Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8848 del 23/02/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 8848 Anno 2016
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
• BRIGANTI Lucia Maria Rosa, nata a Corleone il giorno 1/5/1968
avverso la sentenza n. 4316/2014 in data 30/10/2014 della Corte di Appello di
Palermo;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Pietro GAETA, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore dell’imputata, Avv. Salvatore CAPUTO, che ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 30/10/2014 la Corte di Appello di Palermo ha confermato la
sentenza in data 9/4/2013 del Tribunale di Termini Imerese – Sezione distaccata
di Corleone – con la quale BRIGANTI Lucia Maria Rosa era stata dichiarata
colpevole del reato di concorso in truffa aggravata ai danni della A.S.P. Palermo
e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, condannata a pene
ritenuta di giustizia.
In particolare si contesta alla BRIGANTI, dipendente presso il reparto di
psichiatria dell’Ospedale Civico “Dei Bianchi” di Corleone, di aver fatto timbrare
da terzi (rimasti ignoti) il proprio badge in modo da fare risultare il proprio arrivo

Data Udienza: 23/02/2016

sul posto di lavoro in orario antecedente a quello in cui effettivamente vi si
recava, così inducendo in errore il predetto ente circa l’effettiva durata del
servizio prestato e procurandosi il corrispondente ingiusto profitto pari alla
retribuzione erogatale. I fatti sono contestati come commessi in Corleone fino al
28/10/2008.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputata,
deducendo con un unico articolato motivo violazione di legge e vizi di

decisiva ex art. 606, lett. b), d) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 192 e
segg. cod. proc. pen.
Evidenzia, al riguardo, la difesa della ricorrente che la BRIGANTI aveva
contestato nel corso del giudizio di primo grado l’assunto dei Carabinieri che
avevano proceduto agli accertamenti affermando che nei casi di cui alle
contestazioni lei aveva timbrato in orario ed era entrata in Ospedale da altro
ingresso rispetto a quello controllato dagli inquirenti e che nessuna contestazione
in relazione a ciò le era stata elevata da parte della dirigenza della struttura
ospedaliera.
I Carabinieri avevano errato allorquando avevano rilevato che la timbratura del
badge della lavoratrice poteva essere effettuata solo da chi entrava dall’ingresso
del reparto ospedaliero posto sotto osservazione mentre in realtà esistevano nel
nosocomio altri tre sistemi di timbratura per la rilevazione delle presenze così
come confermato da alcuni testi sentiti in dibattimento.
Non sarebbe quindi stata raccolta un prova decisiva di colpevolezza dell’imputata
il che vizierebbe la decisione assunta ex art. 606, lett. d), cod. proc. pen.
La difesa della ricorrente dà poi atto di avere richiesto con nota del 19/1/2015
all’Amministrazione dell’Azienda Sanitaria Locale dalla quale dipende il presidio di
Corleone una certificazione attestante la timbratura da parte della BRIGANTI del
5/1/2015 effettuata in un sistema di rilevazione presenze diverso da quello
situato in psichiatria e di avere ottenuto per risposta una nota del 27/1/2015
dalla quale si evince che non è corretto sostenere che la BRIGANTI poteva
timbrare il proprio badge esclusivamente presso il reparto ospedaliero presso il
quale lavorava ciò ad ulteriore conferma che sarebbe stata sottratta
all’acquisizione dibattimentale una prova decisiva che doveva essere raccolta
nella fase investigativa.
La BRIGANTI che ha risarcito il danno materiale (quantificato in C 45,00)
all’Amministrazione di appartenenza avrebbe dovuto essere comunque assolta
perché il fatto non costituisce reato in relazione alla modesta entità economica

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motivazione della sentenza impugnata nonché mancata assunzione di una prova

dello stesso e, in ogni caso, la ricorrente dovrebbe essere dichiarata non punibile
per la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento dalla
stessa tenuto alla luce della riforma normativa introdotta con la I. 67/2014.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
La difesa della ricorrente ripropone in questa sede doglianze di fatto già
sottoposte all’attenzione della Corte di appello ed alle quali i Giudici distrettuali

La Corte di appello ha innanzitutto spiegato, anche facendo richiamo ad assunti
giurisprudenziali di questa Corte Suprema che non possono che essere in questa
sede ribaditi (cfr. pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata), le ragioni per le quali
non può essere accolta la tesi difensiva relativa all’insussistenza del reato di
truffa per difetto del requisito dell’apprezzabilità del danno provocato alla
persona offesa dovendosi tenere conto nel caso in esame non solo del danno
diretto (legato alla percezione di retribuzione non dovuta) ma anche della seria
lesione del rapporto fiduciario intercorrente tra le parti e dalla reiterazione delle
condotte.
Va detto immediatamente che quanto appena evidenziato si ricollega
al’intervenuta introduzione nel sistema di diritto penale della regola di non
punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), introdotto dal d.lgs.
16 marzo 2015, n. 28.
La norma de qua non è citata nella sentenza impugnata e neppure nell’atto di
ricorso in quanto entrata in vigore in epoca successiva a quando furono stilati i
predetti documenti ma si può indubbiamente ritenere che in essa possa essere
ricondotta l’istanza difensiva legata alla non punibilità del fatto per la tenuità del
danno (impropriamente presentata nel ricorso attraverso il richiamo alla formula
“il fatto non costituisce reato”).
Va detto, però, non si prospettano sul punto possibilità di intervento di questa
Corte Suprema atteso che i Giudici del merito (con una valutazione di fatto non
sindacabile in sede di legittimità) hanno già escluso nel caso in esame la tenuità
del fatto e, quindi, tanto più la “particolare tenuità del fatto” che potrebbe
portare all’applicazione del citato art. 131-bis cod. pen.
Quanto ai profili di merito legati al difetto di acquisizione probatoria circa la
possibilità che la ricorrente potesse avere personalmente timbrato il proprio
badge di accesso alla struttura ospedaliera presso la quale lavorava in una
postazione di rilevazione dei dati diversa da quella sottoposta all’attenzione dei
Carabinieri, deve innanzitutto osservarsi, come risulta accertato in fatto ed

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hanno dato una risposta congrua e conforme a diritto.

esplicitato in sentenza, che indipendentemente dalla potenzialità della
“timbratura elettronica” in luogo diverso (peraltro esclusa dal teste CREDITI) la
BRIGANTI fu materialmente vista dai Carabinieri fare ingresso nel nosocomio in
orari diversi da quelli registrati dal sistema di rilevazione elettronica delle
presenze (cfr. in particolare pag. 5 della sentenza impugnata) e ciò basta per
ritenere provata la responsabilità della stessa in relazione alle condotte
contestate e rende evidente che nessuna violazione ricollegabile alla mancata
acquisizione di una prova decisiva (che la difesa della ricorrente non ha neppure

situazione di cui all’art. 606, lett. d), cod. proc. pen.
Il fatto, poi, che – come sembra sostenere la difesa della ricorrente – la
BRIGANTI una volta effettuata la timbratura elettronica del proprio badge aveva
la possibilità di allontanarsi dal reparto (ciò spiegherebbe la ragione per la quale
la stessa sarebbe stata vista dai Carabinieri fare rientro nel reparto in orari non
compatibili con quelli emergenti dal sistema di rilevazione elettronica delle
presenze) rimane a livello di mera affermazione difensiva non documentata in
questa sede attraverso lo specifico richiamo ad atti dell’istruttoria dibattimentale
in ossequio al consolidato principio giurisprudenziale dell'”autosufficienza” del
ricorso per cassazione.
Del tutto inammissibile è poi il richiamo – finalizzato a dimostrare la carenza di
acquisizione di elementi decisivi ai fini della pronuncia della sentenza di
condanna – a documentazione che la difesa della ricorrente avrebbe acquisito nel
2015.
Trascura la difesa il fatto che in sede di legittimità non possono essere prodotte
prove nuove (oltretutto nella specie irrilevanti atteso che riguardano una
situazione esistente in loco nel 2015 senza la dimostrazione che lo status quo
esisteva anche all’epoca dei fatti risalente a ben sette anni prima): il fatto che
tale documentazione non sia stata acquisita dalla difesa e prodotta a tempo
debito ai Giudici del merito non può certo incidere sulla validità della decisione
impugnata perché quella – e solo quella – era la sede dove potevano essere
raccolte le prove.
Da ultimo e per dovere di completezza non può non evidenziarsi che parte
ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione, tenta in realtà di sottoporre a
questa Corte un nuovo giudizio di merito, non consentito anche dopo la Novella.
La modifica normativa dell’articolo 606 cod. proc. pen., lett. e), di cui alla legge
20 febbraio 2006 n. 46 ha lasciato infatti inalterata la natura del controllo

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documentato di avere richiesto ai Giudici del merito) non può certo integrare la

demandato la corte di Cassazione, che può essere solo di legittimità e non può
estendersi ad una valutazione di merito.
Al giudice di legittimità resta tuttora preclusa – in sede di controllo della
motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché
ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale
modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del

giudice della motivazione.
Nel caso di specie va anche ricordato che con riguardo alla decisione in ordine
all’odierno ricorrente ci si trova dinanzi ad una c.d. “doppia conforme” e cioè
doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può
essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti
(con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è
stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione
del provvedimento di secondo grado.
Il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui
l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa
sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il
limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il
giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia
richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass.
Sez. 4, sent. n. 19710/2009, Rv. 243636; Sez. 1, sent. n. 24667/2007; Sez. 2,
sent. n. 5223/2007, Rv 236130).
Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale
probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure
dell’appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell’imputata, alla medesima
conclusione della sentenza di primo grado rispondendo con motivazione congrua,
logica e non contraddittoria alle doglianze difensive.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile.
Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa
delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa
di C 1.000,00 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.

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fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, è – e resta –

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il giorno 23 febbraio 2016.

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