Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8653 del 19/11/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 8653 Anno 2016
Presidente: AMORESANO SILVIO
Relatore: LIBERATI GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Ruoso Mario, nato a Fontanafredda il 17/7/1938
avverso la sentenza del 2/3/2015 della Corte d’appello di Trieste
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Liberati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro
Gaeta, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Bruno Malattia, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Mario Ruoso venne condannato con sentenza del 4/10/2013 dal Tribunale
di Pordenone alla pena di euro 600 di multa per il reato di cui all’ad 127 del
d.lgs. 10/2/2015 n. 30, per avere esposto in vendita, ceduto e poi nuovamente
esposto in vendita fino al 7 marzo 2008 l’automobile Nissan tipo Replica Ferrari
GTO in violazione di un valido titolo di proprietà industriale. Con la medesima
sentenza il Tribunale di Pordenone dispose anche la confisca e la distruzione
della automobile in sequestro e la condanna generica dell’imputato al
risarcimento dei danni in favore della parte civile Ferrari S.p.a.
La Corte d’appello di Trieste, investita dell’impugnazione dell’imputato, con
sentenza del 2 marzo 2015 ha dichiarato non doversi procedere per le condotte

Data Udienza: 19/11/2015

poste in essere fino al 2 settembre 2007 per intervenuta prescrizione,
rideterminando la pena per le condotte successive in euro 500 di multa.
Ha ritenuto la Corte d’appello integrata la violazione da parte dell’imputato
del diritto di privativa della Ferrari S.p.a. sul proprio marchio, attraverso la
messa in vendita da parte del Ruoso nel suo autosalone di un veicolo con le
stesse caratteristiche di forma e linea stilistica, oltre che di colore, della Ferrari
250 GTO, per quanto riguarda la livrea, il frontone, il codone, le prese d’aria
frontali e laterali, i cerchi a raggi cromati, i doppi scarichi, ritenuti del tutto simili

vettura posta in vendita dal Ruoso, inoltre, riportava sul cofano il marchio Ferrari
(composto da cavallino rampante su sfondo giallo), ed anche sulle fiancate, a
ridosso delle portiere, sul codone e sulla maschera del radiatore, in analogia ai
modelli dell’epoca di costruzione dell’originale. Tali caratteristiche del veicolo
detenuto dall’imputato erano idonee, ad avviso della Corte territoriale, a trarre in
inganno i non esperti e ad indurre in errore it consumatori circa l’origine e la
provenienza del prodotto.
Ha ritenuto, inoltre, la Corte d’appello che vi sia continuità normativa tra
l’art. 127 del codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2015) ed il vigente art.
517 ter cod. pen., e sussistente l’elemento psicologico richiesto da tale norma,
per avere l’imputato acquistato consapevolmente una vettura costituente replica
abusiva della Ferrari modello 250GT0 per conseguire un profitto dalla vendita di
tale veicolo, con la conseguente conferma della condanna dell’imputato,
limitatamente alle condotte successive al 2 settembre 2007, e delle altre
statuizioni contenute nella sentenza appellata.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo
difensore, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo ha lamentato erronea applicazione di legge penale
(art. 606, lett. b), cod. proc. pen.), in relazione all’art. 517 ter cod. pen., e
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606, lett. e), cod.
proc. pen.), sulla base del rilievo che l’applicazione ad un prodotto (nella specie il
veicolo Nissan su cui erano stati applicati i segni distintivi Ferrari) di un marchio
genuino non costituisce usurpazione, che presuppone la fabbricazione di copie di
merci contenenti il segno distintivo senza il consenso del titolare; l’art. 517

ter

cod. pen. sanzionerebbe solo la fabbricazione e la commercializzazione di oggetti
in contrasto con i titoli di proprietà industriale (che costituirebbe usurpazione) e
la fabbricazione di merci realizzata carpendo l’idea originale inserita nel titolo di
proprietà industriale (che costituirebbe violazione).

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a quelli del suddetto modello Ferrari 250 GTO degli anni dal 1962 al 1964. La

L’applicazione ad un prodotto non proveniente dal titolare del marchio del
segno distintivo di quest’ultimo avrebbe potuto integrare gli estremi del reato di
cui all’art. 517 cod. pen., nella specie non contestato.
2.2. Con il secondo motivo ha nuovamente dedotto violazione della legge
penale (art. 606, lett. b, cod. proc. pen.), in relazione agli artt. 517 e 517 ter
cod. pen.), e mancanza ed illogicità della motivazione e travisamento delle prove
(art. 606, lett. c, cod. proc. pen.), in quanto la vettura i detenuta per la vendita
dejl’imputatoi presentava numerose caratteristiche tecniche e costruttive idonee

automobile Ferrari 250GT0, e dunque non sarebbe stata possibile la confusione
o confusorietà affermata dalla Corte d’appello di Trieste.
2.3. Con il terzo motivo ha dedotto erronea applicazione della legge penale
(art. 606, lett. b), cod. proc. pen.) in relazione all’art. 517 ter cod. pen., e
mancanza di motivazione (art. 606, lett. e), cod. proc. pen.), per il mancato
accertamento del dolo specifico di profitto richiesto dall’art. 517 ter cod. pen., in
ordine al quale la Corte d’appello non aveva motivato in alcun modo, e dovendo,
per contro, tale elemento essere escluso alla luce del prezzo di vendita che egli
aveva indicato, in linea con quello di mercato per un veicolo Nissan del tipo di
quello in questione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

1. L’art. 517 ter cod. pen., in relazione al quale è stata affermata la
responsabilità dell’imputato (essendo stata ravvisata continuità normativa tra
l’art. 127 del codice della proprietà industriale e tale norma, introdotta dall’art.
15 della I. 23 luglio t/009 n. 99), configura il delitto di fabbricazione e commercio
di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, punito con la reclusione
fino a due anni e con la multa fino ad euro 20.000.
Sotto la medesima rubrica legis confluiscono, accomunate nel medesimo
trattamento sanzionatorio, due distinte fattispecie, contenute, rispettivamente,
nel primo e nel secondo comma dell’art. 517 ter. La prima ha ad oggetto la
condotta di chi fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati
“usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso”, pur
potendo conoscere dell’esistenza del suddetto titolo. La seconda, quella di colui
che, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la
vendita, pone in vendita “con offerta diretta ai consumatori” o mette comunque
in circolazione i beni descritti nel primo comma.

a differenziarla da quella di cui avrebbe usurpato il marchio, e cioè una

L’elemento oggettivo delle due fattispecie sostanzialmente riproduce quello
del delitto di cui al primo comma dell’art. 127 d. Igs. n. 30 del 2005 (codice della
proprietà industriale), abrogato dal secondo comma dell’art. 15 della I.
23/7/4,009 n. 99.
Per quanto riguarda le condotte selezionate per l’incriminazione, alcune
(quelle di fabbricazione, utilizzo industriale ed introduzione nello Stato) sono le
stesse già prese in considerazione dall’art. 127 d.lgs. n. 30 del 2005. Le altre – e
cioè la detenzione per la vendita, la messa in vendita con offerta diretta ai

formulazione, ma in buona parte assorbono i contenuti di quelle previste dalla
disposizione abrogata. Così la detenzione per la vendita e l’offerta diretta ai
consumatori sostanzialmente anticipano la tutela penale in precedenza ancorata
alla condotta di vendita, mentre la messa in circolazione in definitiva amplia
ulteriormente i confini della fattispecie tipica.
L’unica significativa differenza tra l’assetto previgente e quello introdotto
dalla I. n. 99 del 2009 si riduce dunque alla mancata riproduzione della condotta
di “esposizione”, la cui funzione era soprattutto quella di attrarre nell’area di
tipicità dell’incriminazione quei comportamenti di promozione dei beni prodotti in
violazione dei titoli di privativa tenuti nell’ambito di manifestazioni commerciali
non dirette al pubblico dei consumatori, ma a quello degli operatori dei singoli
settori. Ulteriore novità riguarda la connotazione delle condotte che integrano il
reato. Mentre per l’art. 127 d. Igs. n. 30 del 2005 queste ultime assumevano
rilevanza penale in quanto commesse in violazione di un titolo di proprietà
industriale, nella formulazione accolta nel primo comma dell’art. 517 ter cod.
pen. oltre alla violazione del titolo rileva, in alternativa, anche la sua
usurpazione.
Per comprendere l’esatta portata della novità è necessario innanzi tutto
rilevare come il verbo “usurpare”, nel linguaggio comune, identifichi il
comportamento di chi eserciti, appropriandosene, un potere, una funzione o un
diritto la cui titolarità è riservata ad altri, e questo è il significato sostanzialmente
accolto nelle norme penali che lo utilizzano (si v. ad esempio gli artt. 267, 347,
498, 631 cod. pen. e l’art. 117 cod. nav.), compreso l’art. 171, comma secondo,
legge 22 aprile 1941, n. 633, che configura una circostanza aggravante del
delitto di abusiva riproduzione di opere dell’ingegno per il caso che il fatto
avvenga con usurpazione della paternità. E questo è anche il senso richiamato
nel Regolamento comunitario del 22 luglio 2003, n. 1383, il quale nel disciplinare
i poteri di intervento dell’autorità doganale sulle merci sospettate di violare i
diritti di proprietà intellettuale, all’art. 2, lett. b) precisa che tali sono anche le
“merci usurpative” e cioè quelle che “costituiscono o contengono copie fabbricate
senza il consenso del titolare”.
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consumatori, nonché la messa in circolazione – sono invece di nuova

Dunque anche l’art. 517 ter sembra volersi riferire non solo all’ipotesi dei
prodotti realizzati ad imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in
violazione del medesimo, bensì anche a quella della fabbricazione, utilizzazione e
vendita di prodotti, per così dire “originali”, da parte di colui che non ne sarebbe
titolato. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del licenziatario cui il titolare del
marchio abbia attribuito una esclusiva per la distribuzione dei propri prodotti in
un determinato ambito territoriale e che invece smerci i beni anche in altri
ambiti, ovvero a quella del fabbricante cui il titolare del brevetto affida la

dell’invenzione, il quale in violazione degli accordi contrattuali ne produca
occultamente un numero superiore, provvedendo poi a sfruttare
commercialmente in maniera autonoma quelle che costituiscono l’eccedenza.

2. Nella vicenda in esame è stata ravvisata la violazione del marchio
appartenente alla Ferrari S.p.a. nella esposizione per la vendita da parte
dell’imputato di un veicolo con le stesse caratteristiche di forma e linee stilistiche
della Ferrari modello 250 GTO (quanto alla livrea, il frontone, il codone, le prese
d’aria frontali e laterali, i cerchi a raggi cromati, i doppi scarichi), sul quale era
apposto (sul cofano, sulle fiancate, a ridosso delle portiere, sul codone e sulla
maschera del radiatore) il noto marchio Ferrari (composto da cavallino rampante
nero su sfondo giallo): non si tratta, dunque, della detenzione per la vendita di
un bene derivante da una condotta di usurpazione (nel senso anzidetto) di un
titolo di proprietà industriale, bensì dell’ipotesi di un prodotto realizzato ad
imitazione di quelli protetti dal titolo di privativa e quindi in violazione del
medesimo.
Ciò comporta l’infondatezza del primo motivo di ricorso, mediante il quale il
ricorrente ha denunciato violazione dell’art. 517

ter cod. pen. e vizio di

motivazione, in quanto la violazione di un valido titolo di proprietà industriale
sanzionata dalla norma citata non consiste solamente nella fabbricazione di
merci realizzata carpendo l’idea originale insita nel titolo di proprietà industriale
(come sostenuto dal ricorrente), ma anche, come nella specie, nella imitazione
dei prodotti protetti dalla privativa anche utilizzando segni distintivi autentici
(giacché altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi contemplata dall’art. 517
cod. pen.), come ampiamente illustrato nella motivazione della sentenza
impugnata, con la conseguente insussistenza sia della violazione di legge sia del
vizio motivazionale denunciati dal ricorrente con il primo motivo di ricorso.

3. Infondato risulta anche il secondo motivo di ricorso, mediante il quale il
ricorrente ha denunciato ulteriore violazione degli artt. 517 e 517 ter cod. pen. e
vizio motivazionale, per la erronea affermazione della confondibilità del veicolo

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realizzazione di un determinato numero di copie della cosa oggetto

detenuto per la vendita, in ragione della presenza di numerose caratteristiche
costruttive e tecniche idonee a differenziarlo dal prodotto originale, anche in
considerazione della peculiarità di quest’ultimo, trattandosi di veicolo di notevole
rarità e peculiarità e di caratteristiche assai diverse rispetto a quello detenuto
per la vendita dall’imputato, di cui avrebbe quindi potuto agevolmente
riscontrarsi la differenza.
Deve al riguardo osservarsi che la messa in circolazione di beni prodotti in
violazione di un titolo di proprietà industriale non coinvolge solo gli interessi del

l’immissione del bene nel circuito commerciale determina un pericolo per il
pubblico dei consumatori e, in ultima analisi, per l’ordine economico in generale,
tale da giustificare l’intervento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dalla
concreta induzione in errore dei consumatori circa la provenienza del prodotto
dal titolare della privativa, essendo sufficiente per la sussistenza del reato (che
ha natura di reato di pericolo) l’astratta confondibilità del prodotto imitato.
Al riguardo la Corte d’appello ha dato atto della idoneità del veicolo detenuto
dal ricorrente per la vendita a trarre in inganno i non esperti circa l’origine e la
provenienza del prodotto, sulla base delle sue caratteristiche di linea e di forma,
con apprezzamento di fatto diffusamente motivato sulla scorta delle
caratteristiche del veicolo, insuscettibile di riesame in sede di legittimità se
adeguatamente (come nella specie) motivato, con la conseguente infondatezza
della censura di carenza di motivazione sollevata al riguardo dal ricorrente, per
essere stata accertata la idoneità dei veicolo realizzato in violazione della
privativa industriale a trarre in inganno consumatori non esperti, che consente di
ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato contestato.

4. Del pari infondato risulta anche il terzo motivo di ricorso, mediante il
quale il ricorrente ha denunciato ulteriore violazione di legge e difetto di
motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato, ed in particolare al fine
di profitto richiesto dal secondo comma dell’art. 517 ter cod. pen., che dovrebbe
essere escluso, ad avviso del ricorrente, per la facile riconoscibilità della non
genuinità del veicolo e per la conseguente impossibilità di rivenderlo ad un
prezzo pari o prossimo a quello dell’originale.
La Corte d’appello ha dato atto del fine di profitto che ha mosso l’imputato
nel vendere, riacquistare e porre nuovamente in vendita il medesimo veicolo, per
ragioni esclusivamente economiche e con lo scopo di ritrarne un guadagno,
derivante quanto meno dall’interesse che il veicolo poteva suscitare tra i
consumatori per la sua peculiarità, con la conseguenza che debbono essere
escluse sia la lamentata violazione di legge (essendo stato accertato il fine di
profitto richiesto dalla norma), sia la denunciata carenza di motivazione (avendo
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titolare della privativa, bensì anche quelli della collettività, e quindi, in tal senso,

la Corte territoriale illustrato in modo logico le ragioni della ritenuta sussistenza
dell’elemento psicologico).
Il ricorso in esame deve, pertanto, essere respinto, stante l’infondatezza di
tutti e tre i motivi ai quali è stato affidato, ed il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

processuali.
Così deciso il 19/11/2015

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

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