Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8369 del 27/09/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8369 Anno 2014
Presidente: OLDI PAOLO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
AZZARELLO FERDINANDO N. IL 08/12/1949
avverso la sentenza n. 292/2005 CORTE APPELLO di MILANO, del
25/01/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/09/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 27/09/2013

Udito il Procuratore generale della repubblica presso la Corte di Cassazione, dr.
Oscar Cedrangolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 25-1-2012, a conferma di
quella emessa dal locale Tribunale, ha condannato Azzarello Ferdinando a pena
di giustizia per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale

1-1998.
Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici del merito,
l’Azzarello sottrasse dalle casse sociali, nell’anno 1995, E 886.251.000 (tale la
somma indicata nell’ultimo bilancio approvato, quello del 31-5-1996) e tenuto le
scritture contabili in modo da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio
e del movimento degli affari.
Alla base della resa statuizione vi sono le dichiarazioni e gli accertamenti del
curatore fallimentare, nonché l’obbiettiva assenza delle scritture alla data del
fallimento. Quanto alla bancarotta patrimoniale, i giudici di merito hanno
disatteso le giustificazioni dell’imputato, che ha parlato di prelievi dalle casse
sociali per l’acquisto – non andato a buon fine – di un immobile da destinare a
sede dell’attività sociale, in Milano, via Boscovich.

2. Ha presentato personalmente ricorso l’imputato lamentando:
a)

la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla bancarotta

patrimoniale. Deduce che i giudici hanno male interpretato, o travisato, le
dichiarazioni della moglie dell’imputato e di un amico di quest’ultimo, che hanno
confermato la versione difensiva, ingiustificatamente disattesa dal Tribunale e
dalla Corte d’appello;
b) il vizio di motivazione in ordine alla bancarotta documentale. Deduce che i
giudici non hanno tenuto conto delle numerose prove, documentali e testimoniali
(la rag. Maria Pia Beretta, il prof. Giuseppe Insalaco, la dr.ssa Raffaella Pagani),
addotte a dimostrazione della regolare tenuta della contabilità, prima tramite la
Iota srl e poi con propri contabili;
c) la violazione di legge con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento
soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta documentale. Lamenta, al
riguardo, che la sentenza non abbia speso parola sulla prova della
consapevolezza, in capo all’imputato, di rendere impossibile o comunque difficile
la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari e sulla richiesta
derubricazione del reato in quello di bancarotta semplice;

2

ioi

commesso quale amministratore della Cesea Costanza srl, dichiarata fallita il 29-

d) il vizio di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio. Lamenta che non
sia stato formulato un giudizio di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti
sulla base di elementi meramente presuntivi, relativi alla natura dei precedenti
penali per bancarotta, immotivatamente ricondotti dalla Corte di merito alla
gestione delle altre società a lui facenti capo. Inoltre, che non si sia tenuto
conto, in funzione di un ridimensionamento del trattamento sanzionatorio, del
risarcimento effettuato a favore della curatela dopo la sentenza di primo grado.

2013 l’avv. Ferdinando Imposimato, difensore dell’imputato, censura la sentenza
sotto tre aspetti.
Lamenta, innanzitutto, la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine
alla prova della bancarotta patrimoniale, che la Corte territoriale ha collegato
all’interesse personale dell’Azzarello all’acquisto dell’immobile di via Boscovich.
Deduce, al riguardo, che nessuno degli immobili destinati all’esercizio dell’attività
sociale era intestato alla società fallita (il che spiega perché nemmeno quello
oggetto del preliminare di compravendita dovesse essere intestato alla Cesea
Costanza srl); che l’immobile in questione non era idoneo a soddisfare nessun
interesse personale dell’Azzarello; che questi si era riservata la facoltà di
acquisto per persona da nominare, per tutelare la società da un eventuale
inadempimento del preliminare.
Lamenta poi l’assenza di motivazione in ordine al nesso causale tra la distrazione
e il fallimento societario, in quanto, deduce, l’insolvenza deve essere
conseguenza dell’atto distrattivo. Al contrario, aggiunge, la somma fu prelevata
nel 1995, in un momento economicamente florido per la società (come si deduce
dall’atto d’appello) e tre anni prima del fallimento. Quindi, quando l’ipotizzata
distrazione non poteva avere nessuna influenza sulle condizioni economiche della
società.
Sotto un ultimo profilo si duole dell’assenza di motivazione in ordine
“all’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta con riferimento allo
stato di insolvenza che dà luogo al fallimento”. Lamenta che la sentenza non
spenda parola in ordine alla consapevolezza dell’imputato di provocare, col suo
comportamento, il dissesto societario, ovvero la consapevolezza di sottrarre beni
all’esecuzione concorsuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili o infondati.

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3. Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte in data 12 febbraio

1. Il primo motivo del ricorso personale e il primo motivo dell’avv. Imposimato
attengono entrambi alla prova della bancarotta patrimoniale e possono essere
trattati congiuntamente. Sono entrambi manifestamente infondati perché,
essendo acclarato e non contestato che l’Azzarello effettuò, nel 1995, prelievi
dalle casse sociali per l’importo specificato in imputazione, nessuna prova ha
fornito della destinazione delle somme ad attività sociali. Il Tribunale e la Corte
d’appello hanno disatteso le deduzioni difensive sulla base delle seguenti, lineari
considerazioni:

del 31 maggio 1996), mentre l’imputato parla di prelievi effettuati nel 1996
(dopo il mese di giugno del 1996) per il pagamento di un immobile che aveva in
animo di acquistare, per conto della società, da un certo Alemanno
(intermediario). In maniera del tutto logica e coerente i giudici hanno desunto
che la versione dell’imputato non è credibile, in quanto non tiene conto del
tempo dei prelievi e di quelli del pagamento all’Alemanno;
– nessuna prova documentale è stata fornita di pagamenti a favore
dell’Alemanno. Logicamente i giudici hanno desunto che la versione dell’imputato
non è credibile, perché non si pagano 900 milioni di lire a uno sconosciuto senza
pretendere una ricevuta;
– nessun rilievo possono avere a favore dell’imputato le dichiarazioni della moglie
(Nunzia Caputo) e del teste Varini, per la semplice ragione che entrambi
riferiscono, in maniera peraltro generica e fumosa, circostanze apprese dallo
stesso imputato (il quale riferì loro, in varie occasioni, che si recava, o si era
recato, a Roma per effettuare i pagamenti predetti). Nessung addebito di
illogicità può essere mosso ad una sentenza che dubita, comprensibilmente, di
dichiarazioni (quelle della Caputo) interessate, non contestualizzate, indirette e
obbiettivamente vaghe (non sono nemmeno specificati gli importi delle somme
menzionate);
– il contratto preliminare, relativo all’immobile, non era stato stipulato a nome
della Cesea Costanza srl. Per quanto la circostanza abbia scarso rilievo ai fini che
qui interessano (in considerazione di quanto sopra detto), logicamente i giudici
hanno desunto che nessuna prova vi è non già dell’acquisto, ma nemmeno
dell’intenzione di acquistare a nome della società rappresentata. Il fatto,
rimarcato dal difensore dell’imputato, che altri immobili destinati all’attività
sociale fossero intestati a società amministrate dall’Azzarello (e che, quindi,
anche quello in questione dovesse avere, nelle intenzione dell’imputato, la stessa
destinazione) non toglie nulla al disvalore della condotta, giacché si tratta pur
sempre di somme fuoriuscite dal patrimonio sociale senza contropartita, mentre
l’affermazione che l’immobile oggetto del preliminare non fosse idoneo a

4

– i prelievi furono effettuati nel 1995 (come risulta dalle appostazioni al bilancio

soddisfare alcun interesse personale dell’Azzarello rappresenta un’asserzione
priva di significato pratico e persino difficilmente comprensibile.
Non presta il fianco a censura, quindi, la decisione impugnata, che si è
attenuta al consolidato indirizzo di questa Corte secondo cui l’accertata presenza,
in un determinato momento della vita della società, di beni all’interno di questa,
che non vengono poi reperiti dal curatore fallimentare, costituisce prova della
distrazione ove l’imprenditore fallito non sappia o non voglia dare conto della
loro destinazione al soddisfacimento di bisogni della società ((ex multis, Cass.

2. Il secondo motivo di ricorso, attinente alla prova della bancarotta
documentale, è infondato. La Corte d’appello, sulla falsariga del giudice di primo
grado (le due sentenze, sul punto, sono assolutamente convergenti e si
integrano a vicenda), ha preso atto dell’assenza (di una parte importante) delle
scritture contabili della società al momento del fallimento e del fatto che
l’amministratore della società fallita non ha fatto nulla per procurarne la
disponibilità agli organi fallimentari (la contabilità era ferma al 31/5/1994 e
l’ultimo bilancio approvato è quello del 1995, a fronte di un fallimento dichiarato
nel gennaio del 1998. Inoltre, l’elaboratore elettronico utilizzato dalla società per
la tenuta della contabilità non fu mai consegnato al curatore). A fronte di tali
risultanze l’imputato, riproponendo argomenti già confutati dai giudici di merito,
si appella – in maniera per vero inammissibile – a quelle che sono, a suo
giudizio, le contrarie dichiarazioni dei testi escussi (la rag. Maria Pia Beretta, il
prof. Giuseppe Insalaco, la dr.ssa Raffaella Pagani), a dire dei quali la contabilità
sarebbe stata regolarmente tenuta, essendo contenuta in un elaboratore mal
funzionante, che il curatore fallimentare non si sarebbe preoccupato di riparare.
Tali argomenti sono irricevibili, giacché non è consentito riproporre, in questa
sede, un diverso contenuto delle risultanze istruttorie, in quanto compito della
Corte di Cassazione non è quello di dar corso al terzo grado di merito, ma di
verificare che la decisione impugnata non sia inficiata da incongruenze logiche o
fondata su una incompleta elaborazione della prova.
Peraltro, non può farsi a meno di evidenziare che i giudici di merito hanno
puntualmente esaminato le risultanze della prova testimoniale richiamata dal
ricorrente, evidenziando quanto segue:
– la teste Beretta ha parlato di una contabilità da lei aggiornata fino agli inizi del
1997 (epoca in cui smise di collaborare con la Iota srl, incaricata della tenuta
delle scritture contabili), mentre il fallimento è del 1998: quindi, per almeno un
anno non vi è traccia, nemmeno nelle dichiarazioni della teste introdotta dalla
difesa, della tenuta delle scritture contabili dagli inizi del 1997 al fallimento;

5

oim-,

Sez. 5, 4/6/2010, n. 35828; Cass., sez. 5, 13/10/2009, n. 43036).

- Il teste Insalaco (consulente fiscale), che si recava periodicamente negli uffici
della società ed esaminava la contabilità tenuta dalla Beretta, ha parlato di
“bollati” e “prove di stampa” verificati fino al 1995 (mentre, come detto, il
fallimento è del 1998);
– la curatrice della Cesea Costanza srl, dr.ssa Raffaella Pagani, ha negato che le
sia mai stato consegnato un elaboratore completo dei dati contabili ed ha parlato
di un elaboratore – rinvenuto nella sede sociale – non funzionante, in quanto
“privo della parte essenziale”.

ricorrente, che la contabilità non è stata (per niente) tenuta per almeno un anno,
mentre nulla è dato sapere intorno alle registrazioni contabili effettuate nel
periodo antecedente, in quanto la relativa documentazione non è stata posta a
disposizione del curatore, con la conseguenza – evidenziata nella sentenza
impugnata – che non è stato possibile agli organi fallimentari procedere alla
ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Che questa fosse la
finalità intenzionalmente perseguita dall’imputato è provato, nel coerente
argomentare dei giudici di merito, dal fatto che l’Azzarello aveva effettivamente
la necessità di non lasciare traccia delle distrazioni poste in essere e che solo lui
aveva interesse a celare l’effettivo andamento degli affari sociali. Inoltre, era il
soggetto che aveva la materiale disponibilità della documentazione contabile,
oltre che l’obbligo della sua tenuta. Né giova distinguere tra mancata consegna e
irregolare tenuta della documentazione contabile, giacché, ai fini del reato di
bancarotta documentale di cui all’art. 216 cit., una volta accertato, in capo
all’imprenditore, lo scopo di arrecare pregiudizio ai creditori e di rendere
impossibile la ricostruzione del movimento degli affari (scopo regolarmente
contestato all’Azzarello), la distruzione (o l’occultamento, ovvero la mancata
consegna al curatore) della docAtimentazione e la omessa (o irregolare o
incompleta) tenuta delle scritture contabili devono ritenersi equivalenti, sicché
non rileva che non si sia accertato quale delle due ipotesi siasi verificata quando
sia certa la sussistenza di una di esse (In questo senso, vedasi Cass., sez. V,
11/5/1981, n. 6967, in un caso in cui è stata equiparata la distruzione alla
omessa tenuta delle scritture contabili, nonché Cass. N. 9435 del 12/6/1984).
Aspetto su cui la sentenza impugnata si è soffermata con esaustiva motivazione.

3. Il terzo motivo del ricorrente, concernente la prova del dolo di bancarotta
documentale, è manifestamente infondato. Il giudice d’appello ha fatto proprio il
convincimento del primo giudice (“non si può che convenire col primo giudice”)
circa la finalità decipiente perseguita, in materia documentale, dall’Azzarello, che
aveva necessità di tenere celata l’operazione distrattiva posta in essere. Del tutto
consequenziale è, pertanto, la conclusione cui è pervenuto il giudicante, secondo

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dill

Costituisce circostanza incontrovertibile, quindi, confermata dallo stesso

cui “nel contesto sopra descritto” l’Azzarello aveva la perfetta consapevolezza di
“recare grave pregiudizio ai creditori, in quanto, oltre a rendere impossibile
l’accertamento della corrispondenza dei dati desumibili dal bilancio alla reale
situazione finanziaria della fallita, ha impedito la ricostruzione dei fatti distrattivi
contestati, nonché di accertare la destinazione di altre rilevanti somme (l’importo
del prefinanziamento) e dei beni della società (le attrezzature scolastiche)”.
Trattasi di motivazione non solo esistente, ma congrua e logica, che dà piena
ragione delle conclusioni cui i giudicanti sono pervenuti e che esclude, di per sé,

4. Infondato è anche il quarto motivo di ricorso dell’Azzarello. Il giudice d’appello
ha tenuto fermo il giudizio di equivalenza tra aggravanti contestate ed attenuanti
generiche (pure concesse), già formulato dal primo giudice, in considerazione
della “gravità del fatto” e delle “modalità illecite che hanno caratterizzato la
gestione e ne hanno costituito una costante”, nonché dei precedenti penali
dell’imputato, tra cui altra condanna per bancarotta fraudolenta. La suddetta
motivazione deve ritenersi ampia, congrua e logica e, quindi, non censurabile in
questa sede di legittimità, essendo stato correttamente esercitato il potere
discrezionale spettante al giudice di merito in ordine al trattamento
sanzionatorio. Non ha senso, infatti, appellarsi alla terminologia usata dal giudice
d’appello per disattendere la richiesta di un diverso e più favorevole
bilanciamento (la precedente condanna è stata “verosimilmente” legata alla
gestione delle altre società facenti capo all’Azzarello), in quanto il giudizio della
Corte territoriale è legato (anche, ma non solo) alla (certa) condanna per
bancarotta e nessun peso ha avuto, nella formazione del convincimento, la
circostanza che la bancarotta sia relativa a società del gruppo, ovvero a società
esterne, nella cui amministrazione l’Azzarello si sia inserito. Né vale appellarsi al
“risarcimento” attuato a favore della curatela, avendo il giudice d’appello
evidenziato che non di risarcimento si è trattato, ma di rimborso delle spese
legali liquidate dal primo giudice: vale a dire, di attività doverosa, ampiamente
ricompensata con la rinuncia alla costituzione di parte civile, che non è idonea ad
influenzare il giudizio sul trattamento sanzionatorio.

5.

Ugualmente infondate sono le ulteriori censure mosse dal difensore

dell’imputato in ordine alla causalità e all’elemento soggettivo.
Sotto il primo aspetto, si rileva che all’imputato non è contestato di aver
provocato, con gli atti distrattivi, il fallimento della società (ipotesi contemplata e
autonomamente punita dall’art. 223, comma 2, della L.F.), bensì di aver distratto
beni sociali. Tale condotta è punita dall’art. 216 L.F. indipendentemente dalle
conseguenze che da essa sono derivate sulla vita della società, in quanto

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la più lieve ipotesi della bancarotta semplice.

l’oggetto giuridico della bancarotta patrimoniale è la tutela del patrimonio sociale
a garanzia della massa dei creditori, aventi interesse all’integrità del patrimonio
sociale (Cass., S.U., n. 21039 del 26/5/2011; N. 16579 del 24/3/2010; N. 33380
del 18/7/2008; N. 38810 del 4/7/2006; N. 3615 del 30/11/2006). Ne consegue
che ogni atto distrattivo, purché di significativa valenza, assume rilievo ai sensi
dell’art. 216 I.fall. in caso di fallimento, indipendentemente dalla sua idoneità a
provocare il fallimento sociale e indipendentemente dal fatto che il fallimento si
verifichi, giacché questo non costituisce l’evento del reato. Dal punto di vista

integrato dalla sola esposizione a rischio dell’interesse protetto (Cass., n. 30932
del 22/6/2010; N. 7212 del 26/1/2006; N. 7555 del 30/1/2006).
Sotto il secondo profilo, decisivo appare il rilievo che la bancarotta patrimoniale
non esige affatto la volontà di provocare il fallimento dell’impresa, né l’intenzione
di recare pregiudizio ai creditori (che rileva solamente nel riconoscimento di
passività inesistenti), come sembra ritenere il ricorrente, bastando il dolo
generico, dato dalla consapevole volontà dei singoli atti di sottrazione,
occultamento o distrazione e, comunque, di quegli atti con i quali si viene a dare
la patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa,
con la consapevolezza di compiere atti che cagionano, o possono cagionare,
danno ai creditori (Cass., sez. 5, 16/10/2008, n. 43216; Cass., 10/1/2008;
Cass., 15/11/2007, n. 46921). Dolo che, nel caso di specie, è stato
ragionevolmente ravvisato nella appropriazione di beni sociali.

6. In definitiva, nessuno dei motivi di ricorso può trovare accoglimento. Il ricorso
va pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27/9/2013

strutturale, infatti, il delitto in esame costituisce un reato di pericolo, rimanendo

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