Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8231 del 19/01/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 8231 Anno 2016
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RENDA FRANCESCO N. IL 21/12/1974
avverso l’ordinanza n. 1060/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
13/07/2015
ita la relazione fatta dal Consigliere Dott. I COM0yROCCHI;
s;t/sentite le conclusioni de PG Dott. 67)\–t.
1

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Udit i difensor Av

Data Udienza: 19/01/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Catania, provvedendo
sulla richiesta di riesame proposta nell’interesse di Renda Francesco avverso
quella del G.I.P. dello stesso Tribunale applicativa della custodia cautelare in
carcere, annullava il provvedimento limitatamente al capo U (tentato furto ad un
ufficio postale, delitto per il quale il Tribunale riteneva mancante il requisito
dell’idoneità degli atti) e lo confermava per il resto.

reati di partecipazione all’associazione mafiosa denominata clan Mazzei (detto
anche clan dei “carcagnusi”), concorso in estorsione ai danni della società
CORIND s.r.l. da epoca antecedente all’anno 2000 al 2013, concorso in
estorsione ai danni di Cicala Francesco, concorso in rapina ed estorsione ai danni
di un negoziante di Augusta, partecipazione ad associazione finalizzata al traffico
di sostanze stupefacenti e concorso in detto traffico.
Preliminarmente il Tribunale rigettava tre eccezioni preliminari.
Nella prima, la difesa denunciava la scadenza del termine massimo di
custodia cautelare sulla base della retrodatazione della misura alla data del
12/12/2013 ai sensi degli artt. 297, comma 3 proc. pen.: il Tribunale negava che
il termine di fase fosse scaduto.
La seconda eccezione deduceva l’inefficacia della misura della custodia
cautelare ai sensi degli artt. 309, commi 5 e 10 cod. proc. pen. per omessa
trasmissione delle bobine contenenti i file audio delle intercettazioni e delle
videoriprese: il Tribunale negava la sussistenza dell’obbligo di trasmissione dei
supporti da parte del P.M..
Infine, la difesa eccepiva l’inutilizzabilità delle intercettazioni svolte
sull’utenza di Renda, che non era indicata in alcun decreto autorizzativo: il
Tribunale osservava che l’utenza aveva sostituito, con decreto del P.M., altra per
la quale il G.I.P. aveva regolarmente autorizzato le operazioni e concesso le
relative proroghe.
Il Tribunale riteneva che l’esistenza e l’operatività del clan Mazzei fossero
ampiamente dimostrate dalle numerose sentenze irrevocabili e che le indagini
avessero evidenziato la sua costante operatività a Catania dai primi mesi del
2012 sino a maggio del 2014: viene richiamato, in particolare, il rinvenimento di
un bloc notes su cui erano annotate entrate ed uscite, le intercettazioni svolte, le
videoriprese, gli arresti in flagranza in occasione dei reati fine nonché le
dichiarazioni del collaboratore di giustizia Scollo Giuseppe, appartenente ad altro
clan. Le indagini avevano mostrato l’esistenza di un gruppo autonomo operante
nel quartiere di Lineri, facente capo a Grasso Costantino.
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La misura cautelare è stata emessa nei confronti di Renda Francesco per i

Gli elementi sintomatici del reato associativo erano numerosi: il pagamento
di stipendi agli associati e ai loro familiari se detenuti, l’assistenza legale prestata
a loro favore, i riferimenti ad una cassa comune (“pignata”), utilizzata anche per
l’acquisto di armi, l’organizzazione di spedizioni punitive, i rapporti con gli altri
clan.
La figura di Renda emergeva in più occasioni e il Tribunale riteneva provato
il suo contributo attivo e eziologicamente rilevante al clan.
Il Tribunale riteneva sussistenti i gravi indizi anche per gli altri reati

videosorveglianza, l’arresto in flagranza di Malerba Roberto dopo la riscossione
del denaro oggetto dell’estorsione, le dichiarazioni delle persone offese, il
compendio delle intercettazioni telefoniche, le annotazioni sul bloc notes
rinvenuto nell’abitazione di Grasso Costantino; per l’estorsione ai danni di Cicala
Francesco le dichiarazioni della persona offesa, le conversazioni intercettate, il
riconoscimento quasi certo del Renda come accompagnatore di Grazioso Alfio;
per la rapina e l’estorsione ai danni del commerciante di Augusta, Tata Gaetano,
le intercettazioni telefoniche e i dati di aggancio alle celle risultanti dai tabulati,
gli accertamenti sulla rapina, l’identificazione di Renda come uno dei rapinatori,
gli accertamenti sulla presenza di Renda, a bordo di un motoveicolo sul quale era
stato fermato, davanti al medesimo esercizio anche nei giorni successivi; quanto
alla partecipazione all’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti
e al predetto traffico, il tenore delle intercettazioni, che dimostravano l’acquisto
di notevoli quantità di stupefacente e la successiva distribuzione, nonché
l’arresto di Grazioso Alfio e il sequestro di complessivi otto chilogrammi di droga;
quanto alla cessione di droga a Cavallaro, il testo delle conversazioni
intercettate.
Il Tribunale applicava la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc.
pen., ritenendo che la duplice presunzione non fosse stata intaccata dalla riforma
operata dalla legge 47 del 2015 e valutando, comunque, sussistenti e gravi le
esigenze cautelari.

2. Ricorre per cassazione Francesco Renda, deducendo distinti motivi.
In un primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge processuale e
vizio di motivazione con riferimento alla richiesta di retrodatazione della misura
cautelare: Renda, infatti, è detenuto per la rapina commessa ad Augusta,
nuovamente contestata al capo R dell’ordinanza cautelare, a far data dal
12/12/2013, sia pure a seguito di indagini svolte dalla Procura di Siracusa; la
sentenza di applicazione della pena era divenuta irrevocabile il 10/3/2015;
l’ordinanza del G.I.P. di Catania dell’8/6/2015 era stata emessa in violazione del

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contestati: per l’estorsione alla CORSIND richiamava i servizi di

divieto di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. e i termini di custodia erano
decorsi.
In un secondo motivo il ricorrente ripropone la questione della perdita di
efficacia della misura cautelare per la mancata trasmissione dei supporti
informatici e video relativi alle intercettazioni e alla videosorveglianza e deduce i
vizi di violazione di legge processuale e vizio di motivazione con riferimento
all’argomentazione adottata dal Tribunale del riesame, secondo cui tali supporti
potevano essere consultati presso la Procura: in realtà, secondo il ricorrente, non

G.I.P. all’atto della richiesta di misura cautelare. La mancata trasmissione
impediva al Tribunale un effettivo controllo nel merito dell’ordinanza impugnata.
In un terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione con riferimento
al rigetto dell’eccezione processuale concernente la mancata autorizzazione
dell’intercettazione sull’utenza in uso a Renda: per la sostituzione di un’utenza
ad un’altra o l’aggiunta di una nuova utenza da sottoporre ad ascolto occorreva
un provvedimento specifico.

In un quarto motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione con riferimento
alla ritenuta gravità indiziaria per tutti i reati contestati.
Le dichiarazioni del collaboratore Scollo erano dubbiose quanto alla
partecipazione di Renda al clan mafioso e per tutti i reati sussiste assoluta
indeterminatezza nella ricostruzione dei fatti e in relazione alla partecipazione di
Renda. In particolare, il ricorrente contesta l’esistenza di un’autonoma
associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.

In un ultimo motivo, il ricorrente deduce l’insussistenza di esigenze
cautelari, essendo egli detenuto fin dal 21/12/2013, alla luce del criterio
dell’attualità di dette esigenze imposto dalla legge 47 del 2015.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

1. Il primo motivo di ricorso è infondato sotto più profili.
Il ricorrente sostiene – con riferimento alla rapina ai danni del negoziante di
Augusta Tata Gaetano – la sussistenza di un ne bis in idem sostanziale, essendo
stato egli già sottoposto a misura cautelare e poi definitivamente condannato per
lo stesso delitto dall’A.G. di Siracusa.
Tale prospettazione, peraltro, porta il ricorrente a conclusioni non coerenti:

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è consentita alcuna deroga all’obbligo di trasmissione di tutti gli atti presentati al

se davvero l’ordinanza cautelare fosse stata emessa per il medesimo delitto per
il quale l’indagato era già stato definitivamente condannato, l’effetto non sarebbe
la retrodatazione dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 297, comma
3, cod. proc. pen., ma l’annullamento della misura cautelare, con l’obbligo per il
giudice di emettere sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 649 comma 2
cod. proc. pen.: in effetti, la norma dell’art. 297 comma 3 cit., nel riferirsi a più
ordinanze che dispongono la medesima misura per lo stesso fatto, presuppone
che non sia intervenuta sentenza definitiva, così come statuito dalle Sezioni

terzo, cod. proc. pen. per il computo dei termini di durata della custodia
cautelare non è applicabile nell’ipotesi in cui per i fatti contestati con la prima
ordinanza l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato
ancor prima dell’adozione della seconda misura” (Sez. U, n. 20780 del
23/04/2009 – dep. 18/05/2009, Iaccarino, Rv. 243322).

In realtà, il ne bis in idem denunciato dal ricorrente non sussiste: la
condanna definitiva è stata pronunciata per la rapina commessa ad Augusta il
24/8/2013 (come emerge dall’ordine di esecuzione emesso dalla Procura della
Repubblica di Siracusa prodotto dal ricorrente), mentre la rapina contestata nel
procedimento pendente davanti all’A.G. di Catania risale al 9/7/2013; è, quindi,
una rapina diversa, sia pure commessa dallo stesso soggetto ai danni del
medesimo commerciante. La motivazione in punto di gravi indizi di colpevolezza
fa comprendere il collegamento tra i due episodi.

Il ricorrente, però, sostiene che la retrodatazione dovrebbe ugualmente
operare perché gli elementi per emettere la nuova ordinanza in relazione alla
rapina del 9/7/2013 erano desumibili fin dal momento dell’applicazione della
prima misura cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Siracusa con
riferimento alla diversa rapina per la quale successivamente è intervenuta
condanna definitiva. Il richiamo implicito è alle sentenze della Corte
Costituzionale n. 408 del 2005, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui non si applica anche a
fatti diversi non connessi quando risulti che gli elementi per emettere la nuova
ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della
precedente ordinanza,, e n. 233 del 2011 che ha esteso la normativa della
retrodatazione anche al caso in cui, per i fatti contestati con la prima ordinanza,
l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente
all’adozione della seconda misura.
La tesi è infondata sotto numerosi punti di vista: in primo luogo perché è

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Unite di questa Corte, secondo cui “la disciplina prevista dall’art. 297, comma

soltanto affermata e niente affatto provata; in secondo luogo perché i
procedimenti pendevano davanti a diversa Autorità giudiziaria, mentre deve
Zit twirnai oo

essere riaffermatólne la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia
cautelare disposta per differenti reati richiede, come condizione autonomamente
necessaria, che i diversi procedimenti, pendenti davanti alla stessa autorità
giudiziaria, fossero stati tenuti separati in conseguenza di una scelta del pubblico
ministero (Sez. 6, n. 11807 del 11/02/2013 – dep. 12/03/2013, Paladini, Rv.
255721); in terzo luogo per quanto esattamente osservato dal Tribunale del

In effetti, questa Corte ha ripetutamente affermato che la retrodatazione
della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297, comma
3, cod. proc. pen., impone – per il computo dei termini di fase e la conseguente
valutazione circa l’avvenuto decorso del termine stesso, già al momento
dell’emissione della seconda ordinanza – di frazionare la globale durata della
custodia cautelare, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee (Sez. 6, n.
50761 del 12/11/2014 – dep. 03/12/2014, Nespolino, Rv. 261700; Sez. F, n.
47581 del 21/08/2014 – dep. 18/11/2014, Di Lauro, Rv. 261262)
Di conseguenza è infondata la tesi del ricorrente secondo cui dovrebbe
essere conteggiato l’intero periodo tra l’applicazione della prima misura e la
definitività della sentenza, mentre il Tribunale ha dimostrato che il termine di
fase relativo alle indagini preliminari era decorso per soli 35 giorni (lasso di
tempo intercorso tra l’applicazione della misura cautelare emessa dal G.I.P. del
Tribunale di Siracusa e l’emissione del decreto di giudizio immediato).

2. Il secondo motivo di ricorso ripropone una tesi che la giurisprudenza di
questa Corte ha ripetutamente smentito, affermando che il pubblico ministero
non ha l’obbligo di trasmettere, ai sensi del comma quinto dell’art. 309 cod.
proc. pen., i supporti informatici contenenti le video riprese utilizzate ai fini
dell’applicazione della misurai quando gli esiti delle stesse siano riportati
nell’annotazione di polizia giudiziaria (Sez. 1, n. 33819 del 20/06/2014 – dep.
30/07/2014, Iacobazzi, Rv. 261092; Sez. 1, n. 34651 del 27/05/2013 – dep.
09/08/2013, Ficorri, Rv. 257440).

Il ricorrente, per contrastare la motivazione dell’ordinanza impugnata,
ribatte di non avere denunciato la mancata trasmissione al Tribunale del riesame
per censurare una compressione del diritto di difesa, ma perché il Tribunale non
aveva la possibilità di operare un effettivo riesame nel merito della misura.
Il ricorrente, quindi, ammette che il proprio difensore aveva la possibilità di

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riesame in punto di mancato esaurimento del termine di fase.

accedere alle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate e
sommariamente trascritte dalla polizia giudiziaria nei c.d. brogliacci di ascolto,
utilizzati ai fini dell’adozione di un’ordinanza di custodia cautelare, presentando
la relativa richiesta al P.M. (Sez. U, n. 20300 del 22/04/2010 – dep. 27/05/2010,
Lasala, Rv. 246906); ma contestualmente mostra la evidente genericità della
censura, non indicando alcun passaggio dei brogliacci che risulti infedele rispetto
all’effettivo contenuto della registrazione.
In effetti, la possibilità per la difesa di accedere al contenuto delle

riguardante l’intero materiale – è concretamente utile all’indagato e al suo
difensore quando, rispetto a determinate conversazioni trascritte sui brogliacci,
sorgono dubbi specifici (ad esempio: l’indagato nega di avere sostenuto una
determinata conversazione, con il conseguente dubbio che possa essere stato
erroneamente identificato come interlocutore dalla polizia giudiziaria; oppure
ricorda che il tenore di una specifica conversazione era diverso, con il dubbio che
la trascrizione non riporti fedelmente le parole pronunciate); dubbi che possono
trasformarsi in specifiche deduzioni al Tribunale del riesame; ma, in mancanza di
esse, il Tribunale non ha alcuna necessità di accedere al contenuto delle
registrazioni, potendo fondare la sua decisione sul contenuto dei brogliacci
redatti dalla polizia giudiziaria.

Si deve ricordare che questa Corte – nella medesima linea argomentativa ha recentemente ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 291, comma primo, e 309, commi quinto e decimo, cod.
proc. pen., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui non
prevedono la trasmissione al Gip e al Tribunale del riesame anche dei supporti
informatici delle intercettazioni o videoriprese utilizzati ai fini dell’applicazione di
misure cautelari, in quanto i predetti supporti e i brogliacci non costituiscono un
unico atto processuale unitamente alle trascrizioni effettuate dalla polizia
giudiziaria, rispetto ai quali è sempre possibile contestarne, in presenza di
concreti elementi a sostegno, la mancata corrispondenza (Sez. 3, n. 19198 del
05/02/2015 – dep. 08/05/2015, Fiorenza, Rv. 263798).

3. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente non contesta il principio affermato dal Tribunale, secondo cui
qualora la persona nei confronti della quale l’intercettazione telefonica sia stata
ritualmente autorizzata utilizzi, per la comunicazione mediante apparecchio di
telefonia mobile, schede telefoniche diverse da quella per la quale
l’autorizzazione sia stata originariamente disposta, non è necessario un nuovo

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registrazioni anche ai fini della richiesta di riesame – benché generale e

provvedimento autorizzativo, dovendo ritenersi implicita la sua estensione a
tutte le successive utenze telefoniche in uso alla medesima persona (Sez. 1, n.
7455 del 13/01/2009 – dep. 20/02/2009, Galati Sansone, Rv. 242875); sostiene,
però, che sarebbe stato almeno necessario un provvedimento di sostituzione o di
aggiunta dell’utenza utilizzata dal soggetto intercettato.

Ma, appunto, il Tribunale del riesame fa espresso riferimento al decreto di

4. Il motivo attinente al merito della misura è manifestamente inammissibile
in quanto generico.

Quanto all’imputazione concernente la partecipazione all’associazione
mafiosa, il ricorrente si limita a ricordare che il collaboratore di giustizia Scollo
Giuseppe aveva affermato che Renda non faceva parte di un’associazione
mafiosa: il contenuto della dichiarazione non è, in realtà, riportato correttamente
in ricorso, atteso che, dall’ordinanza impugnata, emerge che il collaboratore di
giustizia aveva riconosciuto in fotografia Renda, aveva riferito che egli
frequentava il gruppo dei “carcagnusi” ma non aveva potuto confermarne
l’affiliazione (si trattava di soggetto appartenente ad altro clan); ma – come è
evidente – la censura viene mossa nei confronti di un elemento tra i tanti, niente
affatto decisivo e comunque preso in considerazione dal Tribunale, mentre il
ricorrente ignora l’amplissima motivazione svolta nell’ordinanza.

Analogamente, sono del tutto generiche le censure concernenti gli altri reati
contestati, limitandosi il ricorrente a sostenere che “per tutti sussiste assoluta
indeterminatezza nella ricostruzione dei fatti ed in relazione alla partecipazione
del sottoscritto”, senza nemmeno affrontare la motivazione svolta nell’ordinanza.
Anche il richiamo ai criteri utilizzati dal Tribunale per annullare l’ordinanza
con riferimento al tentato furto all’Ufficio Postale (capo U) – criteri che, secondo il
ricorrente, avrebbero dovuto essere applicati anche alle ulteriori contestazioni – è
sostanzialmente incomprensibile, tenuto conto che l’annullamento era giustificato
dalla fase non sufficientemente avanzata del tentativo per ritenerlo punibile,
argomentazione niente affatto trasferibile agli ulteriori reati contestati.

5. L’ultimo motivo di ricorso è infondato.

Il ricorrente propone un’interpretazione della normativa, così come
modificata dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, secondo la quale la presunzione di

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sostituzione del P.M. del 18/5/2013.

cui all’art. 275, comma 3, seconda frase cod. proc. pen. (“Quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt…. 416 bis cod. pen.,
è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”) sarebbe stata limitata dal
legislatore all’adeguatezza della custodia cautelare in carcere, venendo meno (in
tutto o in parte) la diversa presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari.
Ciò non in conseguenza della modifica della norma sopra riportata – che, sia
pure limitatamente ai soli reati di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis cod. pen. è

esigenze cautelari nel corpo dell’art. 274 cod. proc. pen..

Secondo il ricorrente, quindi, il Tribunale avrebbe avuto il dovere di
motivare sull’attualità del pericolo di reiterazione del reato, tenendo conto che
Renda era detenuto fin dal 21/12/2013 e che quindi aveva rescisso i legami con i
correi a partire da tale data.

In realtà, la normativa riformata affida al giudice di merito – esattamente
come avveniva in precedenza – la valutazione degli elementi da cui dovrebbe
emergere il venire meno delle esigenze cautelari; ma la giurisprudenza di questa
Corte ha costantemente affermato che il sopravvenuto stato detentivo
dell’associato non esclude la permanenza della sua partecipazione al sodalizio
criminoso, che viene meno solo nel caso, oggettivo, della cessazione della
consorteria criminale ovvero nelle ipotesi soggettive, positivamente acclarate, di
recesso o esclusione del singolo associato (da ultimo, Sez. 1, n. 46103 del
07/10/2014 – dep. 07/11/2014, Caglioti, Rv. 261272), da ciò discendendo che la
sussistenza dell’esigenza cautelare del concreto pericolo di commissione di delitti
di criminalità organizzata, in mancanza di uno dei due elementi, è in re ipsa.
Non può che ribadirsi, pertanto, che, per l’indagato del delitto d’associazione
di tipo mafioso, l’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen. pone una presunzione di
pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che
l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa,
con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare
atto dell’inesistenza d’elementi idonei a vincere tale presunzione (Sez. 5, n.
38119 del 22/07/2015 – dep. 18/09/2015, Ascone, Rv. 264727): in effetti, la
prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti
l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che
rendono “impossibile” (e perciò stesso in assoluto e in astratto oggettivamente
dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo
all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove

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rimasta immutata – ma per l’introduzione del requisito dell’attualità delle

non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la
presunzione di pericolosità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al

cod. proc. pen.
Così deciso il 19 gennaio 2016

Il Consigliere estensore

Il Presidente

direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att.

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