Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8281 del 11/11/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 8281 Anno 2016
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: ZAZA CARLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
1.

Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di

Caltanissetta
nel procedimento a carico di
Aetc-‘.4.-

2. Meo Giovanni, nato a Pietraperzia il 21/10/1953
e da
3. Cacici Angelo, nato a Gela il 24/09/1977

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4. Cannata Felice, nato a Pietraperzia il 30/06/1961

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5. Ferruggia Calogero, nato a Pietraperzia il 29/05/1961
6. Monachino Giovanni, nato a Pietraperzia il 31/01/1963

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7. Monachino Vincenzo, nato a Caltanissetta il 16/05/1967 ctet.co-u8. Viola Francesco, nato a Pietraperzia il 01/04/1970

avverso la sentenza del 23/05/2013 della Corte d’Appello di Caltanissetta

visti gli atti, il provvedimento impugnato, i ricorsi e i motivi aggiunti depositati
dal ricorrente Cannata;

1

Data Udienza: 11/11/2015

udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Eugenio
Selvaggi, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata nei confronti di Angelo Cacici con rideterminazione del trattamento
sanzionatorio, e per il rigetto dei ricorsi nel resto;
uditi i difensori avv. Antonio Irnpellizzeri per Calogero Ferruggia, Giovanni Meo,
Giovanni Monachino e Francesco Viola, avv. Antonio Managò per Angelo Cacici e
avv.ti Sergio Monaco e Alfredo Gaito per Felice Cannata, che hanno concluso per

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Giudice
per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Caltanissetta del 04/11/2011,
veniva confermata l’affermazione di responsabilità di Angelo Cacici, Felice
Cannata, Calogero Ferruggia, Giovanni Monachino, Vincenzo Monachino e
Francesco Viola per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., commesso da
Giovanni Monachino e dal Ferruggia dirigendo e dagli altri partecipando
all’associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, ed in particolare alla
famiglia di Pietraperzia e ad un’articolazione della stessa operante in Lombardia;
e del Ferruggia inoltre per il reato di cui all’art.

12-quinquies legge 7 agosto

1992, n. 356, commesso nel luglio del 2006 attribuendo fittiziamente a Filippo
Argento la titolarità della ditta AMC al fine di sottrarla all’applicazione di misure
di prevenzione patrimoniali. La sentenza di primo grado era riformata con
l’assoluzione di Giovanni Meo, per non aver commesso il fatto, dall’imputazione
del reato di associazione mafiosa, l’esclusione per tutti gli imputati di
un’aggravante indicata nella motivazione della sentenza impugnata come quella
del carattere armato dell’associazione di cui all’art. 416-bis, comma quarto, cod.
pen., e nel dispositivo con riferimento al comma sesto dell’articolo citato, e la
rideterminazione delle pene per il Cacici, il Cannata e Vincenzo Monachino in
anni sei di reclusione, per il Ferruggia, nella riconosciuta continuazione con i fatti
di cui alle sentenze del Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di
Caltanissetta del 06/10/2004 e del Tribunale di Caltanissetta del 16/12/1995, in
anni undici e mesi undici di reclusione, per Giovanni Monachino, nella
riconosciuta continuazione con i fatti di cui alla sentenza del Tribunale di Enna
del 09/05/1992, in anni nove e mesi otto di reclusione, e per il Viola in anni tre,
mesi due e giorni venti di reclusione.

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l’accoglimento dei ricorsi;

Il Procuratore generale territoriale e gli imputati ricorrono sui punti e per i
motivi di seguito indicati.
1. Tutti gli imputati ricorrenti deducono violazione di legge sul rigetto
dell’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Caltanissetta, in
relazione all’originaria contestazione del più grave reato di estorsione,
circostanziato dall’appartenenza dei soggetti ad un’associazione mafiosa e dal
fine di agevolare le attività di quest’ultima, addebitato al Ferruggia e ad altri
imputati separatamente giudicati come commesso in territorio lombardo, in

commesso il fatto; la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto il reato
associativo assorbente, ai fini della competenza territoriale, anche rispetto a
reati-fine di maggiore gravità; lo stesso reato associativo, peraltro, risulterebbe
commesso in Lombardia, nella quale l’attività dell’associazione veniva registrata
dagli inquirenti ed erano commessi tutti i reati-fine, essendo irrilevante la mera
origine della famiglia mafiosa in Pietraperzia, ove, come osservato in particolare
dal ricorrente Vincenzo Monachino, risiedevano solo due degli imputati.
2. Il ricorrente Giovanni Monachino deduce:
2.1. violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di
responsabilità; le dichiarazioni dei collaboratori non conterrebbero elementi
specificamente riferibili a fatti non coperti da precedenti giudicati, e da quelle
rese dai dichiaranti Ferrauto, Riggio, Di Dio e Terlati non emergerebbe se le
circostanze dagli stessi riferite derivino da un personale patrimonio conoscitivo
ovvero da notizie apprese dal collaboratore Messina, per quanto detto non
riconducibili ai fatti oggetto dell’imputazione contestata in questo procedimento,
o dalla ‘cronaca, e comunque non ne verrebbe evidenziato il ruolo apicale
attribuito all’imputato; l’accertamento dei comuni periodi di detenzione non
sarebbe idoneo a riscontrare la ricezione delle confidenze dell’imputato da parte
dei collaboratori; sarebbe illogica l’ipotizzata sussistenza di un’associazione
avente un vertice in Pietraperzia ed altro in Lombardia, a fronte della stanzialità
di Giovanni Monachino nel primo di detti luoghi; i contenuti delle conversazioni
intercettate sarebbero privi di connotazioni illecite e rappresentative di meri
contatti fra soggetti emigrati nell’Italia settentrionale ed altri rimasti nel paese di
origine, nonché della condizione di indigenza di Giovanni Monachino e del
Ferruggia, incompatibile con i movimenti finanziari ipotizzati dai giudici di
merito; ulteriori elementi indicati dalla pubblica accusa sarebbero privi di
consistenza;
2.2. violazione di legge e vizio motivazionale sulla determinazione della
pena; la misura di quest’ultima sarebbe eccessiva rispetto al limitato ambito
temporale della condotta ed alla cessazione della stessa nel 2007; quest’ultima

ordine al quale il Ferruggia era stato assolto in primo grado per non aver

circostanza non consentirebbe l’applicazione della maggior pena edittale
introdotta con le modifiche di cui all’art. 1 legge 24 luglio 2008, n. 125;
l’aggravante dell’impiego di proventi delittuosi nelle attività economiche
controllate dall’associazione sarebbe stata ritenuta sussistente in mancanza di
prove.
3. Il ricorrente Ferruggia deduce:
3.1. violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di
responsabilità per il reato associativo; le dichiarazioni dei collaboratori Messina,

alla sentenza del Tribunale di Caltanissetta, con la quale il Ferruggia era ritenuto
responsabile di un reato di associazione mafiosa commesso fino al 2004; non
sarebbero state esaminate le dichiarazioni dei collaboratori Speziale e Ferrauto, i
quali escludevano che il Ferruggia avesse assunto posizioni qualificate; le
conversazioni intercettate sarebbero equivoche ed indicative di una condizione di
indigenza degli imputati, incoerente con i flussi finanziari che dall’articolazione
lombarda dell’associazione sarebbero stati indirizzati, secondo i giudici di merito,
verso quella di Pietraperzia; nella sentenza impugnata si sarebbe attribuito
rilievo ad un intervento del Ferruggia per convincere tale Michele Grisafi a
rilasciare un immobile occupato in locazione, che dalle intercettazioni non
risulterebbe realizzato con metodi mafiosi; ulteriori elementi indicati dalla
pubblica accusa sarebbero privi di consistenza;
3.2. violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di
responsabilità per il reato di trasferimento fraudolento di valori; la decisione
sarebbe contraddittoria rispetto all’assoluzione di Filippo Argento, pronunciata
con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di
Caltanissetta del 28/04/2008, per il reato di associazione mafiosa contestatogli
come commesso quale titolare della ditta che si assume essergli stata
fittiziamente conferita dal Ferruggia, trattandosi sostanzialmente dello stesso
fatto storico; contraddittoria sarebbe altresì la conclusione, per la quale il
predetto trasferimento sarebbe avvenuto dopo la scarcerazione del Ferruggia nel
luglio del 2006, rispetto all’accertata costituzione della ditta, da parte
dell’Argento, nel febbraio del 2005; non sarebbe emerso dagli atti che il
Ferruggia abbia gestito di fatto la ditta AMC o che vi abbia apportato capitali;
3.3. violazione di legge e vizio motivazionale sulla determinazione della
pena; la misura di quest’ultima sarebbe eccessiva rispetto al limitato ambito
temporale della condotta ed alla cessazione della stessa nel 2007; quest’ultima
circostanza non consentirebbe l’applicazione della maggior pena edittale
introdotta con le modifiche di cui all’art. 1 legge 24 luglio 2008, n. 125.

4

Celona, Barbieri e Smorta sarebbero relative a periodi coperti dal giudicato di cui

4. Il ricorrente Viola deduce violazione di legge e vizio motivazionale
sull’affermazione di responsabilità; l’appartenenza dell’imputato all’associazione
sarebbe stata ritenuta unicamente in base ai rapporti con il Ferruggia ed
all’errato sillogismo per il quale dall’intraneità al sodalizio di quest’ultimo
deriverebbe quella del Viola; l’accertamento, per effetto di precedenti sentenze
definitive, dell’esistenza dell’associazione nel territorio di Pietraperzia, sarebbe
stato illogicamente posto alla base dell’affermazione dell’esistenza di un’analoga
struttura associativa nel diverso contesto del territorio lombardo, omettendo la
verifica dell’esistenza in quest’ultimo territorio delle manifestazioni tipiche
dell’associazione mafiosa in capo a soggetti ormai ivi stabilmente residenti e privi
di contatti con la Sicilia; nessuno dei collaboratori avrebbe indicato elementi
riguardanti il Viola; le prove a carico dell’imputato sarebbero state individuate in
elementi dei quali il ricorrente contesta singolarmente la significatività
probatoria; nella condotta dell’imputato sarebbe al più ravvisabile l’ipotesi del
favoreggiamento.
5. Il ricorrente Cannata deduce, anche con motivi aggiunti:
5.1. violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di
responsabilità; la sentenza impugnata non avrebbe risposto alle censure
proposte con l’appello in ordine alla mancata indicazione degli elementi a
sostegno dell’ipotesi accusatoria che l’imputato avesse partecipato
all’associazione gestendo attività imprenditoriali nell’edilizia e nel commercio di
autovetture, ed alle contraddizioni della sentenza di primo grado sulla
valutazione dei contenuti delle intercettazioni;
5.2. violazione di legge sulla ritenuta sussistenza dell’aggravante
dell’impiego di proventi delittuosi nelle attività economiche controllate
dall’associazione; la provenienza del denaro trasferito dall’imputato in Lombardia
su richiesta di Vincenzo Monachino sarebbe stata apoditticamente ritenuta
illecita, a fronte di motiVi di appello nei quali si era evidenziato come tanto non
emergesse dalle indagini; nella stessa sentenza di primo grado i movimenti
finanziari sarebbero stati indicati come oggetto di pretese dei Monachino nei
confronti dei compaesani residenti in Lombardia, e non di investimenti
dell’associazione;
5.3. vizio motivazionale sul diniego delle attenuanti generiche; il relativo
motivo di appello, fondato sulla contraddizione del riferimento della sentenza di
primo grado alla gravità dei fatti rispetto all’affermazione, contenuta nella stessa
sentenza, dell’aver il Cannata subito pretese per evitare spiacevoli conseguenze,
non avrebbe trovato risposta nel richiamo della sentenza impugnata ad altre e
diverse posizioni processuali.
6. Il ricorrente Vincenzo Monachino deduce:
5

à

6.1. violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di
responsabilità; posto che quest’ultima era fondata, oltre che sulle dichiarazioni
del collaboratore Barbieri assunte in primo grado, su quelle dei collaboratori
Billizzi e Smorta escussi nel giudizio di appello, e che questi ultimi facevano
riferimento a tale Carmelo Sultano come persona che avrebbe presentato
Vincenzo Monachino al Billizzi, la richiesta difensiva di escutere il Sultano
sarebbe stata immotivatamente rigettata dalla Corte territoriale; la motivazione
della sentenza impugnata sarebbe carente nel generico richiamo alle

esistenti frale stesse;
6.2. violazione di legge sul diniego della continuazione con i fatti di cui alla
sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta del 08/11/2002; la relativa
richiesta sarebbe stata immotivatamente respinta.
7. Il ricorrente Cacici deduce:
7.1. vizio motivazionale sull’affermazione di responsabilità; difetterebbe la
motivazione sull’esistenza dell’associazione mafiosa operante in territorio
lombardo, e segnatamente sul manifestarsi in tale contesto ambientale della
forza intimidatrice propria di tale sodalizio, non essendo sufficiente a tal fine
l’irrilevante circostanza per la quale gli imputati residenti in Lombardia aiutavano
economicamente i loro compaesani; sarebbero state illogicamente valorizzate
intercettazioni non significative, dalle quali circostanze riconducibili a rapporti di
solidarietà fra compaesani; la Corte territoriale non avrebbe valutato la
mancanza di riferimenti al Cacici nelle dichiarazioni di otto dei collaboratori
escussi e nelle sentenze definitive menzionate nel corso del procedimento; le
dichiarazioni dei collaboratori Barbieri, Ferrato e Billizzi riporterebbero de relato
notizie apprese da Vincenzo Monachino e sarebbero comunque generiche
nell’indicare rispettivamente il Cacici come «vicino a loro», come «uomo
d’onore» e come «un amico nostro»;
7.2. violazione di legge sulla ritenuta sussistenza dell’aggravante
dell’impiego di proventi delittuosi nelle attività economiche controllate
dall’associazione; il finanziamento della famiglia di Pietraperzia con i proventi di
appalti, usure ed estorsioni realizzate in territorio lombardo sarebbe stato
affermato apoditticamente ed omettendo di valutare la ricorrenza degli elementi
indicati dalla giurisprudenza;
7.3. violazione di legge sul diniego delle attenuanti generiche e sulla
determinazione della pena; la sentenza impugnata sarebbe stata motivata
esclusivamente con il riferimento alla mancanza di motivi per il riconoscimento
dell’attenuante, omettendosi di valutare la giovane età, la pregressa attività

6

dichiarazioni dei collaboratori e nell’omessa valutazione delle incongruenze

lavorativa e l’incensuratezza dell’imputato; non sarebbe stata giustificata
l’irrogazione di una pena superiore al minimo edittale.
8. Il Procuratore generale territoriale ricorrente deduce:
8.1. vizio motivazionale sull’assoluzione del Meo dall’imputazione del reato
di associazione mafiosa; la motivazione della sentenza impugnata sarebbe
illogica nella mancanza di una lettura unitaria degli elementi di prova; le
dichiarazioni del collaboratore Messina, in particolare, non sarebbero state
valutate nella loro convergenza con le altre risultanze processuali;

dell’associazione; la decisione sarebbe stata succintamente motivata con
l’impossibilità di ricondurre univocamente ad un’arma il termine cifrato billy che
compariva in una conversazione intercettata, omettendo di valutare i riferimenti
della conversazione all’uso intimidatorio dell’oggetto, l’inserimento del colloquio
nelle attività di un’associazione nell’ambito della quale risultavano commessi
episodi omicidiari con uso di armi e la coessenzialità di tale uso con associazioni
mafiose storiche quale Cosa Nostra, riconosciuta anche nella giurisprudenza di
questa Corte.
9. Con i motivi aggiunti il ricorrente Cannata argomenta altresì a sostegno
della richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso del Procuratore
generale territoriale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi dedotti da tutti gli imputati ricorrenti sul rigetto dell’eccezione di
incompetenza territoriale del Tribunale di Caltanissetta sono infondati.
La Corte territoriale riteneva correttamente assorbente, ai fini della
determinazione della competenza territoriale, il riferimento al luogo di
commissione del reato associativo, anche rispetto a quello indicato per il più
grave reato-fine estorsivo originariamente contestato; tanto in conformità alla
regola, derogatoria degli ordinari criteri di disciplina della competenza, prevista
dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 27561 del 09/06/2010,
Boci, Rv. 247880; Sez. 2, n. 6783 del 13/11/2008, El Abbouli, Rv. 243300; Sez.
4, n. 17386 del 09/03/2006, Sirica, Rv. 233964; Sez. 6, n. 2850 del
04/12/2003, Odigie Onneide, Rv. 229767).
Ciò posto, la collocazione del luogo di realizzazione del reato associativo nel
territorio di Pietraperzia era coerentemente motivata nella sentenza impugnata
in considerazione della nascita dell’associazione in quel centro, per iniziativa di
Liborio Micciché, e dello sviluppo del sodalizio in quell’ambito locale. Le censure
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8.2. vizio motivazionale sull’esclusione dell’aggravante del carattere armato

dei ricorrenti si risolvono sul punto nella valorizzazione, in senso contrario, delle
attività criminose poste in essere dall’associazione in Lombardia; aspetto che
veniva preso in esame dai giudici di merito, i quali osservavano tuttavia, senza
incorrere in vizi logici, come il trasferimento di taluni degli associati in territorio
lombardo a partire dagli anni Ottanta non avesse comportato un mutamento
della sede principale dell’associazione, che rimaneva radicata in Pietraperzia e
con la quale gli associati emigrati nell’Italia settentrionale mantenevano i loro

2. I motivi dedotti dal ricorrente Giovanni Monachino sono infondati.
2.1. Sull’affermazione di responsabilità dell’imputato, e con riguardo in
primo luogo alla struttura ed all’operatività della contestata associazione, la
sentenza impugnata richiamava la ricostruzione effettuata con la decisione di
primo grado in base alle dichiarazioni dei collaboratori Messina, Celona, Speziale,
Barbieri e Ferrauto, dalle quali risultava l’esistenza della cosca mafiosa di
Pietraperzia, che faceva capo ai Monachino, e di una comunità di soggetti
originari di quel paese che, trasferitisi in Cologno Monzese e Pioltello, vi avevano
intrapreso attività economiche nei settori dell’edilizia, del commercio e della
gestione di appalti, quale quello relativo ai lavori della AMT in Milano,
mantenendo tuttavia i contatti con la famiglia di Pietraperzia e ricevendo
direttive dalla stessa. Si evidenziava peraltro come tale ricostruzione avesse
trovato riscontri nell’apertura nel territorio milanese di diverse imprese edili
aventi lo stesso oggetto sociale, che dopo aver realizzato inizialmente rilevanti
volumi di affari proseguivano l’attività solo per brevi periodi; nelle intercettazioni
eseguite presso gli uffici della Classic Motors s.r.I., società del Cannata, dalle
quali emergevano i legami del Cannata, del Cacici e del Viola con la famiglia di
Pietraperzia e l’invio a quest’ultima di parte degli introiti delle attività lombarde;
e nella videoripresa di un incontro svoltosi presso il bar Charleston di
Pietraperzia fra Giovanni Monachino, il Viola, il Ferruggia, il Meo ed altri, nel
corso del quale il Ferruggia consegnava al gruppo la somma di C 2.500 che
intercettazioni contestualmente eseguite rivelavano essere stata appositamente
portata dalla Lombardia.
Le censure formulate dal ricorrente, con riguardo all’asserita impossibilità di
datare i fatti narrati dai collaboratori ad epoca non coperta da precedenti
giudicati, trovavano adeguata risposta in specifiche osservazioni della Corte
territoriale, con le quali la stessa rilevava che le circostanze riferite dal Messina
sulla storia della famiglia di Pietraperzia e sulla creazione della cellula di Cologno
Monzese erano senz’altro risalenti, ma funzionali a supportare i risultati delle
recenti indagini, che attraverso le intercettazioni e le videoriprese avevano
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legami.

accertato la prosecuzione dell’attività associativa nel periodo oggetto
dell’imputazione.
Anche i rilievi sul carattere indiretto delle conoscenze dei collaboratori
venivano esaminati e correttamente disattesi nella sentenza impugnata
riconducendo le informazioni fornite dai collaboratori al patrimonio cognitivo
comune all’associazione, in quanto tale oggetto di diretta acquisizione (Sez. 1, n.
23242 del 06/05/2010, Ribisi, Rv. 247585; Sez. 1, n. 38321 del 19/09/2008,
Sarno, Rv. 241490). Insussistente è poi la dedotta illogicità della configurazione
di una struttura associativa articolata in due vertici, collocati in Pietraperzia ed in
Lombardia; come è evidente da quanto in precedenza riportato, tutt’altro era il
senso della ricostruzione operata dai giudici di merito, che vedeva in Pietraperzia
l’unico vertice del sodalizio e in Lombardia una cellula dello stesso. La doglianza
sull’insufficiente riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori nei comuni periodi
di detenzione degli stessi non coglie i riferimenti della sentenza impugnata ai ben
diversi elementi di conferma derivanti dalle intercettazioni e dalle osservazioni
della polizia giudiziaria. Per il resto, il ricorso propone mere valutazioni sui
contenuti delle intercettazioni, la cui interpretazione costituisce questione di fatto
rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e non è sindacabile nel giudizio
di legittimità laddove risulti logica in base alle massime di esperienza adottate
(Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715), e generiche censure
sulla significatività di ulteriori elementi indicati dalla pubblica accusa e non
utilizzati dalla Corte d’Appello, trascurando la rilevanza probatoria viceversa
attribuita dalla stessa all’episodio della consegna di denaro osservata dalla polizia
giudiziaria in Pietraperzia.
Per quanto riguarda in particolare la posizione di Giovanni Monachino, la
motivazione della sentenza impugnata era articolata nel rinvio alle dichiarazioni
dei collaboratori sulla supremazia rivendicata dallo stesso e da Vincenzo
Monachino nella pretesa di ricevere finanziamenti per la famiglia da parte del
gruppo lombardo, ed ai contenuti delle intercettazioni sulle lamentele
dell’imputato per la scarsa regolarità con la quale tali finanziamenti erano inviati
dal Cannata, subentrato al Ferruggia, a seguito della detenzione di quest’ultimo,
nella conduzione del gruppo lombardo, e sulle critiche rivolte a Giovanni
Monachino per l’abitudine di riscuotere il denaro in un bar di Pietraperzia.
Considerazioni alle quali il ricorrente oppone anche in questo caso valutazioni di
merito che non incrinano la logicità dell’argomentazione della Corte territoriale.
2.2. Sulla determinazione della pena, sono in primo luogo inammissibili le
censure dedotte sulla ritenuta aggravante dell’impiego di proventi delittuosi nelle
attività economiche controllate dall’associazione; le stesse sono infatti formulate
con una generica affermazione di carenza probatoria sul punto, che non rivolge
9

precise critiche alle conclusioni della sentenza impugnata sulla natura illecita
delle attività svolte in territorio lombardo e sulla destinazione di parte
consistente dei relativi proventi al finanziamento della famiglia di Pietraperzia.
È poi infondata la censura di illegittimità dell’irrogazione di una pena
riferibile alla cornice edittale introdotta nel 2008 per una condotta che il
ricorrente assume essere cessata nel 2007. Quest’ultima asserzione difensiva
non trova invero corrispondenza nell’imputazione contestata, che estende il
periodo di commissione del reato associativo «fino a data odierna», e quindi,

data della richiesta di rinvio a giudizio (Sez. 5, n. 21294 del 01/04/2014, Alairno,
Rv. 260227), emessa nel 2011, nessuna indicazione contraria emergendo dalla
sentenza impugnata. Ma, d’altra parte, neppure risulta dalle sentenze di merito
che ai fini della determinazione della pena si sia tenuto conto dei nuovi limiti
edittali, essendo la pena-base inflitta inclusa nei limiti precedenti e non
essendovi alcun accenno ad una quantificazione della stessa nel minimo.
Generica è infine la doglianza di eccessività della misura della pena,
motivata dalla Corte territoriale con la particolare strutturazione
dell’associazione, la permanenza nel tempo della stessa e la mancanza di
atteggiamenti di resipiscenza dell’imputato.

3. I motivi dedotti dal ricorrente Ferruggia sono infondati con riguardo al
reato associativo, mentre a diverse conclusioni deve giungersi per il reato di
trasferimento fraudolento di valori.
3.1. Sull’affermazione di responsabilità per il reato associativo, il ricorrente
propone in primo luogo censure analoghe a quelle dedotte da Giovani Monachino
in ordine alla datazione dei fatti riferiti dai collaboratori; per le quali non possono
che richiamarsi le considerazioni esposte al precedente punto 2.1, osservando
che anche in questo caso le dichiarazioni dei collaboratori Messina, Celona e
Barbieri, per le quali il Ferruggia partecipava con Liborio Micciché e Giovanni
Monachino alla costituzione del gruppo mafioso in Cologno Monzese e vi operava
quale rappresentante della famiglia di Pietraperzia, erano raccordate con gli esiti
delle più recenti indagini per concludere coerentemente nel senso della
permanenza attuale del vincolo associativo.
In questa prospettiva, la sentenza impugnata era invero motivata in base ai
risultati delle intercettazioni, da cui emergeva che il Ferruggia comunicava al
Cannata le lamentele di Giovanni Monachino per la mancata ricezione delle
somme dovute dal gruppo lombardo e veniva indicato dal Cannata al Viola come
persona a cui occorreva comunicare la disponibilità dello stesso Cannata a
portare il denaro a Pietraperzia; alla diretta osservazione della riunione in
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essendosi proceduto nella specie con il rito abbreviato, quanto meno fino alla

Pietraperzia, descritta al punto 2.1, nel corso della quale il Ferruggia consegnava
una somma di denaro; ed all’intervento del Ferruggia nell’ottenere da Michele
t Grisafi il rilascio di un immobile richiesto da tale Giuliano, a conferma
dell’autorità localmente assunta dall’imputato nella risoluzione di contrasti.
Le doglianze del ricorrente si riducono a valutazioni di merito
sull’interpretazione dei contenuti delle intercettazioni, per quanto detto al punto
2.1 non proponibili in questa sede, e a rilievi sulla significatività probatoria delle
altre circostanze, che non evidenziano vizi logici nell’argomentazione della Corte

osservata dalla polizia giudiziaria. Anche in questo caso sono poi dedotte
generiche censure sulla valenza di ulteriori elementi indicati dalla pubblica
accusa e non utilizzati dalla Corte d’Appello; ed altrettanto generico, oltre che
attinente al merito, è l’ulteriore riferimento a dichiarazioni dei collaboratori
Speziale e Ferrauto sulla posizione assunta dal Ferruggia.
3.2. Per il reato di trasferimento fraudolento della ditta AMC, il termine
prescrizionale, pur tenendosi conto di cinquecento giorni di sospensione, risulta
decorso al 16/05/2015.
I motivi dedotti dal Ferruggia sul punto non sono inammissibili, articolandosi
nella denuncia di contraddittorietà della sentenza impugnata con l’assoluzione di
Filippo Argento, intestatario della ditta, dall’imputazione di associazione mafiosa,
e con la costituzione della AMC in epoca nella quale il Ferruggia era detenuto; né
d’altra parte evidenziano le condizioni per un esito processuale più favorevole
all’imputato, laddove la Corte territoriale motivava sulla costituzione di una
società di fatto fra il Ferruggia e l’Argento in epoca precedente alla scarcerazione
del primo.
Deve pertanto essere dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione.
Conclusione, questa, che non ha effetto estensivo per la posizione del
coimputato non ricorrente Argento, nei confronti del quale il giudicato si è
formato anteriormente al verificarsi della prescrizione (Sez. U, n. 19054 del
20/12/2012, dep. 2013, Vattani, Rv. 255297).
3.3. Le conclusioni di cui sopra implicano l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata limitatamente al reato di trasferimento fraudolento di valori,
con eliminazione della pena inflitta per detto reato, pari a quattro mesi di
reclusione.
Le ulteriore censure del ricorrente sulla determinazione della pena sono
infondate. In ordine alla dedotta illegittimità dell’irrogazione di una pena riferibile
alla cornice edittale introdotta nel 2008, per una condotta che il ricorrente
assume essere cessata nel 2007, non possono che richiamarsi le conclusioni di
cui al precedente punto 2.2 sull’analoga questione posta da Giovanni Monachino,
11

territoriale e per altro verso trascurano la consegna di denaro a Pietraperzia

nei termini della permanenza del reato in epoca successiva alla modifica
legislative e di impossibilità, comunque, di riferire la pena inflitta ai nuovi limiti
edittali. Mentre è anche in questo caso generica la doglianza di eccessività della
misura della pena, motivata dalla Corte territoriale con il carattere risalente della
struttura associativa.

4. I motivi dedotti dal ricorrente Viola sull’affermazione di responsabilità
sono infondati.
La

partecipazione dell’imputato alla contestata associazione era

congruamente motivata nella sentenza impugnata richiamando i contenuti delle
conversazioni intercettate sulla disponibilità manifestata dal Viola nel recapitare
a Pietraperzia il denaro corrisposto dal gruppo lombardo, sul supporto dato dallo
stesso al Ferruggia nel corso di una lite verificatasi in Pietraperzia e della vicenda
relativa al rilascio dell’immobile occupato dal Grisafi e sulle preoccupazioni
mostrate dall’imputato per la possibile intercettazione dei contatti con i
coimputati.
Insussistente è la lamentata illogicità della desunzione dei legami associativi
del Viola dai rapporti con il Ferruggia, tenuto conto del ruolo preminente nel
sodalizio attribuito a quest’ultimo. E le ulteriori censure del ricorrente si risolvono
in valutazioni di merito sui contenuti delle intercettazioni, la cui interpretazione
costituisce questione di fatto non proponibile in questa sede per quanto detto al
punto 2.1, e sulle altre risultanze processuali, che non evidenziano vizi logici;
essendo peraltro privo di decisività, a fronte degli elementi indicati, il rilievo sulla
mancanza di accenni al Viola nelle dichiarazioni dei collaboratori.
E’ da ultimo infondata la doglianza di omessa verifica della sussistenza delle
manifestazioni di omertà ed assoggettamento, tipiche dell’associazione mafiosa,
nel territorio lombardo in cui operavano gli imputati.
La necessità di una siffatta verifica è stata per il vero affermata con riguardo
a casi nei quali l’imputazione era riferita a gruppi criminosi costituitisi
autonomamente in territori diversi da quelli di origine delle consorterie mafiose
delle quali evocavano i caratteri, come quelli di un’associazione operante in
Veneto, che si presentava come collegata al dan dei Casalesi (Sez. 2, n. 25360
del 15/05/2015, Concas, Rv. 264120), o di altra che replicava nel territorio
milanese i metodi propri della ndrangheta calabrese (Sez. 5, n. 19141 del
13/02/2006, Bruzzaniti, Rv. 234403). La situazione oggetto di questo processo è
stata invece ricostruita, come si è visto, nei diversi termini dell’operatività in
Lombardia di un’articolazione della cosca mafiosa costituita ed insediata in
Pietraperzia, che manteneva con quest’ultima stretti collegamenti,
particolarmente evidenziati non solo dai costanti contatti con la famiglia di
12

4

origine, ma anche da rapporti consolidati di finanziamento di quest’ultima con i
proventi realizzati in territorio lombardo. In questa differente prospettiva, la
t dipendenza della qualificazione mafiosa di un’associazione dalla capacità anche
solo potenziale di esercitare una forza intimidatrice, idonea a condizionare la
volontà di quanti entrino in contatto con gli affiliati, è stata posta a fondamento
delle ritenuta sufficienza, ai fini di detta qualificazione, della costituzione di un
gruppo criminoso connotato dalle caratteristiche strutturali dell’associazione
mafiosa di riferimento e dalla persistenza di collegamenti con la stessa (Sez. 1,

configurabilità del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. nell’articolazione
periferica del sodalizio che abbia tali caratteri, anche in mancanza di esternazioni
della forza intimidatrice nel proprio ambito territoriale (Sez. 5, n. 31666 del
03/03/2015, Bandiera, Rv. 264471). La sentenza impugnata riconduceva
pertanto correttamente a tale fattispecie incriminatrice il caso in esame,
avendovi identificato gli aspetti descritti.

5. I motivi dedotti dal ricorrente Cannata sono infondati.
5.1. Sull’affermazione di responsabilità dell’imputato, il contributo
associativo di quest’ultimo veniva individuato, in base alle conversazioni
intercettate, nel coinvolgimento nelle problematiche relative al finanziamento
della famiglia di Pietraperzia, evidenziato in particolare dall’intercettazione nel
corso della quale il Ferruggia contestava al Cannata la scarsa regolarità dei
pagamenti, segnalata da Vincenzo Monachino, e da altre nelle quali l’imputato
manifestava conoscenza dei movimenti finanziari dell’associazione e familiarità
con i soggetti che ne erano interessati.
I contenuti delle conversazioni erano oggetto nel ricorso di valutazioni di
merito non proponibili in questa sede per quanto osservato al punto 2.1; e, per il
resto, le riportate argomentazioni della sentenza impugnata superano le censure
di mancanza di motivazione sulla gestione, da parte dell’imputato, di attività di
impresa nell’interesse dell’associazione, nel momento in cui il ruolo associativo
del Cannata era diversamente individuato nei termini appena esposti. La
motivazione della sentenza impugnata è pertanto esente dai vizi logici lamentati
dal ricorrente.
5.2. Le censure dedotte sulla ritenuta sussistenza dell’aggravante
dell’impiego di proventi delittuosi nelle attività economiche controllate
dall’associazione sono inammissibili per le ragioni rappresentate al precedente
punto 2.2 con riguardo agli analoghi motivi proposti dal ricorrente Giovanni
Monachino. Anche in questo caso, infatti, vi è una generica doglianza di carenza
probatoria che non si contrappone in termini aderenti alle conclusioni della
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n. 5888 del 20/01/2012, Garcea, Rv. 252418); con la conseguente

sentenza impugnata sulla natura illecita delle attività svolte in territorio
lombardo e sulla destinazione di parte consistente dei relativi proventi al
t finanziamento della famiglia di Pietraperzia. Ed inconferenti sono gli ulteriori
rilievi del ricorrente sull’essere tali somme oggetto di pretesa dei Monachino nei
confronti degli associati residenti in Lombardia, circostanza che non ha alcuna
relazione con l’origine e la destinazione del denaro.
5.3. Sul diniego delle attenuanti generiche, il ricorrente si limita infine a
proporre valutazioni alternative di merito sulle pressioni subite dal Cannata per

motivazione della sentenza impugnata, fondata sul carattere consolidato della
struttura associativa; argomento, questo, che contrariamente a quanto
sostenuto nel ricorso non riguarda altre posizioni processuali, investendo
direttamente anche quella del Cannata in quanto partecipe di tale struttura.

6. I motivi dedotti dal ricorrente Vincenzo Monachino sono infondati.
6.1. Sull’affermazione di responsabilità dell’imputato, la sentenza impugnata
era coerentemente motivata in base alle dichiarazioni dei collaboratori Billizzi,
Barbieri e Smorta, da cui risultava che l’imputato veniva presentato al Billizzi, nel
corso di un incontro in Gela al quale partecipava anche l’imprenditore locale
Carmelo Sultano, come appartenente alla famiglia di Pietraperzia, e che in altra
occasione il Monachino si interessava ad un’estorsione che il Billizzi intendeva
eseguire in danno di un’impresa edile e di seguito se ne faceva consegnare i
proventi dividendoli fra il Billizzi e lo Smorta, così mostrandosi preposto a
regolare la gestione dei rapporti illeciti sul territorio; nonché alle intercettazioni
dalle quali risultava che l’imputato si lamentava con il Ferruggia per mancati
pagamenti delle somme dovute dal gruppo lombardo e, con il fratello, si
presentava quale referente dell’organizzazione mafiosa in Pietraperzia.
A fronte di ciò, le censure del ricorrente si riducono ad un generico richiamo
ad incongruenze nelle dichiarazioni dei collaboratori, non considerando il
riscontro individuato dai giudici di merito nelle intercettazioni, ed all’eccezione
relativa al rigetto della richiesta difensiva di escussione del Sultano quale teste di
riferimento; qualifica, quest’ultima, che non può essere riconosciuta nei confronti
nel Sultano, nei termini che ai sensi dell’art. 195 cod. proc. pen. ne
imporrebbero l’esame, trattandosi non di un soggetto indicato quale fonte delle
informazioni fornite da altri testi, ma solo di persona indicata dai dichiaranti
come presente ad uno degli incontri descritti dagli stessi, con la conseguente
infondatezza della questione.
6.2. La censura relativa al diniego della continuazione con i fatti di cui alla
sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta del 08/11/2002 non risulta
14

effettuare i versamenti in favore dei Monachino, che non attingono la

proposta con l’atto di appello, il che ne preclude l’esame in questa sede; ed è
comunque generica nella denuncia di mancanza di motivazione, laddove nella
sentenza di primo grado il rigetto della richiesta era giustificato con l’assenza agli
atti della sentenza citata.

7. I motivi dedotti dal ricorrente Cacici sono infondati.
7.1. Sull’affermazione di responsabilità dell’imputato, la sentenza impugnata
era motivata sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori Barbieri e Ferrauto,

intercettazioni dalle quali risultavano l’affidamento al Cacici della gestione
dell’appalto della ATM e , in una occasione, il disappunto dell’imputato per aver
contribuito al sostentamento di un associato detenuto senza che analoga
assistenza gli fosse stata riconosciuta allorché egli stesso era stato ristretto in
carcere, atteggiamento dimostrativo di adesione ad una tipica modalità dei
rapporti interni alle organizzazioni mafiose.
Le censure del ricorrente su tali passaggi motivazionali attribuiscono alle
dichiarazioni dei collaboratori una natura indiretta in realtà insussistente per
quanto già precisato al punto 2.1 in tema di riferibilità di tali contributi al comune
patrimonio cognitivo dell’associazione; e consistono per il resto in valutazioni di
merito sulla significatività di tali dichiarazioni e sull’interpretazione dei contenuti
delle intercettazioni, quest’ultima sottratta, come si è più volte detto, al
sindacato del giudice di legittimità. Sono privi di decisività, rispetto agli elementi
indicati, i rilievi sulla mancanza di accenni all’imputato nelle dichiarazioni di altri
collaboratori e in sentenze definitive acquisite. Devono infine richiamarsi anche
per questa posizione le ragioni di infondatezza della doglianza sul mancato
accertamento di manifestazioni espresse della forza intimidatrice
dell’associazione nel territorio lombardo, già esposte al punto 4 su analoga
questione posta dal ricorrente Viola.
7.2. Le censure dedotte sulla ritenuta sussistenza dell’aggravante
dell’impiego di proventi delittuosi nelle attività economiche controllate
dall’associazione sono inammissibili per quanto detto al precedente punto 2.2,
sui motivi analoghi proposti dal ricorrente Giovanni Monachino, in ordine alla
genericità delle doglianze rispetto a quanto affermato nella sentenza impugnata
sulla natura illecita delle attività svolte in territorio lombardo e sulla destinazione
di parte consistente dei relativi proventi al finanziamento della famiglia di
Pietra perzia .
7.3. Sul diniego delle attenuanti generiche e sulla determinazione della
pena, l’affermazione del ricorrente, per la quale la motivazione farebbe esclusivo
riferimento alla mancanza di elementi a sostegno del riconoscimento
15

che indicavano il Cacici come appartenente all’associazione, e delle

dell’attenuante e non giustificherebbe l’irrogazione di una pena superiore al
minimo edittale, è infondata. Nel riferimento alla mancanza di motivi che
giustificassero la mitigazione della pena, a differenza di quanto ritenuto per le
posizioni dei coimputati Argento, Meo e Viola in considerazione dell’assoluzione
del primo dal reato associativo e del ruolo marginale degli altri, la Corte
territoriale richiamava invero implicitamente le argomentazioni svolte per gli altri
imputati con riguardo alla risalente e consolidata struttura dell’associazione
criminosa. Aspetto, questo, non considerato dal ricorrente, che si limita a

dalla decisività attribuita in senso contrario alle connotazioni della condotta.
Infondati sono altresì i rilievi oggi formulati dal Procuratore generale
sull’erronea determinazione della pena. La stessa risulta invero correttamente
stabilita in anni sei di reclusione, per effetto dell’individuazione della pena-base
in anni sette, dell’aumento della stessa per l’aggravante ad anni nove e della
riduzione per il rito.

8. I motivi dedotti dal Procuratore generale territoriale sono invece
inammissibili.
8.1. Sull’assoluzione del Meo dall’imputazione del reato di associazione
mafiosa, l’affermazione del ricorrente, per la quale le dichiarazioni del
collaboratore Messina non sarebbero state valutate unitamente agli altri elementi
acquisiti, è generica e non attinente all’effettivo contenuto della motivazione
della sentenza impugnata. La Corte territoriale, dato atto che il Messina gli
veniva presentato in Cologno Monzese nel 1991 come associato, esaminava
invero l’efficacia confermativa degli elementi indicati, premettendo che gli stessi
dovevano essere valutati in relazione alla possibile lettura alternativa della
riconducibilità dei rapporti fra il Meo ed il Ferruggia a ragioni meramente
familiari, date dall’amicizia fra la sorella del Meo e la moglie del Ferruggia; ed
osservando che la circostanza dell’essere il Meo divenuto autista del Ferruggia
non deponeva univocamente per la visione accusatoria, essendo ugualmente
compatibile con i descritti rapporti personali, e che altrettanto equivoca era la
conversazione intercettata nella quale il Meo parlava con Giovanni Monachino
dell’installazione di telecamere in Pietraperzia.
8.2. Sull’esclusione dell’aggravante del carattere armato dell’associazione, il
ricorso è fondato su generiche considerazioni in ordine alla compatibilità della
natura e dell’operatività dell’associazione con l’uso di armi, che risultano
inconferenti rispetto alle considerazioni della sentenza impugnata sull’esistenza
in atti di un unico elemento ipoteticamente riferibile alla concreta disponibilità di
armi, ossia l’oggetto di una conversazione intercettata indicato con il termine
16

considerazioni di merito su ulteriori elementi favorevoli all’imputato, superati

billy, e sull’inidoneità di detto termine ad essere anche solo evocativamente
associato ad un’arma. Manifestamente infondato è poi il rilievo del ricorrente
sull’asserito riconoscimento giurisprudenziale della coessenzialità della
disponibilità di armi al carattere mafioso dell’associazione; laddove questa Corte
si è limitata ad osservare che la dotazione di strumenti di offesa è connaturata al
perseguimento degli scopi di un sodalizio mafioso e può pertanto dar luogo ad
una ragionevole presunzione, che non costituisce tuttavia prova sufficiente di
tale disponibilità, che non costituisce comunque elemento indefettibile del reato
di cui all’art. 416-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 36198 del 03/07/2014, Ancora, Rv.
260272) proprio in quanto prevista come eventuale circostanza aggravante.
All’integrale rigetto dei ricorsi degli imputati Giovanni Monachino, Vincenzo
Monachino, Viola, Cannata e Cacici segue la condanna dei predetti al pagamento
delle spese processuali.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Ferruggia Calogero
limitatamente al reato di cui al capo O (art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992)
per essere lo stesso estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di mesi
quattro di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso di tale imputato.
Rigetta i ricorsi di Monachino Giovanni, Viola Francesco, Cannata Felice,
Monachino Vincenzo e Cacici Angelo, che condanna ciascuno al pagamento delle
spese del procedimento.
Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale.
Così deciso il 11/11/2015

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