzidetto) verificatisi nel corso della
gestione o quant’altro di interesse nella logica della corretta informazione.
Sulla scorta dell’ovvia precisazione che “falso”, però, non può mai essere un
“fatto” (perché il fatto o esiste o non esiste nella realtà), ma solo la
rappresentazione che di esso é data, è agevole la conclusione che l’occultamento
ovvero l’esposizione

non rispondente al vero

di dati “rilevanti” in enunciati

descrittivi integra, certamente, l’ipotesi della falsità prevista dall’art. 2621 cod. civ.
Il problema – costituente il tema d’indagine preannunciato in premessa riguarda il falso c.d. valutativo o qualitativo, ossia la falsa rappresentazione del
fatto oggetto di valutazione. Ma se è indiscusso che solo gli enunciati informativi
possono dirsi falsi, è ormai universalmente riconosciuto che il significato di un
qualsiasi enunciato dipende dall’uso che se ne fa nel contesto dell’enunciazione,
sicché non è la sua struttura linguistica bensì la sua destinazione comunicativa ad
assegnare una possibile funzione informativa a un qualsiasi enunciato.
Orbene, è risaputo che il bilancio – principale strumento di informazione – si
compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto
di operazione concettuale consistente nell’assegnazione a determinate componenti
(positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica.
Si tratta, per vero, di attività prettamente speculativa e valutativa, al pari di
ogni altra che esprima giudizi di valore.

14

conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis».

Non può, allora, dubitarsi che nella nozione di rappresentazione dei

fatti

materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) non possano non

ricomprendersi anche – e soprattutto – tali valutazioni.
Se “fatto” lato sensu è il dato informativo e se “materiali e rilevanti” sono
soltanto i dati oggetto di informazioni essenziali e significative, capaci di influenzare
le opzioni degli utilizzatori, anche le valutazioni, ove non rispondenti al vero, sono
in grado di condizionarne, negativamente, le scelte strategiche ed operative.
Sicché, sarebbe manifestamente illogico escluderle dal novero concettuale delle

compiuta – e corretta – informazione.
Certo, la rappresentazione di un fatto – talora anche quando meramente
descrittiva od enunciativa – reca in sé un indefettibile coefficiente di soggettività e,
dunque, di opinabilità, quantomeno in ordine alla selezione degli elementi
effettivamente rilevanti. Sicché, quando la rappresentazione valutativa debba
parametrarsi a criteri predeterminati, dalla legge ovvero da prassi universamente
accettate, l’elusione di quei criteri – od anche l’applicazione di metodiche diverse da
quelle espressamente dichiarate – costituisce falsità nel senso di discordanza dal
vero legale,

ossia dal modello di verità “convenzionale” conseguibile solo con

l’osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui
rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltreché di certezza e trasparenza.

6. Il tema delle false valutazioni in bilancio presenta, indubbiamente, affinità
concettuale con la materia del falso ideologico, in relazione al quale l’elaborazione
giurisprudenziale e dottrinaria è, da tempo, giunta a significativi approdi, che
possono essere utilmente richiamati in questa sede.
In proposito, è indiscusso insegnamento di questa Corte di legittimità che,
anche la valutazione, quando non corrisponda al vero, possa essere “falsa (Sez. 5,
n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215744), sicché, nell’ambito di determinati
contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente
determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la
legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate,
ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il
giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare
la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (enunciati pacificamente
falsificabili, quantunque, rispetto a tali categorie della conoscenza logica, esso
dipende in maggior misura dal grado di specificità dei criteri di relazione). Ne
consegue, pertanto, che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri
indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni

(Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366).

15

rappresentazioni, potenzialmente “false”, di fatti essenziali e rilevanti, in funzione di

E’, particolarmente, significativo, al riguardo, che, nella parte motiva della citata
sentenza si faccia espresso riferimento proprio al “bilancio di esercizio” come tipico
esempio di contesto che implica accettazione di parametri di valutazione
normativamente determinati (artt. 2423 e 2426 cod. civ.) o tecnicamente
indiscussi.
Nella stessa logica interpretativa si sono, poi, poste altre sentenze di questa
Corte tra le altre: Sez. F, n. 39843 del 04/08/2015, Rv. 264364, secondo cui in

tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale,

valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento
che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto;
diversamente, se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni
normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della
situazione fattuale a parametri predeterminati, sicché l’atto potrà risultare falso se
detto giudizio di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato; e Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Rv. 257895: é
configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica, formulata in un
contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi, qualora il soggetto agente esprima il proprio giudizio
contraddicendo tali parametri, ovvero basandosi su premesse contenenti false
attestazioni.
Orbene, anche le valutazioni espresse in bilancio non sono frutto di mere
congetture od arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi
positivamente determinati dalla disciplina civilistica (tra cui il nuovo art. 2426 cod.
civ.), dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario (da ultimo, la citata
direttiva 2013/34/UE e gli standards internazionali Ias/Ifrs) o da prassi contabili
generalmente accettate (es. principi contabili nazionali elaborati dall’Organismo
Italiano di Contabilità).
Il mancato rispetto di tali parametri comporta la falsità della rappresentazione
valutativa, ancor’oggi punibile ai sensi del nuovo art. 2621 cod. civi., nonostante la
soppressione dell’inutile inciso ancorché oggetto di valutazioni.
In tale prospettiva, non par dubbio che ad assumere rilievo, in ultima analisi, è
non tanto la fedele trasposizione (pur sempre problematica) della realtà “oggettiva”
della società (c.d. verità oggettiva di bilancio), quanto piuttosto la corrispondenza
della stima dei dati esposti a quanto stabilito dalle prescrizioni di legge o da

standards tecnici universalmente riconosciuti. In proposito, coglie certamente nel
segno chi, in dottrina, sostiene che si tratta, propriamente, di un “vero legale” – in
ragione della predeterminazione normativa dei criteri di redazione – così come, del
resto, in qualche misura “convenzionale” è sempre qualsiasi affermazione di “verità”

16

chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di

(da quella che fonda le decisioni giurisdizionali, a quella delle stesse leggi
scientifiche).
Anche in tema di false comunicazioni sociali vale, pertanto, il principio di diritto
secondo cui lo statuto dell’enunciato valutativo dipende dal contesto della
comunicazione; e, nello specifico, l’ambito di riferimento postula l’accettazione di
parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi; e,
proprio alla stregua di quei parametri, una valutazione può reputarsi “vera” o
“falsa”.

nuova nella giurisprudenza di questa Corte ed il precedente enunciato, ad avviso
della Corte, mantiene tuttora viva attualità, pur a fronte dell’intervenuta
riformulazione normativa (Sez. 5, n. 234 del 16/12/1994, Rv. 200455, secondo cui

in tema di false comunicazioni sociali, art. 2621 cod. civ., la veridicità o falsità delle
componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di
legge e non alle enunciazioni “realistiche” con le quali vengono indicate).

7. Una conferma dell’interpretazione qui sostenuta, con particolare riferimento
al significato della locuzione «fatti materiali non rispondenti al vero» può – ancora
una volta – rinvenirsi nella giurisprudenza di questa Corte in enunciazioni di
principio la cui valenza teorica – indipendentemente dal regime temporale di
riferimento – trascende il dato testuale e storico (Sez. 5, n. 8984 del 18/05/2000,
Rv. 217767 secondo cui in tema di false comunicazioni ed illegale ripartizioni di utili

o di acconti sui dividendi, nell’espressione “fatti non rispondenti al vero” contenuta
nella norma incriminatrice, vanno ricom prese le stime sul valore di entità
economiche non precisamente calcolabili; invero, pur se la prova della non
rispondenza al vero appare difficile da raggiungere quando il fatto si configura come
operazione dell’intelletto, non avente un concreto parametro di riscontro, non di
meno, anche la stima o valutazione deve essere considerata attività fattuale).
In funzione della ricerca di momenti di conferma – in prospettiva teleologica non può, poi, essere privo di significato l’inserimento sistematico delle nuove false
comunicazioni sociali in un testo normativo anticorruzione (legge 27 maggio 2015,
n. 69, recante disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione,

di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio), ad eloquente riprova della
presa d’atto, da parte del legislatore, del dato esperienziale che il falso in bilancio è
ricorrente segnale di determinati fenomeni corruttivi, spesso in ragione
dell’appostazione contabile di false fatturazioni intese a costituire fondi

in nero,

destinati al pagamento di tangenti o ad altre illecite attività. Di talché, escludere
dall’alveo dei falsi punibili quello valutativo significherebbe frustrare le finalità della
legge, volte a perseguire ogni illecita attività preordinata ad alimentare o ad
occultare il fenomeno della corruzione.
17

Sia pure con riferimento al previgente regime, una siffatta affermazione non è

Ma anche nell’esclusiva, settoriale, prospettiva delle false comunicazioni sociali
l’interpretazione proposta dal ricorrente avrebbe effetti dirompenti sul versante
dell’effettivo perseguimento di tale illecito. Non ha, certamente, torto la dottrina
che ha osservato come – in ragione del fatto che la stragrande maggioranza delle
voci di bilancio é frutto di una qualche valutazione – una lettura restrittiva del
termine “fatti” si risolverebbe in interpretatio abrogans della fattispecie penale,
improponibile a fronte di alternative – e più pertinenti – esegesi del dato normativo.
Si tratta, per vero, di argomenti di contorno, seppur significativi, in prospettiva

presa d’atto della centralità assunta – nell’oggettività giuridica del reato dall’interesse generale al ragionevole affidamento nel rispetto, da parte del
redattore del bilancio, della clausola generale di cui all’art. 2423, comma secondo,
cod. civ. (chiarezza, veridicità e correttezza) (significativa, in tale logica, è anche la
prescrizione dell’art. 2428, comma primo, cod. civ., secondo cui il bilancio deve

essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un’analisi fedele,
equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del
risultato della gestione). Ed il rilievo è certamente in sintonia con i dettami della
normativa comunitaria in materia, il cui fulcro è proprio il principio generale della

true and fair view. Sicché, già solo la fondamentale necessità del rispetto del
canone della fedele rappresentazione vale a ripudiare la tesi dell’irrilevanza delle
false valutazioni di dati contabili, in realtà sicuramente capaci di influenzare,
negativamente, le scelte degli utilizzatori del bilancio.

7.1. Argomento a favore della tesi contraria a quella qui sostenuta non è
possibile trarre dal mantenimento, nel testo dell’art. 2638 cod. civ., del sintagma

ancorché oggetto di valutazioni, con riferimento ai fatti materiali non rispondenti al
vero, oggetto delle comunicazioni di legge alle autorità pubbliche di vigilanza, alla
stregua del canone interpretativo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”.
Ed invero, il ricorso a criteri logici di comparazione può aspirare ad un obiettivo
di ragionevole affidabilità solo in presenza di identità delle fattispecie di riferimento,
ove invece quelle in esame (rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2638 cod.
civ.) hanno natura ed obiettività giuridiche diverse e perseguono finalità
radicalmente differenti.
D’altronde, se non si dovesse tener ferma la diversità dei beni giuridici tutelati
dalla richiamate fattispecie delittuose e fosse, viceversa, praticabile la tesi qui
opposta, si avrebbe il risultato paradossale – e forse di dubbia costituzionalità – che
la redazione di uno stesso bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente
irrilevante se diretto ai soci ed al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle
autorità pubbliche di vigilanza.
E’ certamente significativo, in proposito, che questa Corte di legittimità, già in
passato, ha avuto modo di statuire che il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni
18

“interna”. Relativamente alla quale, però, l’argomento primario resta quello della

delle autorità pubbliche di vigilanza é configurabile anche nel caso in cui la falsità
sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, “atteso che dal novero dei

“fatti materiali”, indicati dall’attuale norma incriminatrice come possibile oggetto
della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali,
vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo, e
l’espressione, riferita agli stessi fatti, “ancorché oggetto di valutazioni”, va intesa in
senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma
incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come

(Sez. 5, n. 44702 del 28 settembre 2005, Rv 232535, in riferimento a fattispecie in
cui un istituto bancario aveva dolosamente sopravalutato la posta di bilancio
relativa a crediti vantati nei confronti della clientela per avvenuta concessione di
mutui, e risultati, in effetti, di difficile od impossibile recupero; nello stesso senso
recentemente, Sez. 5, n. 49362 del 7 dicembre 2012, Rv 254065).
Nell’occasione, questa Corte ha, dunque, statuito che l’espressione “fatti
materiali, ancorché oggetto di valutazioni” coincideva con quella “fatti non
corrispondenti al vero”, cioè, sostanzialmente con il testo dell’originario art. 2621
cod. civ., così offrendo significativo riscontro all’interpretazione secondo cui il
sintagma introdotto con la I. n. 61 del 2002 era mera superfetazione.

8.

Può, allora, affermarsi il principio secondo cui nell’art. 2621 cod. civ. il

riferimento ai “fatti materiali” oggetto di falsa rappresentazione non vale a
escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch’essi
predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti,
qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di
valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi,
anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa
e possono, quindi, dirsi veri o falsi.

9. Le altre censure che sostanziano il primo motivo di ricorso, ossia quelle
afferenti all’elemento oggettivo del reato in questione, sono destituite di
fondamento, posto che il giudice di appello ha chiaramente indicato le ragioni per le
quali l’omessa svalutazione dei crediti in sofferenza, pari a circa il 62/% del totale
dei crediti, attuata nella consapevolezza dell’impossibilità o estrema difficoltà della
loro riscossione, integrava condotta illecita, nella prospettiva della norma
richiamata, siccome oggettivamente dotata di capacità decettiva, volta a
sopravvalutare le componenti di attivo patrimoniale, sì da consentire una mendace
rappresentazione di solidità patrimoniale e finanziaria della società, continuando a
mascherare ingiustificati prelievi dalle casse sociali.

19

reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di “fatti non corrispondenti al vero”

L’elemento soggettivo è stato, plausibilmente, tratto dalla struttura “familiare”
della società, di cui l’imputato era amministratore, oltreché socio di maggioranza,
dunque perfettamente in grado di conoscere i rapporti giuridici della stessa
compagine sociale ed il grado di affidabilità della clientela; dall’indicazione di tempi
di recupero – sempre crescenti, sino a valori abnormi – dei crediti indicati e dalle
rassicuranti, inveritiere, attestazioni contenute nelle relazioni di bilancio.

9.1. Il secondo motivo è destituito di fondamento, a parte il profilo di

gravame, in ordine alle quali il giudice

a quo ha reso compiuta e pertinente

spiegazione. In particolare, il complesso motivazionale risulta esente da rilievi critici
avendo indicato le ragioni del ritenuto carattere fittizio delle appostazioni di
bilancio, affermato sulla base di risultanze ritenute inequivoche, come le relazioni
del curatore, che aveva direttamente compulsato i clienti, e del consulente del Pm.
escusso in dibattimento.
Ineccepibile, dunque, è il compendio argomentativo in forza del quale è stata
ritenuta la fittizietà dei pagamenti dei fornitori mediante finanziamenti dei soci, in
realtà mai avvenuti, di talché la non rispondenza al vero risultava sia “in dare”,
quanto all’apparente adempimento in favore degli stessi fornitori, che “in avere”,
posto che nessun finanziamento era stato effettuato dai soci.

9.2. Le censure che sostanziano il terzo motivo si collocano invece, alle soglie
dell’inammissibilità afferendo a profili di merito, notoriamente improponibili in
questa sede di legittimità, a fronte di motivazione formalmente corretta. In
particolare, la Corte distrettuale ha spiegato i motivi per i quali ha ritenuto le due
operazioni di cessione di casse mobili avessero natura distrattiva, alla stregua dei
univoci dati sintomatici della mancata corresponsione di corrispettivo o, comunque,
della mancata contabilizzazione delle relative fatture (essendo l’annotazione della
fattura relativa alla seconda operazione avvenuta dopo ben tre anni).
Adeguatamente spiegato è il motivo per cui le giustificazioni dell’imputato – in
ordine ad una pretesa compensazione dei crediti relativi alla cessione con debiti
inerenti a servizi di trasporto, asseritamente resi dalla società cessionaria – non
fossero plausibili, a parte la mancanza di qualsivoglia elemento di riscontro.
Si tratta, in tutta evidenza, di apprezzamento squisitamente di merito, che non
appare né illogico né carente.
Ed ancora, le conclusioni in ordine alla sussistenza del contestato reato di
bancarotta impropria sono adeguatamente motivate e del tutto in linea con
indiscussa lezione di questa Corte di legittimità (Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014,
Rv. 261759, secondo cui integra il reato di bancarotta impropria da reato societario
la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di

20

inammissibilità connesso alla mera riproposizione di questioni, gia agitate in sede di

occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di
impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con
conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie
delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento
del dissesto; cfr., nello stesso senso, Sez. 5, 11 gennaio 2013, n. 17021, rv
255089, secondo cui integra il reato di bancarotta impropria da reato societario
l’amministratore che, attraverso mendaci appostazioni nei bilanci, simuli un
inesistente stato di solidità della società, consentendo così alla stessa di ottenere

l’aumento dell’esposizione debitoria della fallita, determina l’aggravamento del suo
dissesto», che costituisce un caso esemplare di come l’aggravamento del dissesto
possa conseguire ad operazioni di mera rappresentazione di valori contabili.

9.3. Infondata, infine, è la quarta censura, riguardante l’asserita violazione
dell’art. 597, comma 3 cod. proc. pen., ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) dello
stesso codice di rito, con riferimento all’applicazione in appello della pena accessoria
dell’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e dell’incapacità, per la
stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sul riflesso che
il menzionato art. 597, comma 3, non contemplerebbe tra i provvedimenti
peggiorativi inibiti al giudice di appello – in ipotesi di impugnazione proposta dal
solo imputato – quelli concernenti le pene accessorie.
Il contrario avviso del giudice di appello è, senz’altro, corretto ed in linea con
indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice, che merita di essere qui
ribadito (Sez. 6, n. 49759 del 27/11/2012, Rv. 254202 secondo cui non viola il
principio della “reformatio in peius” la sentenza del giudice di appello che, in
presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria
dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea,
erroneamente disposta in primo grado; id Sez. 6, n. 31358 del 14/06/2011, Rv.
250553, secondo cui

é legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice

d’appello, delle pene accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorché la
cognizione della specifica questione non sia stata devoluta con l’impugnazione del
pubblico ministero;

cfr. pure Sez. 5, n. 8280 del 22/01/2008, Rv. 239474:

è

legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, delle pene
accessorie non applicate in primo grado, ancorché la cognizione della specifica
questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero, in quanto
la previsione di cui all’art. 597, comma terzo, cod. proc. pen. – che sancisce il
divieto della “reformatio in peius” quando appellante sia il solo imputato – non
contempla, tra i provvedimenti peggiorativi, inibiti al giudice di appello, quelli
concernenti le pene accessorie, le quali, ex art. 20 cod. pen., conseguono di diritto
alla condanna come effetti penali di essa).

21

nuovi finanziamenti bancari ed ulteriori forniture, giacché agevolando in tal modo

10. Per quanto precede, il ricorso – globalmente considerato – deve essere
rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso il 12/11/2015

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