Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8036 del 11/12/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 8036 Anno 2016
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: CALVANESE ERSILIA

SENTENZA

Sul ricorso proposto da
Polimeno Salvatore, nato a Sogliano Cavour il 16/02/1959

avverso la sentenza del 27/03/2015 della Corte di appello di Lecce

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Ersilia Calvanese;
udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo che il rigetto del ricorso;
udito per la parte civile, l’avv. Vittorio Vernailieone, che ha concluso chiedendo il
rigetto del ricorso;
udito per l’imputato, l’avv. Francesco Vergine, che ha concluso per l’accoglimento
dei motivi di ricorso.

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RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Lecce confermava la
sentenza emessa il 31 gennaio 2013 dal Tribunale di Lecce che aveva dichiarato
Salvatore Polirrieno responsabile del reato di calunnia e lo aveva condannato alla
pena di 2 anni di reclusione e al risarcimento in favore della parte civile.

Data Udienza: 11/12/2015

In particolare, a Salvatore Polimeno era stato contestato di aver presentato
il 23 ottobre 2008, in qualità legale rappresentante di una cooperativa che
gestiva una casa di riposo, una querela con cui accusava Anna Rita De Pascalis,
dipendente della struttura, della pur sapendola innocente, di appropriazione
indebita di somme di danaro.
Nella querela l’imputato aveva fondato le sue accuse su una missiva
inviatagli da un altro dipendente Silvano Negro, rivelatasi in seguito del tutto
falsa.

De Pascalis sulla base delle sue dichiarazioni, che avevano ricevuto plurimi
riscontri.
In appello, l’imputato aveva contestato l’utilizzabilità delle dichiarazioni della
parte offesa, erroneamente ascoltata ai sensi dell’art.

197-bis cod. proc. pen.

nonostante fosse ancora indagata per calunnia ai danni dei legali del Polimeno;
nonché l’insussistenza della condotta materiale e il difetto di prova in ordine
all’elemento soggettivo del reato.
I Giudici di appello respingevano la prima deduzione, posto che di tale
ulteriore pendenza a carico della parte lesa neppure la difesa (certamente a
conoscenza) in quella sede aveva informato i giudici.
In ordine al merito, la Corte leccese riteneva provata la materialità del fatto,
sulla base delle dichiarazioni della parte offesa — che risultavano aver ricevuto
riscontro dalle dichiarazioni del coimputato Negro e dei testi Dima e Frassanito —
nonché della documentazione acquisita.
Quanto alla responsabilità dell’imputato, la Corte distrettuale evidenziava
tutti gli elementi a suo carico, emergenti dalla sentenza di primo grado, ai quali
dovevano aggiungersi i toni usati nella querela particolarmente assertivi ed
enfatizzanti del comportamento della De Pascalis, la predisposizione di una
missiva ad opera del Negro, quando, secondo le regole di esperienza e della
logica, avrebbe questi dovuto, prima di formalizzare le accuse nei confronti della
donna, almeno per la loro gravità riferirle a voce al Polimeno.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il difensore
dell’imputato, affidando le sue doglianze a quattro motivi di annullamento, e
segnatamente:
— l’erronea applicazione della legge processuale penale (art. 606, comma 1,
lett. c cod. proc. pen.), in quanto la parte lesa era stata ascoltata come teste
assistito, nonostante la pendenza di un procedimento a suo carico;

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I Giudici di merito avevano ritenuto provata la falsità delle accuse mosse alla

— l’erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione (art. 606,
comma 1, lett. b ed e cod. proc. pen.), per aver fondato l’attribuzione
all’imputato della responsabilità penale sulla base di mere congetture;
— la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione
dell’istruttoria probatoria (art. 606, comma 1, lett e cod. proc. pen.), in ordine
alla deposizione di Chiara Palumbo, teste indicato nella lista testi, ma la cui
decisività sarebbe emersa solo in grado di appello;
— il vizio della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e cod. proc. pen.), in
quanto la sentenza impugnata avrebbe fatto integrale rinvio alla motivazione

della sentenza di primo grado ed utilizzato illogiche asserzioni, per dimostrare la
consapevolezza della condotta illecita dell’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.

Il ricorso è inammissibile, in quanto tardivo.

Come risulta anche dalle attestazioni di cancelleria, riportate in calce alla
sentenza impugnata, il ricorso è stato proposto il 25 giugno 2015, ovvero oltre il
termine di trenta giorni previsto dall’art. 585, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.,
decorrente, nella specie, dal giorno in cui sono state effettuate le notificazioni
previste dall’art. 548 cod. proc. pen. (6 maggio 2015 ai difensori; 7 maggio 2015
all’imputato Polinneno).

2. In ogni caso, il ricorso è manifestamente infondato.
2. 1. Il primo motivo è infatti privo di pregio giuridico e manifestamente
infondato.
Va rammentato che, al fine di verificare l’effettivo status del dichiarante e
per potere applicare la norma di cui all’art. 210 cod. proc. pen., il giudice deve
essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a
testimoniare o di incompatibilità, le quali, quindi, se non risultano dagli atti
inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte
esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona imputata o
indagata in un procedimento connesso o collegato (tra tante, Sez. U, n. 15208
del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584).
Nel caso di specie, tale status non risultava al momento dell’audizione della
De Pascalis, né il ricorrente ha contrastato tale assunto.
Quanto all’utilizzabilità della testimonianza di costei, ascoltata a norma
dell’art. 197-bis cod. proc. pen., il ricorrente dimentica che non solo le
dichiarazioni ex art. 210 cod. proc. pen. ma anche quelle del testimone assistito

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necessitano, per essere utilizzate come prova, di riscontri esterni autonomi (tra
tante, Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, Rv. 252325).
Riscontri nella specie, ampiamente evidenziati dalle sentenze di merito.
2.2. Il secondo ed il quarto motivo sono palesemente infondati.
La sentenza impugnata ha fondato la prova della responsabilità dell’imputato su
un ragionamento adeguato e privo di illogicità.
E’

ius receptum

che, quando le sentenze di primo e secondo grado

concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a

appello può integrarsi con quella precedente per formare un unico corpo
argonnentativo, sicché risulta possibile, sulla base della motivazione della
sentenza di primo grado, colmare eventuali lacune della sentenza di appello (tra
molte, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).
La Corte, nel condividere il ragionamento probatorio del primo giudice, ha
invero richiamato i plurimi elementi fattuali e logici esposti nella sentenza del
Tribunale, tutti convergenti nella dimostrazione della partecipazione dolosa
dell’imputato nella falsa attribuzione alla De Pascalis dei fatti delittuosi, ai quali
ha ritenuto di aggiungere ulteriori argomentazioni a sostegno della prova che
l’imputato non si sia limitato a formulare addebiti temerari.
La sentenza impugnata risulta essersi altresì fatta carico delle censure
avanzate con il gravame fornendo ad esse adeguata risposta.
2.3. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo,
Il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di
rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove
ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto,
evidenziando — come nella specie — la sussistenza di elementi sufficienti ad
affermare o negare la responsabilità del reo

(ex pluris, Sez. 6, n. 11907 del

13/12/2013 – dep. 2014, Coppola, Rv. 259893).

3. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc.
pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al
pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di
esonero, della somma ritenuta equa di euro 1.000.
Consegue, altresì, la condanna alla rifusione delle spese di rappresentanza e
difesa sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate nel dispositivo.

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fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro 1.000 in favore della Cassa delle
ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla
parte civile De Pascalis Anna Rita, spese che liquida in complessivi euro 2.000,
oltre spese generali nella misura del 15%, oltre IVA e CPA.

Così deciso il 11/12/2015.

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