Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8441 del 22/11/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8441 Anno 2014
Presidente: BEVERE ANTONIO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
– CARAVELLO GASPARE N. IL 22/05/1966
GAt-tglivo STEFANIA- ht. IL 3 /MI t.96GP
avverso il decreto n. 13/2013 CORTE APPELLO di PALERMO, del
26/10/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
lette/se itile conclusioni del PG Dott.
,

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 22/11/2013

A

Propongono ricorso per cassazione Caravello Gaspare, persona sottoposta, con decreto del
Tribunale di Palermo in data 19 luglio 2011, alla misura di prevenzione personale della
sorveglianza speciale, e a quella patrimoniale della confisca, nonchè sua moglie Gambino
Stefania, intervenuta, quale terza, nella procedura patrimoniale.
Oggetto del ricorso è il decreto della Corte d’appello di Palermo -sezione misure di
prevenzione- in data 26 ottobre 2012, con il quale sono stati rigettati gli appelli, proposti dai
nominati soggetti, contro il decreto del Tribunale di Palermo che, come anticipato, aveva
disposto, in primo luogo, la applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica
sicurezza con obbligo di soggiorno, sul presupposto dell’appartenenza dello stesso alla
associazione mafiosa Cosa nostra, nella articolazione territoriale della famiglia di Passo di
Rigano -Boccadifalco.
In secondo luogo, era stata disposta la confisca di prevenzione di una serie di beni intestati al
proposto e a sua moglie:questi erano costituiti dall’impresa individuale con cui veniva
esercitata attività di trasporto di merci su strada, da terreni, da fabbricati, da automobili e da
rapporti di conto corrente. Beni, tutti, ritenuti di valore assolutamente sproporzionato rispetto
alla capacità reddituale della famiglia del prevenuto.
Deducono i ricorrenti, la violazione di legge e il vizio di motivazione.
Sostengono che la Corte d’appello abbia del tutto omesso di motivare in ordine ai rilievi
difensivi con i quali si era dimostrato che gli impugnanti avevano, al tempo di ciascun acquisto,
lecite disponibilità da utilizzare.
E la scelta della Corte di non tenere conto di tali rilievi emergeva chiaramente dalla decisione,
che essa aveva espressamente enunciato, di non ritenere lecite disponibilità quelle non
dichiarate al fisco.
Tale determinazione integra, in particolare, la violazione dell’articolo 24 del decreto legislativo
n. 159 nel 2011, come sembra desumersi anche dalla giurisprudenza di legittimità che, in
modo sempre più insistente, riconosce, sia pure con riferimento all’omologa questione
scaturente dalla confisca ex articolo 12 sexies d.l. D. 306 del ’92, che la ricchezza non”
dichiarate al fisco comunque deve essere considerata nel giudizio di proporzionalità fra la
capacità di reddito dell’individuo e i beni da esso acquistati (sentt. n. 29926 del 2011 e
n.21265 del 2011).
Altra violazione di legge viene individuata, dal difensore dei ricorrenti, con riferimento agli
articoli 2217 e 2425 c.c. nonché all’articolo 15 del d.p.r. n. 600 del 1972 e all’articolo 3 del
d.p.r. numero 917 del 1986, norme dalle quali si evince che la contabilità annuale dell’impresa
individuale viene chiusa con conto dei profitti e delle perdite il cui risultato costituisce l’utile o
la perdita dell’esercizio. In altri termini,i costi per beni strumentali si inseriscono nel conto dei
profitti e delle perdite al fine di determinare il risultato di esercizio.
È pertanto scorretto affermare, come hanno fatto i giudici di merito, che la capacità di reddito,
ai fini di giustificare gli acquisti di beni strumentali, dovrebbe essere determinata con
riferimento agli utili di esercizio laddove gli acquisti in questione vengono effettuati non
necessariamente con gli utili ma vengono iscritti come costi del conto economico.
Quanto, poi, all’assolvimento dell’onere dei ricorrenti, ai fini della dimostrazione dei redditi
illeciti con i quali hanno avviato la loro impresa, questo è stato assolto con la prova del fatto
che il padre del Caravello aveva acquisito un importante introito cedendo la cava di cui era
titolare.
Di tale introito non era stato possibile offrire prova documentale, dato il tempo trascorso, ma
era stata offerta prova testimoniale (Scamarda Salvatore), non considerata dai giudici: una
1

Fatto e diritto

i

prova che comunque valeva a ribaltare l’assunto di questi ultimi secondo cui nessun membro
della famiglia del proposto aveva avuto disponibilità di somme di origine lecita.
È stata data anche la prova dei conti correnti dell’impresa dai quali erano state prelevate le
somme per l’acquisto di immobili effettuati dalla coniuge del proposto e, in tale prospettiva,
era stata richiesta l’acquisizione di atti contabili dell’azienda, in possesso del Tribunale e
comunque afferenti a conti di deposito ai quali i ricorrenti non avevano più titolo per accedere.
La superficialità della decisione dei giudici del merito è emersa quando gli stessi hanno
confermato addirittura la confisca di beni manifestamente estranei alle vicende criminali nelle
quali il proposto è stato ritenuto implicato.

In data 7 novembre 2013 è stata depositata, dall’avv. Pinelli, nell’interesse di Caravello e
Gambino, una memoria di replica alle conclusioni del Procuratore Generale: memoria nella
quale egli torna sul tema della necessaria valutazione, ai fini che qui interessano, anche dei
redditi di provenienza lecita e tuttavia non dichiarati al fisco.
Di tali redditi la difesa aveva dato ampio resoconto, ignorato dai giudici del merito,
concernente in particolare le attività economiche svolte dai genitori del proposto e le eredità
della Gambino.
Inoltre lo stesso difensore lamenta la incongruità della motivazione che ha ritenuto legittima la
confisca di beni per un valore superiore a quelli di natura asseritamente illecita.
I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.
Occorre prendere le mosse dal rilievo, esattamente formulato anche dal Procuratore generale a
pagina 2 della sua requisitoria scritta, secondo cui il ricorso per cassazione, nel procedimento
di prevenzione, è ammesso soltanto per violazione di legge: per quanto concerne i fatti
oggetto di esame, in forza della generale disposizione dell’articolo 4 comma 11 I. n. 1423 del
1956, applicabile anche nei casi di pericolosità qualificata di cui alla legge n. 575 del 1965, alla
stregua del richiamo operato dall’articolo 3 ter comma 2 I. cit.
E, come affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, la violazione di legge con
riferimento ai difetti di motivazione è configurabile soltanto nel caso in cui la motivazione sia
graficamente assente oppure apparente, con la conseguenza che non è comunque deducibile,
nella materia de qua, il vizio della insufficienza, manifesta illogicità o contraddittorietà della
motivazione di cui all’articolo 606 lett. e cpp.
Tale rilievo consente di sgomberare il campo dalle censure mosse dalla difesa alla completezza
della motivazione, dovendosi invece dare atto che il giudice dell’appello ha articolato i motivi
del proprio convincimento, con particolare riferimento all’affermazione secondo cui è rimasta
dimostrata ( in termini di sufficienti indizi) e non adeguatamente avversata, la provenienza, da
attività illecite, dei mezzi patrimoniali utilizzati per l’acquisto dei beni ,successivamente
sottoposti alla misura di prevenzione patrimoniale.
Si tratta, infatti, di una motivazione tutta sviluppata sulla base di rilevazioni oggettive e di
valutazioni logiche basate, per quanto concerne la replica all’affermazione dei ricorrenti di
avere impiegato redditi d’impresa sottratti al fisco, sull’orientamento -assolutamente costante
della giurisprudenza di legittimità in materia di misure di prevenzione- secondo cui,
considerato che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’indiziato di
appartenenza a sodalizi di tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso, è
legittimo il provvedimento di confisca di beni del prevenuto che ne giustifichi il possesso
dichiarando di averli acquistati con i proventi del reato di evasione fiscale (Sez. 1, Sentenza n.
39204 del 17/05/2013 Cc. (dep. 23/09/2013 ) Rv. 256140; Conformi: N. 2181 del 1999 Rv.
2

Il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso.

Ciò posto, e tornando alla motivazione del provvedimento impugnato, si osserva che la stessa
è presente e non apparente e quindi non è denunciabile a titolo di violazione di legge, neppure
con riferimento all’affermazione che i giudici hanno fatto riguardo alla impossibilità di
giustificare l’avvio dell’impresa del proposto con l’impiego dei redditi del padre o del fratello.
La Corte d’appello, con valutazione plausibile e incensurabile, ha ritenuto che non costituisse
prova di tali circostanze il fatto che un testimone della difesa (Scamarda) avesse dichiarato di
aver preso in affitto la cava del padre del proposto negli anni ’70.
Invero, la Corte ha ritenuto che mancasse la prova del ricavo di una somma consistente, dalla
cessione della cava, che sarebbe avvenuta sei anni prima dell’acquisto dell’azienda da parte del
proposto e 15 anni prima dell’avvio concreto dell’azienda mediante l’acquisto degli automezzi.
Si tratta di una valutazione in punto di fatto del tutto sottratta alla denuncia per violazione di
legge consentita nella materia delle misure di prevenzione.
Ugualmente ha natura fattuale l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non ha
trovato riscontro in atti la deduzione difensiva relativa alla utilizzazione, da parte del proposto,
degli automezzi che a lui sarebbero stati attribuiti, dopo lo scioglimento della società del
fratello Matteo Caravello, alla quale il proposto stesso avrebbe partecipato, sia pure da
minorenne, come socio di fatto.
E, se tale era la prospettazione della difesa, appare anche priva di rilievo la critica che la stessa
ha appuntato sulla affermata (dai giudici) assenza di redditi leciti e di utili con i quali possano
essere stati acquistati i mezzi utilizzati dal proposto per l’esercizio della sua attività di impresa:
una critica che, essendo basata sulla affermazione che quegli automezzi andavano a
3

213853, N. 950 del 1999 Rv. 214507, N. 36762 del 2003 Rv. 226655, N. 27037 del 2012 Rv.
253405).
Ed invero, la norma dell’articolo 2 ter della I.n. 575 del 1965 (peraltro ripresa, sotto tale
profilo, dall’articolo 20 del decreto legislativo n. 159 nel 2011) prevede due ipotesi distinte per
la sequestrabilità ( e poi confiscabilità) dei beni dell’indiziato di appartenere ad associazioni
mafiose: cioè, quella della disponibilità di beni dal valore sproporzionato al reddito dichiarato o
all’attività economica svolta e quella, alternativamente enunciata, della disponibilità di beni
che, in base a sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego.
Nel caso di specie, è la seconda ipotesi ad essere stata applicata, posto che si è affermato che
anche i redditi provenienti dal reato di evasione fiscale hanno natura illecita e quindi rientrano,
in quanto tali, nel novero di quelli sequestrabili e poi confiscabili con misura di prevenzione,
mentre gli stessi non sono stati riguardati nella loro capacità o meno di andare a comporre il
compendio patrimoniale del proposto, in relazione al quale formulare il giudizio di proporzione
del valore dei beni acquistati.
In tale prospettiva appare, pertanto, non pertinente il richiamo alla giurisprudenza di
legittimità che, nell’applicazione dell’articolo 12 sexies DI numero 306 del 1992, ha riconosciuto
che la presunzione di illegittima provenienza delle risorse patrimoniali accumulate da un
soggetto condannato per determinati reati, debba escludersi in presenza di fonti lecite e
proporzionate di produzione, anche quando queste, pur provenienti da attività economica
svolta, non siano state evidenziate nella dichiarazione dei redditi (Sez. 6, Sentenza n. 21265
del 15/12/2011 Ud. (dep. 01/06/2012 ) Rv. 252855 ).
Nell’articolo 12 sexies, infatti, a differenza di quanto è previsto nel citato articolo 2 ter della
legge n. 505 del 1965, la presunzione di illecita provenienza dei beni del condannato viene
ancorata letteralmente ed esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto
all’attività economica svolta e dell’assenza di giustificazione, ma non anche, in alternativa, alla
esistenza di sufficienti indizi della loro provenienza da qualsiasi attività illecita.

S’impone, pertanto, il rigetto dei ricorsi.
PQM
rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma il 22 novembre 2013
il Preside
il Consi liere estensore

rappresentare un costo d’impresa da iscrivere nel relativo conto economico , e non
necessariamente il reimpiego di un utile, non appare comunque capace di evidenziare una
radicale aporia della motivazione.
Questa, riguardo all’attività aziendale svolta dal proposto, è invece presente a pagina 23
laddove si afferma, richiamandosi alle vicende già trattate nelle illustrazione degli aspetti
personali della misura di prevenzione, che il proposto intratteneva rapporti con la Calcestruzzi
S.p.A., avendo il ruolo di collettore del pizzo grazie al meccanismo di sovraffatturazione dei
ricavi il quale, oltre a rendere inattendibile la contabilità aziendale, costituiva indice
sintomatico della commistione fra gli utili di impresa e i capitali di evidente origine illecita
confluiti nella ditta.
Identiche considerazioni meritano i rilievi dei ricorrenti a proposito delle insufficienze che
avrebbero connotato la motivazione riguardo agli acquisti della coniuge del proposto.

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