Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8353 del 13/01/2016


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8353 Anno 2016
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: CATENA ROSSELLA

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Campo Vincenzo, nato ad Alcamo (TP), il 22/01/1968,
avverso la sentenza del 1/02/2015 della Corte di Appello di Palermo

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa Rossella Catena;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Oscar
Cedrangolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’Avv.to Giuseppe Di Cesare, che ha concluso per l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza del
Tribunale di Trapani in data 17/02/2014, con cui il ricorrente era stato riconosciuto colpevole e
condannato a pena di giustizia per più fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e
documentale, in relazione alla Centro Distribuzione Merci Alcamese surl, dichiarata fallita il
02/10/2008 e per il delitto di cui agli artt. 110, 81, comma 2, cod. pen., 5, comma 1, d. Igs.
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Data Udienza: 13/01/2016

74/2000 – perché, nella qualità di amministratore di fatto della predetta società ed in concorso
con l’amministratore unico della medesima, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso,
ometteva di presentare le dichiarazioni dei redditi per gli anni 2007 e 2008, per un’imposta
evasa, in entrambi gli anni, superiore ad euro 77.468,53; in Trapani, il 30/12/2008 ed il
30/12/2009.
2.Con ricorso depositato il 27/06/2015, i difensori del Campo Vincenzo, Avv.ti Sebastiano Dara

2.1. violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 lett. b) ed e), cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 5 d. Igs. 74/2000, 322 ter cod. pen., 125, comma 3, 546, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen., in quanto la sentenza impugnata ha motivato per relationem alla sentenza
di primo grado che, a sua volta, non aveva effettuato il calcolo delle vendite e dei ricavi,
erroneamente affidandosi alla logica presuntiva che non può avere ingresso nel processo
penale; la sentenza, inoltre, si era basata sul processo verbale di constatazione, che non
avrebbe potuto essere acquisito al fascicolo per il dibattimento e, pertanto, deve essere
ritenuto inutilizzabile; inoltre, nonostante fossero state rinvenute 30 fatture di vendita per il
2007 e 4 fatture di vendita per il 2008, è stata avallata la procedura presuntiva per la
ricostruzione dei ricavi, omettendo di considerare tra i costi le spese effettivamente sostenute
per l’acquisto delle merci.
2.2. violazione di legge, vizio di motivazione, inosservanza di norme processuali previste a
pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza ex art. 606 lett. b), c) ed e), cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 5 d. Igs. 74/2000, 322 ter cod. pen., 125, comma 3, 546,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in quanto la sentenza impugnata ha confermato la confisca
per equivalente, basandosi, ai fini del calcolo dell’imposta evasa, sull’erroneo uso delle
presunzioni, e sottoponendo indiscriminatamente a confisca tutti i beni del ricorrente e non
solo quelli il cui valore fosse pari ad euro 522.210,47 ossia al prezzo o profitto del reato
tributario, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, senza peraltro considerare
l’effettivo valore di detti beni.
2.3. violazione di legge, vizio di motivazione, inosservanza di norme processuali previste a
pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza ex art. 606 lett. b), c) ed e), cod.
proc. pen. in relazione agli artt. 62 bis, 81 comma 2, 132, 133 c.p., 125, comma 3, 546,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per l’omessa motivazione in ordine al diniego della
concessione delle circostanze attenuanti generiche.
2.4. Con motivi nuovi depositati presso il Tribunale di Palermo in data 29/12/2015, i difensori
del ricorrente, in riferimento al secondo motivo di ricorso – con cui ci si era doluti della
conferma della pronuncia di primo grado che aveva disposto la confisca per equivalente in
relazione, indistintamente, a tutti i beni del ricorrente, per un valore di euro 582.791,00,
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e Giuseppe Di Cesare, ricorrono per:

anziché dei soli beni il cui valore fosse pari ad euro 522.210,47 – rilevano come la Corte
territoriale, anziché dissequestrare la differenza tra la somma di euro 582.791,00, pari al
valore complessivo dei beni del ricorrente, come stimato dalla Guardia di Finanza, e la somma
di euro 522.210,47, ossia il profitto illecito, ha disposto la conversione del sequestro
preventivo in sequestro conservativo per il residuo ammontare del valore in sequestro, errando
nel non individuare quali beni dovessero confluire nel provvedimento di confisca, cosa che
sarebbe stato possibile fare atteso che la Guardia di Finanza aveva puntualmente fornito le

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso va dichiarato inammissibile.
1.Quanto al primo motivo di ricorso va osservato che la sentenza di primo grado aveva
indicato espressamente, alla pag. 16 e segg., il criterio di calcolo effettuato per addivenire alla
determinazione della ricostruzione del volume degli affari e dei ricavi societari; in particolare
per l’anno 2007 si era dato atto del rinvenimento, ne corso della verifica fiscale, di 30 fatture di
vendita emesse dalla società, per un valore complessivo pari ad euro 232.346,18, evincendosi
inoltre dalla numerazione progressiva dell’ultima fattura emessa e rinvenuta, contraddistinta
dal n. 153, che la società aveva emesso, nel medesimo arco temporale, altre n. 123 fatture
non reperite; considerati i valori medi delle operazioni documentate, si era quindi pervenuti
alla ricostruzione dei ricavi complessivi in base ad un criterio di proporzionalità. Per l’annualità
successiva, in cui erano state reperite n. 4 fatture di vendita per un totale di euro 21.630,00, e
dal numero dell’ultima di esse, la n. 55, si era rilevato che le fatture non reperite fossero altre
n. 51, si era proceduto con il medesimo sistema. Il primo giudice, inoltre, aveva citato
numerose pronunce di legittimità, secondo le quali è consentito il ricorso a forme di
accertamento induttivo dell’imponibile allorquando la contabilità di un’impresa non sia stata
tenuta o sia stata tenuta in maniera irregolare, aggiungendo che nel caso di specie la verifica
dei ricavi non era stata effettuata sulla base di meri criteri presuntivi, bensì utilizzando la
parziale documentazione fiscale rinvenuta; infine nel calcolo predetto erano stati considerati, e
dedotti, i costi verosimilmente sostenuti dalla società in entrambi gli anni di riferimento.
La Corte territoriale, nel richiamarsi a detta motivazione alla pag.12 e segg., sia sotto il profilo
della metodologia utilizzata – ampiamente illustrata attraverso l’esplicitazione di una tabella
dei calcoli effettuati – sia sotto l’aspetto dei richiami giurisprudenziali, ha dato atto di aver
condiviso detta impostazione, in quanto, a fronte dello specifico motivo di gravame, ha dato
atto che si era tenuto conto della misura dei costi nell’ammontare del 20% per ciascuna
annualità, secondo una plausibile valutazione percentualistica che, in assenza di scritture
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indicazioni per quantificare il valore dei singoli beni.

contabili ordinate e correttamente tenute, doveva ritenersi anche elevata per eccesso, e quindi
favorevole al ricorrente, attesa la tipologia di attività societaria, che non disponeva affatto, o in
minima parte, di una dispendiosa organizzazione, come risultava dal contributo fornito dal
curatore.

A ciò va aggiunto come la Corte territoriale abbia espressamente motivato le ragioni per le
quali non fosse stato dato alcun rilievo, nel calcolo effettuato, agli importi degli assegni usati
dal ricorrente per acquistare la merce poi rivenduta, atteso che non uno di detti assegni era

Inoltre deve rilevarsi che dall’esame di detta motivazione non si evince alcun richiamo al
processo verbale di constatazione, sulla cui acquisizione la doglianza difensiva risulta del tutto
vaga, non documentandosi affatto la sua acquisizione.

Ne deriva la piena incensurabilità, in sede di legittimità, della motivazione della sentenza
impugnata, che non solo ha integrato la motivazione del primo giudice, ma ha dato ampia
dimostrazione, in sede argomentativa, delle ragioni della condivisione della metodologia
ricostruttiva seguita.

Essa, peraltro, appare del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, sentenza
38684 del 04/06/2014, Rv. 260389; Sez. 3, sentenza n. 5490 del 26/11/2008, Rv. 243089), la
quale ha affermato come sia legittimo, da parte del giudice penale, il ricorso a presunzioni di
fatto, ai fini della prova del reato di cui all’art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non potendosi
fare ricorso alla presunzione tributaria, in quanto è rimesso al giudice il compito di accertare
l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e
costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto
ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può
sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al
giudice tributario. Ed infatti il primo giudice, come visto, è partito dal dato oggettivo, costituito
dalle fatture rinvenute, e dal dato da esso desumibile, ossia dalle fatture complessivamente
emesse, procedendo in tal modo ad una ricostruzione presuntiva del tutto coerente con detti
dati, tenendo conto anche delle spese, calcolate secondo un principio dimostrativo del favor
rei.

Ne deriva l’incensurabilità del percorso logico motivazionale della sentenza impugnata e la
genericità del ricorso, riproduttivo delle medesime doglianze già sottoposte al vaglio della
Corte territoriale.

2.In relazione al secondo motivo ed ai motivi aggiunti ad esso collegato, va detto che a pag.
14 della sentenza impugnata si rinviene la motivazione della somma individuata relativamente
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andato a buon fine.

alla quale è stata disposta la confisca per equivalente. La sentenza di primo grado, a sua volta,
aveva motivato sul punto alla pagg. 27 e segg., avendo disposto la confisca fino alla
concorrenza della somma di euro 522.210,47 ossia al profitto conseguito a seguito della
consumazione del reato tributario, indicando il calcolo effettuato e consistito nella somma delle
imposte evase per i due anni in contestazione, come pacificamente previsto dalla
giurisprudenza di questa Corte (Sez. 2, sentenza n. 9392 del 18/0272015, Rv. 263301).
Inoltre il profitto del reato tributario, che si sostanzia in un mancato esborso dell’imposta
dovuta, consistendo in una posta contabile di natura immateriale, mai convertita in moneta

(Sez. 3, sentenza n.49631 del 30/05/2014, Rv. 261148). Infine quando si procede per reati
tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo il sequestro
preventivo funzionale alla confisca per equivalente dei beni dell’imputato sul presupposto
dell’impossibilità di reperire il profitto del reato nel caso in cui dallo stesso soggetto non sia
stata fornita la prova della concreta esistenza di beni nella disponibilità della persona giuridica
su cui disporre la confisca diretta (Sez. 3, sentenza n. 42966 del 10/06/2015, Rv. 265158).

Va inoltre rilevato che i beni relativamente ai quali è stata disposta la confisca per equivalente
sono stati specificamente individuati ed elencati nella sentenza di primo grado alle pagg. 29 e
30, ed è stato chiaramente indicato il valore complessivo di detti beni, pari ad euro
582.791,00; altrettanto chiaramente è stato indicato come, fino alla concorrenza della somma
di euro 522.210,47 – somma pari al profitto del delitto di cui all’art. 5 d. Igs. 73/2000, di cui
euro 167.431,53 per IVA 2007, euro 276.262,03 per IRES 2007, euro 78.516,90 per IRES
2008 – la confisca veniva disposta per equivalente ai sensi dell’art. 322 ter, cod. pen., mentre
la somma residua, pari alla differenza tra il valore complessivo dei predetti beni e l’importo del
profitto del delitto tributario, veniva sottoposta a sequestro conservativo, su conforme richiesta
del pubblico ministero in vista dell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dai delitti
ascritti al ricorrente.

Nel caso di specie il ricorrente è stato condannato anche per delitti di bancarotta – rispetto ai
quali l’affermazione di penale responsabilità è già divenuta definitiva in assenza di motivi di
ricorso relativamente a detti reati, per i quali è stata accertata in via definitiva una distrazione
per euro 1.612.408,85 – per cui nel caso in esame è del tutto legittimo il sequestro
conservativo, per l’adozione del quale è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che
manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente
insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, cod. proc.
pen., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento
del debitore (Sez. U, sentenza n. 51660 del 25/09/2014, Rv. 261118).

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contante, non può costituire oggetto di sequestro diretto, ma solo nella forma per equivalente

Ne deriva quindi la possibilità d i coesistenza, alla luce delle diverse finalità degli istituti
applicati del sequestro conservativo e del sequestro per equivalente, di disporre sui medesimi
beni, specificamente individuati, sino alla concorrenza del loro valore globale, entrambi i vincoli
reali.
3. In relazione all’ultimo motivo di ricorso, infine, già il primo giudice aveva rilevato come la
pervicacia e la costanza dimostrata dal ricorrente nel perseguire le proprie illecite finalità come dimostrato dall’evoluzione delle vicende di bancarotta – costituivano altrettante

motivazione si è richiamata la Corte territoriale, la quale ha aggiunto che le invocate
circostanze non rappresentino un diritto o un’aspettativa pressoché generalizzata, come più
volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, e che, nel caso di specie, oltre alla pletora di
precedenti del Campo Vincenzo, indice di personalità gravemente proclive al reato, la gravità
dei reati consumati accresceva ulteriormente detta valutazione di pericolosità.
Tale motivazione appare del tutto coerente con le risultanze processuali e, quindi, immune da
vizi rilevabili in sede di legittimità.
Il ricorso va, quindi, dichiarato inammissibile per genericità, sostanziandosi i motivi a
fondamento dello stesso nella riformulazione in sede di legittimità delle medesime doglianze
avanzate in sede di appello, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 13/01/2016

Il Consigliere estensore

Il P esidente

circostanze per escludere la concessione delle circostanze attenuanti generiche. A detta

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