Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8737 del 06/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8737 Anno 2014
Presidente: FERRUA GIULIANA
Relatore: OLDI PAOLO

Data Udienza: 06/11/2013

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Danese Massimo, nato a Will (Svizzera) il 23/01/1971

avverso la sentenza del 07/02/2011 del la Corte di appello di Lecce

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Paolo Oldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Gioacchino Izzo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Cristina Conti, che ha concluso chiedendo
l’annullamento della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 7 febbraio 2011 la Corte d’Appello di Lecce, in ciò
confermando la decisione assunta dal locale Tribunale (invece riformata in ordine
ad altri reati), ha riconosciuto Massimo Danese responsabile del delitto di
bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento

r

della società Star Project s.r.l., della quale era stato amministratore unico a far
tempo dal 13 febbraio 2002, ma anche amministratore di fatto in precedenza; ha
quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei
danni in favore del fallimento, costituitosi parte civile.
1.1. Secondo l’ipotesi accusatoria, per la parte recepita dal giudice di merito,
il Danese aveva distratto la somma complessiva di euro 147.257,36,
corrispondente alla prima tranche del finanziamento percepito dalla società ai
sensi della legge n. 488/92; aveva inoltre omesso di tenere e conservare parte

in maniera irregolare e incompleta, tale da rendere impossibile la ricostruzione
del patrimonio e del movimento degli affari.

2. Ha proposto personalmente ricorso per cassazione l’imputato, deducendo
censure riconducibili a sei motivi.
2.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello si sia
rifiutata di prendere in considerazione i motivi aggiunti dedotti con memoria
depositata il 21 aprile 2010, sull’errato presupposto che il deposito fosse tardivo
rispetto alla data dell’udienza, fissata per il 6 maggio 2010.
2.2. Col secondo motivo, dedotto in via gradata rispetto al precedente, il
ricorrente sostiene che l’udienza da prendere in considerazione per il computo
del termine di cui all’art. 585, comma 4, cod. proc. pen. era quella del 31
gennaio 2011, essendo stato disposto all’udienza precedente un mero rinvio.
2.3. Col terzo motivo deduce violazione di legge in ordine alla ritenuta
configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, sotto un duplice profilo: 1)
per esserglisi attribuita la qualità di amministratore di fatto, senza tener conto
dell’intervenuta riforma dell’art. 2639 cod. civ. e in assenza delle relative prove;
2) per essersi omessa una corretta ricostruzione delle effettive destinazioni delle
somme pervenute nella disponibilità della società tra il 21 gennaio 2002 e il 31
gennaio 2002.
2.4. Col quarto motivo lamenta che la sentenza impugnata, pur avendo
ritenuto illegittima la costituzione della parte civile nel procedimento di appello,
abbia omesso di trarne le dovute conseguenze.
2.5. Col quinto motivo impugna la condanna per bancarotta fraudolenta
documentale, sostenendo essere ben possibile la ricostruzione del movimento
degli affari della società poi fallita.
2.6. Col sesto motivo si richiama alle argomentazioni svolte nell’atto di
appello a sostegno della richiesta di prevalenza delle attenuanti generiche
sull’aggravante contestata.

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delle scritture contabili obbligatorie, mentre nella parte restante le aveva tenute

3. Vi è agli atti una memoria del difensore, ulteriormente illustrativa dei
motivi di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo non ha fondamento.
1.1. A norma dell’art. 172, comma 5, cod. proc. pen., «quando è stabilito
soltanto il momento finale, le unità di tempo stabilite per il termine si computano

da prendere in considerazione è quello fissato dall’art. 585, comma 4, cod. proc.
pen.; in esso, invero, è indicato soltanto il momento finale, che coincide con la
data dell’udienza: sicché il termine di quindici giorni deve intendersi riferito a
giorni liberi. Ciò significa che, per verificare se il termine sia stato rispettato, dal
computo – che va effettuato a ritroso – è necessario escludere tanto il dies a
quo, quanto il dies ad quem.

1.2. Ne consegue che, rispetto alla data dell’udienza fissata per il giorno 6
maggio 2010, l’ultimo giorno utile per il rispetto del termine di legge deve
considerarsi scaduto il 20 aprile 2010, poiché soltanto così restano liberi i
quindici giorni intermedi (dal 21 aprile al 5 maggio compresi); correttamente,
pertanto, la Corte d’Appello ha giudicato tardiva la memoria depositata il 21
aprile 2010.

2. Parimenti infondato è il secondo motivo.
2.1. L’assunto del ricorrente, secondo cui il computo del termine suindicato
dovrebbe rapportarsi non alla data dell’udienza fissata nel decreto di citazione
per il giudizio di appello, ma a quella di effettiva trattazione (31 gennaio 2001),
per essersi disposto nella prima udienza un mero rinvio, s’infrange nel principio
giurisprudenziale a tenore del quale il termine per la presentazione dei motivi
nuovi deve essere calcolato avendo riguardo alla prima udienza in cui l’imputato
viene ritualmente citato (Sez. 6, n. 42627 del 29/09/2009, Olivieri, Rv. 245165).
2.2. Nel caso di cui ci si occupa l’udienza per la trattazione del giudizio di
appello, originariamente fissata per il 6 maggio 2010, è stata rinviata non per
ragioni inerenti a vizi della notifica effettuata all’imputato, bensì per incompatibilità di uno dei componenti del collegio giudicante. Conseguentemente ha ben
operato la Corte di merito nel riferirsi a tale udienza ai fini del computo del
termine per il deposito dei motivi nuovi.

3. Da rigettare, per la sua infondatezza, è anche il terzo motivo.
3.1. È bensì vero che l’imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale,

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intere e libere». L’ipotesi trova riscontro nel caso di specie, nel quale il termine

per la quale vi è stata condanna in primo e in secondo grado, si riferisce a una
condotta distrattiva avente la sua collocazione temporale in un’epoca nella quale
il Danese non aveva ancora assunto la qualità di amministratore unico della
società Star Project s.r.I.; ma è altrettanto vero che il ruolo a lui attribuito per
tale epoca, sia nella contestazione mossa dalla pubblica accusa, sia nella
ricostruzione fattuale recepita dai giudici di merito, è quello proprio dell’amministratore di fatto. Di tale convincimento la sentenza impugnata dà conto
evidenziando, per un verso, l’esplicita ammissione resa in tal senso dallo stesso

maggio 2044, e per altro verso l’obiettività delle circostanze inerenti:
all’individuazione del Danese quale persona più esperta in gestioni societarie
rispetto alla moglie Maria De Felice, che rivestiva all’epoca la qualità di
amministratrice formale della società; alla mancanza di altre occupazioni a lui
facenti capo, stante la totale inattività delle società DA.MA . Import Export s.r.l. e
Multi Commerce s.r.I., delle quali risultava amministratore; al fatto che lo stesso
Danese avesse poi rilevato tutte le quote della Star Project s.r.I., divenendone
l’unico socio, a distanza di nemmeno un mese dall’ottenimento della prima
tranche

del finanziamento pubblico oggetto di distrazione. Dalla globale

valutazione di tali elementi la Corte d’Appello, con ragionamento immune da vizi
logici e giuridici, ha tratto il convincimento che l’odierno ricorrente avesse
esercitato i poteri gestori in modo continuativo e significativo (così come
richiesto dall’art. 2639 cod. cov.), prima ancora di assumere formalmente la
qualità di amministratore unico: a nulla rilevando, a tal fine, il fatto che la
sottoscrizione dei documenti necessari ad ottenere il finanziamento fosse stata
apposta dalla De Felice, quale soggetto formalmente titolare della rappresentanza legale della società.
Le contestazioni mosse dal ricorrente alla lettura data dai giudici di merito
alle sue dichiarazioni, in una col richiamo da lui operato a risultanze testimoniali
di segno assertivamente contrario all’ipotesi accusatoria, s’inscrivono in una
censura non consentita, siccome versata in fatto. Al riguardo non sarà inutile
ricordare che, per consolidata giurisprudenza, pur dopo la modifica legislativa
dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. introdotta dall’art. 8 L. 20
febbraio 2006, n. 46, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo
sulla motivazione – la rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti; e il riferimento ivi contenuto anche agli
«altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame» non vale a
legittimare il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati
processuali (così Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv. 233780; v.

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Danese nell’interrogatorio assunto dal giudice per le indagini preliminari il 25

anche le più recenti Sez. 5, n. 44914 del 06/10/2009, Basile, Rv. 245103; Sez.
6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), ma consente soltanto di
dedurre, quale vizio di motivazione, il rapporto di contraddizione esterno al testo
della sentenza riconducibile a quella forma di errore revocatorio sul significante,
che viene abitualmente definita «travisamento della prova»: il che si verifica
quando l’errore denunciato ricada non già sul significato dell’atto istruttorio, ma
sulla percezione del testo nel quale si estrinseca il suo contenuto (Sez. 6, n.
25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009,

ipotesi, quest’ultima, non riscontrabile nel caso di cui ci si occupa.
3.2. Ugualmente versate in fatto, oltre che inammissibilmente ripetitive di
motivi di appello tardivamente dedotti, sono le doglianze indirizzate ad
accreditare un utilizzo correlato all’attività di impresa dei fondi ricevuti a titolo di
finanziamento pubblico. Valga qui ribadire come non sia consentito, nel giudizio
di legittimità, sollecitare una rinnovata lettura del materiale probatorio
prospettando una ricostruzione del fatto alternativa a quella fatta motivatamente
propria dal giudice di merito.

4. Il quarto motivo è privo di fondamento.
4.1. Il giudice di secondo grado, con statuizione non impugnata, ha ritenuto
che al curatore fallimentare, costituitosi parte civile, non fosse dato partecipare
al giudizio di appello in assenza di un’apposita autorizzazione del giudice
delegato. Da ciò ha tratto l’unica conseguenza giuridicamente sostenibile,
consistita nel negare alla parte civile la rifusione delle spese di difesa sostenute
nel grado; non poteva invece – e correttamente si è astenuto dal farlo – porre
nel nulla le conseguenze dell’accoglimento della domanda risarcitoria già
disposto nella sentenza di primo grado, atteso che a tanto non si sarebbe potuto
indurre nemmeno nel caso di totale assenza della parte civile nel processo di
appello, alla stregua del principio di immanenza della costituzione (Sez. 2, n.
24063 del 20/05/2008, Quintile, Rv. 240616).

5. Inammissibile, per la sua genericità, è il quinto motivo.
5.1. Nella sentenza impugnata l’argomento riguardante la configurabilità del
delitto di bancarotta fraudolenta documentale è esaurientemente trattato, con
l’osservare che la norma incriminatrice non richiede un’assoluta impossibilità di
ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari, bastando invece la notevole
difficoltà di provvedervi: il che risulta essersi avverato nel caso di specie, a causa
del carattere meramente parziale della documentazione contabile consegnata al
curatore e della sua irregolare tenuta.

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A

Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215);

5.2. Alla linea motivazionale così sviluppata dalla Corte d’Appello, conforme
a un consolidato orientamento giurisprudenziale (Sez. 5, n. 21588 del
19/04/2010, Suardi, Rv. 247965; Sez. 5, n. 24333 del 18/05/2005, Mattia, Rv.
232212; Sez. 5, n. 10423 del 22/05/2000, Piana, Rv. 218383), il ricorrente non
muove alcuna specifica censura, limitandosi invece a riproporre l’argomento superato in virtù di quanto suesposto – facente perno sulla dedotta possibilità di
ricostruire il movimento degli affari della società fallita. Ciò non vale a soddisfare
il requisito di cui all’art. 581, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla stregua del

argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto
d’impugnazione si traduce in un vizio di aspecificità del motivo di ricorso, che ne
comporta l’inammissibilità (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv.
255568; Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; Sez. 1, n.
39598 del 30/09/2004, Burzotta, Rv. 230634).

6. Analogamente viziata da genericità è la censura che informa il sesto
motivo, riferita al giudizio di comparazione fra le attenuanti generiche e le
contestate aggravanti. La Corte d’Appello, pur riconoscendo l’applicabilità delle
attenuanti generiche «al solo fine di adeguare la pena al fatto», ha precisato di
non poterne dare una valutazione eccedente la mera equivalenza: e di ciò ha
fornito adeguata motivazione, facente riferimento alla gravità delle condotte
accertate. Il Danese nel proprio ricorso, anziché sottoporre a critica la ratio
decidendi così espressa, si limita a riportarsi integralmente alle argomentazioni
svolte nell’atto di appello, già valutate dal giudice di secondo grado e non
reiterabili in questa sede senza incorrere nel vizio di specificità del gravame,
come poc’anzi osservato.

7. Il rigetto del ricorso, che globalmente consegue a quanto fin qui
argomentato, comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 06/11/2013.

principio giurisprudenziale secondo cui la mancanza di correlazione fra le ragioni

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