Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8111 del 29/01/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 8111 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MILANO NICOLO’ N. IL 28/05/1974
avverso l’ordinanza n. 52/2012 CORTE APPELLO di PALERMO, del
21/01/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
lette/spitte le conclusioni del PG Dott. FR tibic E re o rAciAmo
A.

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42 C4,‹

Data Udienza: 29/01/2014

Ritenuto in fatto

1. L’11/3/2013 la Corte di Appello di Palermo ha rigettato la domanda di
riparazione per ingiusta detenzione proposta da Milano Nicolò con riferimento
alla detenzione patita dal 7/7/2006 al 13/1/2010 nel corso di un procedimento
penale in cui era indagato per il reato di associazione a delinquere di stampo
mafioso.
Il richiedente, condannato in primo grado, era stato assolto con sentenza

La Corte territoriale ha rigettato la domanda di indennizzo ravvisando nel
comportamento dell’istante gli elementi di una condotta gravemente colposa
sinergica alla produzione dell’evento restrittivo della libertà personale.
Ciò essenzialmente sulla base delle seguenti specifiche circostanze:
– il Milano intratteneva intensi rapporti di frequentazione con un esponente
mafioso del calibro di Nicchi Giovanni, uomo di fiducia dell’allora esponente di
vertice dell’organizzazione mafiosa in Palermo Rotolo Antonino, e per questo
condannato con la citata sentenza della Corte di Appello di Palermo alla pena di
anni dodici di reclusione;
– nell’ambito di tali rapporti di frequentazione il Milano aveva parlato con il
Nicchi della vicenda riguardante la vertenza insorta tra la famiglia Milano ed
Adamo Andrea, avente ad oggetto «una contesa su una somma di denaro
verosimilmente collegata ad una operazione illecita» e per la cui risoluzione il
padre e lo zio del Milano, anch’essi da lungo tempo affiliati al sodalizio mafioso,
avevano sollecitato l’intervento del loro capo famiglia Ingarao Nicola, all’epoca
reggente di Porta Nuova, il quale a sua volta aveva discusso la questione con
Savoca Giuseppe, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille cui apparteneva
l’Adamo;
– il Milano, infine, nel corso del procedimento penale instaurato a suo carico,
non ha fornito alcun chiarimento riguardo alla natura dei suddetti rapporti con il
Nicchi, essendosi egli avvalso della facoltà di non rispondere.
Ha difatti argomentato il giudice a quo che «il fatto che il Milano abbia
intrattenuto stretti rapporti con il Nicchi, per altro in un periodo in cui costui era
assurto ad un ruolo di particolare rilievo nell’ambito del sodalizio mafioso,
sicuramente non ignorato dal Milano stesso (come dimostrato dal fatto che
quest’ultimo non aveva esitato a mettere a parte il Nicchi stesso della vertenza
insorta tra la famiglia Milano ed Adamo Andrea e dunque tra affiliati
all’organizzazione mafiosa, per la cui risoluzione erano stati già interessati gli
esponenti di vertice della famiglia mafiose cui rispettivamente appartenevano i
contendenti), e che il medesimo Milano non abbia chiarito in alcun modo la reale
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della Corte d’Appello di Palermo divenuta irrevocabile il 2/11/2010.

natura dei suoi rapporti con il Nicchi, essendosi egli avvalso della facoltà di non
rispondere, e che abbia fatto ciò pur potendosi rendere perfettamente conto del
grave rischio di coinvolgimento nella legittima azione repressiva dell’autorità
(così Casso 14-6-2001, Dridi), configura appunto quella colpa grave che
costituisce causa del provvedimento di perdita della libertà e che esclude il
diritto all’equa riparazione per la detenzione subita»

4. Ricorre per cassazione il Milano denunciando motivazione illogica ed

penali.
Censura in sintesi il provvedimento impugnato per aver valorizzato ai fini
dell’esclusione del diritto all’equa riparazione elementi in sé neutri o
perfettamente legittimi, quali il rapporto amicale sin dall’inizio noto all’autorità
procedente con il Nicchi ovvero l’esercizio della facoltà di non rispondere, ed
ancora per aver valutato elementi (quali l’asserito riferimento della telefonata ad
una contesa su una somma di denaro verosimilmente collegata ad un’operazione
illecita) in realtà escluso dal giudice della cognizione, essendosi rilevato nella
sentenza assolutoria che «il tenore letterale della conversazione intercettata,
rispetto alla quale rimane del tutto ignota la causale, non consente di procedere
ad una ricostruzione della vicenda …» (pag. 373 della sentenza della Corte

d’Appello di Palermo)

5. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito depositando
memoria e chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile ovvero sia
respinto.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

6. Il ricorso è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di
riparazione per ingiusta detenzione, al giudice del merito spetta, anzitutto, di
verificare se chi l’ha patita vi abbia dato causa, ovvero vi abbia concorso, con
dolo o colpa grave.
Tale condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, deve
manifestarsi attraverso comportamenti concreti, precisamente individuati, che il
giudice di merito è tenuto ad apprezzare, in modo autonomo e completo, al fine
di stabilire, con valutazione ex ante, non se essi abbiano rilevanza penale, ma

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apparente ed erronea applicazione della legge penale o di norme processuali

solo se si siano posti come fattore condizionante rispetto all’emissione del
provvedimento di custodia cautelare.
A tal fine, egli deve prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili,
relativi alla condotta del soggetto, sia precedente che successiva alla perdita
della libertà, allo scopo di stabilire se tale condotta abbia determinato, ovvero
anche solo contribuito a determinare, la formazione di un quadro indiziario che
ha indotto all’adozione o alla conferma del provvedimento restrittivo.
In tale operazione il giudice della riparazione, come ripetutamente precisato

valutazione delle risultanze e di pervenire, eventualmente, a conclusioni
divergenti da quelle assunte dal giudice penale, nel senso che circostanze
oggettive accertate in sede penale, o le stesse dichiarazioni difensive
dell’imputato, valutate dal giudice della cognizione come semplici elementi di
sospetto, ed in quanto tali insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna,
ben potrebbero essere considerate dal giudice della riparazione idonee ad
integrare la colpa grave ostativa al diritto all’equa riparazione.
Ciò con l’unico limite per cui, in sede di riparazione per ingiusta detenzione,
giammai può essere attribuita decisiva importanza, nel senso di considerarle
ostative al diritto all’indennizzo, a condotte escluse dal giudice penale o a
circostanze relative alla condotta addebitata all’imputato con il capo di
imputazione in ordine alle quali sia stata riconosciuta l’estraneità dell’imputato
stesso con la sentenza di assoluzione (senza che possa avere rilievo se dalla
sentenza emerga la prova positiva di non colpevolezza o piuttosto soltanto
l’insufficienza o la contraddittorietà della prova: sul punto, Sez. 4, n. 1573 del
18/12/1993 – dep. 19/05/1994, Tinacci, Rv. 198491).

7. Nel caso di specie la Corte d’Appello di Palermo, giudice della riparazione,
si è conformata a tali criteri.
Invero, appare corretta su di un piano logico la valorizzazione, quale
elemento di sospetto, riconducibile a condotta consapevole e volontaria
dell’indagato, della circostanza, validamente acquisita al processo e in sé
incontestata, della sussistenza di «intensi rapporti di frequentazione» con un
esponente mafioso di elevata e riconosciuta importanza nell’ambito
dell’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra.
Il principio giurisprudenziale affermato da questa Suprema Corte con la
pronuncia richiamata in ricorso di Sez. 6, n. 24469 del 05/05/2009, Bono, Rv.
244382, secondo cui «in tema di associazione di tipo mafioso, la mera
frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela,
amicizia o rapporti d’affari, ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti
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da questa Corte, ha certamente il potere/dovere di procedere ad autonoma

in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono
elementi di per sé sintomatici dell’appartenenza all’associazione, ma possono
essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell’art. 192, comma terzo,
cod. proc. pen., quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione
e connotati dal necessario carattere individualizzante», si appalesa inconferente
ai fini del giudizio sulla domanda di equa riparazione, volta che, come
evidenziato in premessa, non si tratta in questa sede di valutare la sussistenza
della responsabilità penale in ordine alla ipotizzata partecipazione

sussistenza di condotte, ascrivibili a dolo o colpa grave del richiedente, che
abbiano, con giudizio ex ante, potuto oggettivamente concorrere a determinare
un quadro di sospetto idoneo a giustificare l’adozione della misura restrittiva:
cosa che ben può affermarsi rispetto ad una condotta quale quella descritta, in
quanto connotata da assiduità e, come rimarcato nell’ordinanza impugnata,
anche dalla certamente presumibile consapevolezza in capo al richiedente della
caratura criminale del soggetto con cui egli si accompagnava. Che tale possa
essere considerata detta frequentazione si trae del resto della stessa massima
richiamata nella parte in cui, nel negare come detto che essa da sola possa
considerarsi elemento sintomatico dell’appartenenza all’associazione, precisa
nondimeno che essa può essere valorizzata come elemento di riscontro ai sensi
dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., il che evidentemente postula una
valutazione della condotta in termini quantomeno di sospetto e per ciò stesso
idonea ad assumere rilievo sinergico nella determinazione cautelare.
Né tale rilievo può nella specie essere escluso in ragione del dedotto legame
di amicizia, asseritamente noto agli inquirenti, trattandosi di circostanza di per sé
generica e di debole significato scriminante nella ricostruzione ex ante del
quadro indiziario.
La descritta condotta appare anzi di rilievo assorbente anche rispetto alla
seconda circostanza valorizzata, peraltro a margine della prima, dal giudice del
merito, ossia alla conversazione telefonica intercorsa tra il Milano e il Nicchi il
24/6/2005, non mettendo conto pertanto valutare se l’affermazione contenuta
nell’ordinanza impugnata secondo cui tale telefonata avrebbe riguardato la
vertenza insorta tra la famiglia Milano e Adamo Andrea, avente ad oggetto “una
contesa su una somma di denaro verosimilmente collegata ad un’operazione
illecita” sia in tutto o in parte frutto di travisamento di prova, per essere in realtà
invece rimasta ignota, come sostiene il ricorrente in relazione a quanto affermato
a pagina 373 della sentenza assolutoria della corte d’appello, la causale della
conversazione intercettata.

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all’associazione di stampo mafioso ma, ben diversamente, di valutare la

3. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre che alla rifusione, in favore
del Ministero dell’economia, delle spese dallo stesso sostenute nel presente
giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese

dell’Economia per questo giudizio di cassazione, spese liquidate in C 750,00.
Così deciso il 29/01/2014

processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero

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