Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8419 del 16/10/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8419 Anno 2014
Presidente: OLDI PAOLO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto dal difensore di:
Verratti Alessandro, nato a Chieti, l’1/11/1978;

avverso la sentenza del 30/10/2012 del Tribunale di Lanciano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Gioacchino Izzo, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata perché il fatto non costituisce reato;
udito per la parte civile l’avv. Camillo Lamorgia, che ha concluso per l’inammissibilità
del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Mauro Mellini, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del
ricorso.

Data Udienza: 16/10/2013

f

RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 30 ottobre 2012 il Tribunale di Lanciano confermava la condanna
alla pena di giustizia e al risarcimento del danno di Verratti Alessandro per il reato di
diffamazione, commesso nel corso di una riunione ai danni di Di Florio Danilo, titolare
dell’omonimo studio di commercialisti, dichiarando alla presenza anche dei
rappresentanti dello studio medesimo che la sua società intendeva interrompere i
rapporti con lo stesso a causa delle voci correnti circa non meglio precisati

oggetto di un’indagine penale di cui il Di Florio era in quel momento destinatario e di
cui aveva dato notizia la stampa locale.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando
quattro motivi.
2.1 Con il primo ed il secondo motivo il ricorrente deduce l’errata applicazione dell’art.
595 c.p., rilevando come la condotta contestata non integrerebbe gli estremi della
fattispecie materiale di diffamazione, essendosi l’imputato limitato a riportare voci
correnti tra il pubblico al fine di spiegare le ragioni dell’interruzione del rapporto
professionale con lo studio, e comunque l’insussistenza nella condotta medesima del
dolo proprio della diffamazione. Non di meno il fatto che fosse stato lo stesso studio Di
Florio a sollecitare una spiegazione in merito alla rottura dei rapporti con la società_
evidenzierebbe la non antigiuridicità del comportamento dell’imputato, eventualmente
giustificato dal consenso dell’avente diritto.
2.2 Con il terzo motivo il ricorso eccepisce sulla tenuta logica della motivazione della
sentenza in ordine all’oggettiva diffamatorietà della condotta contestata, mentre con il
quarto lamenta nuovamente l’errata applicazione dell’art. 595 c.p. e correlati vizi
motivazionali del provvedimento in merito alla contestata sussistenza del requisito
della pluralità delle persone presenti alla comunicazione offensiva, rilevando come due
dei tre soggetti che avevano partecipato alla riunione fossero in realtà rappresentati
dello stesso studio Di Florio, circostanza che al più avrebbe consentito di qualificare il
fatto come ingiuria, giacchè laddove l’offesa venga pronunziata alla presenza del
titolare del bene giuridico violato (e cioè lo studio medesimo) dovrebbe escludersi la
stessa configurabilità del reato di diffamazione.

3. Con memoria depositata il 18 settembre 2013 il difensore della parte civile Di Florio
Danilo ha chiesto il rigetto del ricorso, osservando come l’informazione riportata dal
Verratti nel corso della riunione rivestisse effettivo carattere diffamatorio, risultando
oggettivamente offensiva dell’onore e della reputazione del Di Florio e, in quanto
costituente una mera insinuazione, priva di qualsiasi connotazione di verità. Quanto

comportamenti addebitabili ai suoi esponenti da ritenersi anche più gravi di quelli

alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, si ricorda come lo stesso sia
integrato dal dolo generico, costituito dalla mera volontà di pronunziare l’offesa nella
consapevolezza del discredito che ne deriva per l’altrui reputazione e ciò a prescindere
dal fine perseguito dall’agente. Infine il difensore di parte civile contesta il prospettato
difetto del requisito della pluralità dei destinatari della comunicazione offensiva e la
configurabilità sussidiaria del solo reato di ingiuria, rammentando come il Di Florio non
eserciti la professione in forma associata e come dunque il suo studio si identifichi con

della condotta diffamatoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Può concordarsi con i giudici del merito circa il fatto che la condotta imputata possa
astrattamente integrare, sotto il profilo materiale, il reato in contestazione, atteso che
effettivamente la divulgazione di insinuazioni oggettivamente offensive dell’altrui
reputazione può risultare diffamatoria, nel senso accolto dall’art. 595 c.p., anche
quando l’agente si limiti a riportare sospetti o, peggio, pettegolezzi originariamente
formulati da altri, provvedendo così a diffonderli.
Non può inoltre negarsi che, nel caso di specie, la fattispecie oggettiva della
diffamazione sia rimasta integrata anche con riguardo al requisito della pluralità dei
soggetti destinatari della comunicazione diffamatoria, giacchè non è in dubbio che il
soggetto passivo del reato fosse esclusivamente il Di Florio Danilo, soggetto
querelante e unico titolare dello studio professionale cui si riferiva la propalazione
offensiva.
Deve invece escludersi che sussista in concreto l’elemento soggettivo del reato. E’ fuor
di dubbio che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di
diffamazione, non sia richiesto l’animus iniurandi ve/ diffamandi, essendo sufficiente il
dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è
sufficiente che l’agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni
socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che
esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle
intenzioni dell’agente (Sez. 5, n. 4364/13 del 12 dicembre 2012 Arcadi, Rv. 254390).
Ciò non toglie che gli elementi tipici del dolo (rappresentazione e volontà) debbano
essere calati nella fattispecie concreta cui esso deve essere riferito e che nel caso di
specie è ricostruita compiutamente nella sentenza impugnata. In tal senso, dunque, il
fatto che la riunione nel corso della quale l’imputato ha pronunziato la frase
incriminata fosse stata sollecitata dalla stessa parte offesa e che i suoi collaboratori
fossero stati incaricati a parteciparvi proprio al fine di raccogliere le spiegazioni del

la sua persona, non potendo dunque essere considerato soggetto passivo autonomo

Verratti sulle ragioni che lo avevano portato ad interrompere il rapporto professionale
con lo studio, sono elementi che impediscono logicamente di escludere – anche solo in
termini di ragionevole e insuperabile dubbio – che l’imputato non si sia rappresentato
l’offensività della comunicazione o, quantomeno, che egli abbia ritenuto di agire con il
consenso dell’avente diritto, convinzione che anche qualora dovesse ritenersi erronea
comunque escluderebbe il dolo del reato in contestazione ai sensi dell’art. 59 comma
quarto c.p.

che il fatto non costituisce reato, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio ai sensi dell’art. 620 c.p.p.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
Così deciso il 16/10/2013

Posto che entrambe le alternative prospettate portano inevitabilmente alla conclusione

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