Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8035 del 10/12/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 8035 Anno 2016
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: SCALIA LAURA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
1. Calabrò Rosario, nato a Reggio Calabria il 08/05/1961
2. Rando Antonino, nato a Messina il 11/09/1968

avverso la sentenza del 18/05/2012 della Corte di appello di Messina

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Laura Scalia;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Francesco Mauro Iacoviello, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
udito il difensore di Rosario Calabrò, avv. Salvatore Stroscio, che ha concluso
insistendo nell’accoglimento dei motivi;
udito il difensore di Antonino Rando, avv. Salvatore Silvestro, che ha concluso
riportandosi al ricorso e alla memoria.

RITENUTO IN FATTO

1. Rosario Calabrò e Antonino Rando sono stati condannati alla pena di
giustizia dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina,

Data Udienza: 10/12/2015

all’esito di giudizio abbreviato, per essersi associati tra loro e con terzi,
giudicati separatamente, al fine di commettere una serie indeterminata di
truffe — aggravate dal numero dei concorrenti e dall’abuso dell’ufficio
rivestito — ai danni di compagnie di assicurazione nonché di estorsioni, falsi,
materiali ed ideologici, ed usure (artt. 61 n. 11, 70, 118, 416, commi primo,
secondo, terzo e quinto comma, cod. pen.).
Il Giudice ha ritenuto l’esistenza in capo agli imputati di una qualificata
partecipazione ad un sistema finalizzato al conseguimento di illeciti profitti

cui si accompagnava la presentazione ad opera dei danneggiati di false
constatazioni amichevoli di sinistri, falsa documentazione medica, preventivi
di comodo e, ancora, l’opera di falsi testimoni.
L’intera organizzazione faceva capo all’avvocato Nunzio Venuti,
soggetto giudicato separatamente, che curava i rapporti con gli avvocati ed i
periti assicurativi, reclutava falsi testimoni e provvedeva ad incassare gli
assegni emessi dalle compagnie di assicurazione per gli indennizzi,
provvedendo a ripartire gli utili tra gli associati.
In siffatta organizzazione, che si sosteneva per l’applicazione di metodo
estorsivo da parte di taluni associati ai danni di altri, già sottoposti ad usura,
l’apporto dei prevenuti consisteva:
– quanto al Calabrò, direttore di agenzia della Banca Popolare di Lodi,
nel consentire al Venuti di incassare gli assegni intestati dalle compagnie di
assicurazione ai vari danneggiati;
– quanto al Rando, avvocato, nell’istruire le pratiche di sinistro stradale
con la minaccia di intentare azioni giudiziarie, sostenute da falsi testi e falsa
documentazione medica.
All’indicata pronuncia di colpevolezza, nell’intervenuta costituzione
quali parti civili delle compagnie di assicurazione, è seguita la condanna
generica dei prevenuti, in solido, al risarcimento dei danni ed alla rifusione
delle spese dalle parti civili sostenute.

2. In seguito ad appello degli imputati ed in parziale riforma della
pronuncia di primo grado, la Corte territoriale di Messina, decidendo
sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi civili (art. 578
cod. proc. pen.), che ha confermato, ha dichiarato non doversi procedere
nei confronti dei prevenuti in relazione ai reati loro ascritti perché estinti per
prescrizione, maturata dopo la pronuncia di primo grado.

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che registrava la denuncia di falsi sinistri stradali da parte degli assicurati a

3. Avverso l’indicata sentenza propongono ricorso per cassazione gli
imputati Calabrò e Rando, per i motivi di seguito riportati (art. 173, comma
1, Att. cod. proc. pen.).

4. Il ricorrente Calabrò affida il proposto mezzo a quattro motivi di
ricorso.
4.1. Con il primo motivo, l’imputato fa valere vizi di motivazione per
carenza, manifesta illogicità e contraddittorietà, nella parte in cui i Giudici di

grado, si accompagnasse una implicita rinuncia alla inutilizzabilità delle
intercettazioni di conversazioni telefoniche che, sommariamente trascritte
nei brogliacci dai verbalizzanti, erano state poste, come tali, a sostegno
della raggiunta affermazione di responsabilità (artt. 606, comma 1, lett. e)
cod. proc. pen. in relazione agli artt. 268, 271 e 438 cod. proc. pen.).
Il ricorrente deduce di non aver potuto procedere, per mancanza della
necessaria strumentazione, pur essendo stato ammesso alla relativa prova
tecnica dal Gup prima della celebrazione dell’udienza preliminare, alla
decodifica di un file audio (relativo al RIT 25/04) contenente l’intercettazione
di una telefonata, oggetto di accusa, intercorsa tra il Calabrò e Nunzio
Venuti.
Gli esiti negativi della prova, tentata nel contraddittorio tra il consulente
tecnico dell’imputato ed il perito nominato, avrebbero incrinato in modo
irrimediabile l’utilizzazione, invece operata dai Giudici di merito, dei
brogliacci trascritti.
Il ricorrente ha pertanto denunciato l’inesistenza dei contenuti della
richiamata intercettazione per impossibilità della sua decriptazione e, per
l’effetto, della prova stessa.
4.2. Con il secondo motivo, il prevenuto lamenta violazione della legge
processuale in cui è incorsa la Corte di appello per non aver fatto buon
governo delle norma di disciplina della prova e del regime di assunzione ed
utilizzabilità delle intercettazioni (art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc.
pen., in relazione agli artt. 179, 191, 266, 267, 268 e 271 cod. proc. pen.).
Il ricorrente, richiamando giurisprudenza di legittimità (sentenza SU n.
16 del 2000) e costituzionale (sentenza Corte costituzionale n. 336 del 2008
di declaratoria di illegittimità dell’art. 268 cod. proc. pen.), ha dedotto
l’inutilizzabilità del brogliaccio relativo alla conversazione telefonica oggetto
della mancata decriptazione.

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merito hanno ritenuto che alla scelta del rito abbreviato, effettuata in primo

Si tratta invero di atto probatorio assunto contra legem e, come tale,
affetto da nullità assoluta, il cui impiego è vietato in dibattimento e in
qualunque altra fase del procedimento.
Per l’indicata fattispecie, la prova sarebbe consistita infatti nel solo
supporto magnetico, verificato come inutilizzabile, e non dalla sua
trascrizione in forma sintetica nel brogliaccio che avrebbe assolto al ruolo di
mero strumento destinato a rendere consultabile la prova stessa.
4.3. Con il terzo motivo, il Calabrò denuncia l’impugnata sentenza per

l’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche in rapporto al giudicato (art.
606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 268, 271 e 649
cod. proc. pen.).
Le conversazioni intercettate, configuranti il medesimo fatto storico
significante, erano state dichiarate inutilizzabili dal Tribunale e dalla Corte di
appello di Messina nei processi celebrati con il rito ordinario nei confronti
degli altri imputati che, per siffatto giudizio di inutilizzabilità, erano stati
assolti.
I due diversi epiloghi processuali, l’uno di condanna, per giudizio
abbreviato e gli altri di assoluzione, in giudizi segnati dall’applicazione del
rito ordinario, determinano, deduce la difesa, l’ingiustizia della condanna
così come espressa nella disciplina stessa della revisione diretta a dirimere il
contrasto sui fatti giudicati (art. 630 cod. pen.).
4.4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia l’impugnata sentenza
per violazione della legge penale (art. 606, comma 1, cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 1 e 416 cod. pen.) dovuta a lesione del principio di
tassatività nella individuazione delle condotte di compartecipazione.
La Corte territoriale ha ritenuto in capo all’imputato un concorso morale
nel contestato reato associativo, in mancanza di una accertata condotta di
compartecipazione tipica rispetto ai “reati fine”.
Contesta quindi il ricorrente i contenuti della telefonata intercorsa tra il
Calabrò ed il coimputato Venuti, telefonata non decriptata ed affidata alle
trascrizioni dei brogliacci redatti dalla p.g.
La decriptazione del file audio per positivo svolgimento dell’indagine
tecnica, secondo richiesta avanzata dalla difesa al Gup prima di ogni accesso
al giudizio abbreviato, avrebbe consentito di apprezzare quei medesimi
contenuti quale mero tentativo del Calabrò, direttore di un’agenzia bancaria,
di indurre il coimputato ad investire una parte delle sue risorse in titoli
azionari nell’interesse dell’istituto di credito di cui era direttore.

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violazione di legge processuale relativamente alle norme disciplinanti

In ogni caso, la Corte di appello non avrebbe, errando, valorizzato in
favore dell’imputato la segnalazione, da questi effettuata come operazione
sospetta, dell’enorme movimentazione di denaro operata dal Venuti sul
proprio conto bancario.
Medesima errata valutazione sarebbe poi stata resa quanto alle
dichiarazioni del teste Forino, cassiere della banca, sulla regolarità delle
operazioni compiute presso l’agenzia del Calabrà dal Venuti.
Quest’ultimo si sarebbe limitato a versare sul proprio conto corrente

danneggiati — esibendo documenti di riconoscimento dei beneficiari dei
sinistri stradali.
La Corte, nel pervenire al contestato giudizio sulla partecipazione del
prevenuto al “reato fine” di falso, non si sarebbe fatta carico, a fronte delle
ampie produzioni curate dal ricorrente, che ne avrebbero consentito
l’identificazione, di citare lei stessa (art. 603 cod. proc. pen.) le pretese
vittime delle falsificazioni imputate al Venuti ed al prevenuto.

5. Antonino Rando articola tre motivi di ricorso.
5.1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione di norma
processuale stabilita a pena di nullità (606, comma 1, lett. c) cod. proc.
pen., in relazione agli artt. 268, 271, comma 1, 438, comma 5, 191 e 526
cod. proc. pen.).
Reiterando le censure proposte dal ricorrente Rando, egli deduce come
il giudice dell’udienza preliminare, all’esito del giudizio abbreviato, abbia
posto a fondamento del formulato giudizio di colpevolezza il brogliaccio di
una intercettazione telefonica, non destinato ad assumere dignità di prova.
L’inutilizzabilità patologica, per difformità rispetto al modello legale, che
conseguirebbe all’acquisizione della prova assunta nel mancato rispetto delle
garanzie previste dal codice di rito a presidio del diritto di difesa
dell’imputato, non sarebbe stata peraltro neutralizzata dalla scelta negoziale
del rito.
La scelta avrebbe infatti sottratto rilevanza a mere inutilizzabilità
fisiologiche, espressione di irrituali acquisizioni.
Inoltre, gli esiti investigativi costituiti dalle intercettazioni non sarebbero
stati in ogni caso utilizzabili (art. 271 cod. proc. pen.) perché risultato del
ricorso ad impianti esterni agli ambienti della Procura, in difetto del
prescritto decreto autorizzativo del pubblico ministero, motivato quanto agli
estremi delle eccezionali ragioni di urgenza e della insufficienza ed inidoneità

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assegni non trasferibili — i titoli intestati dalle assicurazioni ai pretesi falsi

degli impianti in uso (art. 268, comma 3, cod. proc. pen.). Estremi, questi
ultimi, non suscettibili di una stima effettuata ex post dal Giudice.
5.2. Con il secondo motivo, la difesa del Rando denuncia vizio di
motivazione (art. 606, comma 1, lett. b) rectius lett. e) cod. proc. pen., in
relazione agli artt. 192, comma 2, 533 cod. proc. pen. e 416 cod. pen.) per
avere la Corte di appello mancato al compito di saggiare la tenuta logicoargomentativa della sentenza di primo grado.
I Giudici dell’impugnata sentenza non avrebbero apprezzato della prova

inoltrate dal Venuti, ristretto in carcere, all’avvocato Rando) gravità,
precisione e concordanza, così mancando ad una affermazione di
responsabilità sostenuta oltre ogni ragionevole dubbio rispetto ad alternative
ricostruzioni prospettate dalla difesa.
Evidenzia il ricorrente come, solo pochi mesi prima dell’adottata
condanna, lo stesso giudice per le indagini preliminari avesse prosciolto altri
avvocati, ai quali era stato pure contestato di far parte dell’ associazione a
delinquere facente capo al Venuti.
Nella non univocità del dato probatorio (così per le missive inoltrate dal
Venuti, ristretto in carcere, all’avvocato Rando), quel Giudice aveva escluso,
in ragione del medesimo materiale indiziario, la consapevolezza dei legali ivi
giudicati di apportare un contributo all’associazione criminale.
Deduce ancora il prevenuto come i Giudici di merito abbiano omesso di
esaminare la sussistenza in capo al Rando del dolo specifico di
partecipazione al contestato reato associativo.
Si sarebbe trattato invero di un accertamento dotato di peculiare rilievo,
risultando tutti gli altri coimputati della contestata associazione ormai
prosciolti o assolti.
5.3. Con il terzo motivo di ricorso, l’imputato denuncia la violazione di
legge in cui la Corte territoriale è incorsa (art. 606, comma 1, lett. b) in
relazione all’art. 32 ter cod. pen.) per aver applicato la sanzione accessoria
dell’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione pur in presenza
di una declaratoria di improcedibilità dell’azione per decorso del termine di
prescrizione, senza peraltro provvedere a fissare di detta sanzione il termine
di durata.

6. Con memoria difensiva depositata il 9 dicembre 2015, entrambi gli
imputati hanno dedotto come per sentenze del Tribunale di Messina del 14
novembre 2012 e del 7 novembre 2008, quest’ultima confermata in appello
dalla Corte territoriale di Messina il 16 ottobre 2013, tutti i necessari

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indiziaria posta a sostegno dell’affermazione di responsabilità (missive

partecipanti del reato associativo siano stati assolti con la formula perché il
fatto non sussiste.
Per siffatti contenuti assolutori, relativi a giudizi di cui il presente
costituisce uno stralcio, le difese hanno quindi segnalato il venir meno del
«numero legale della fattispecie associativa oggetto di esplorazione
processuale».
Da qui il sollecitato annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza,
nella peraltro dedotta illegittimità di ogni prospettato ricorso allo strumento

cod. proc. pen.), risultando quest’ultimo, nella specie, in contrasto con il
principio di economia processuale e della ragionevole durata del processo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Per gli introdotti motivi, i prevenuti impugnano le disposizioni ed i
capi civili di una sentenza di non luogo a procedere pronunciata nei loro
confronti, in grado di appello, per maturata prescrizione dei reati loro ascritti
(artt. 129, comma 1, 574, comma 1, 578 cod. proc. pen.).
Nella indicata premessa di contenuto, i ricorsi proposti sono infondati.

2. I motivi articolati a sostegno della introdotta impugnativa si prestano
ad essere organizzati, nel loro esame, per individuazione negli stessi di tre
ordini di censure.
Il primo, di squisita indole procedurale, relativo ai terni della formazione
e del contenuto del giudicato; il secondo connesso al tema della prova ed ai
metodi di formazione della stessa; il terzo afferente al merito della vicenda
laddove per lo stesso si sollecitano rivalutazioni della motivazione spesa dai
Giudici di merito di cui si censurano carenze, contraddittorietà e manifeste
illogicità.

3. Per il primo ordine di doglianze, i prevenuti denunciando l’illegittimità
dell’impugnata sentenza nella parte in cui la stessa ha ritenuto in capo a
Rosario Calabrò ed Antonino Rando condotte integrative del contestato reato
associativo di cui all’art. 416 cod. pen.
I ricorrenti segnalano come in esito alle assoluzioni pronunciate, per
adozione della formula “il fatto non sussiste” (capo n. 2 dell’imputazione), in
distinti giudizi — celebrati quanto ai restanti partecipanti dell’ascritta
fattispecie criminosa, secondo il rito ordinario e di cui il presente costituisce
“stralcio” determinato dalla scelta processuale dell’abbreviato effettuata

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della revisione per inconciliabilità tra giudicati (art. 630, comma 1, lett. a)

dagli imputati — verrebbe a mancare il presupposto strutturale del
contestato reato, ovverosia la partecipazione allo stesso di almeno tre
persone.
A conforto della deduzione sono state prodotte, con la memoria del 9
dicembre 2015, la sentenza del Tribunale di Messina in data 14 novembre
2012, la sentenza del Tribunale di Messina del 7 novembre 2008 nonché
quella, confermativa di quest’ultima, della Corte di appello di Messina del 16
ottobre 2013.

Le sentenze prodotte, infatti, non danno conto della sopravvenuta
carenza del dato numerico strutturale della contestata associazione a
delinquere.
Le assoluzioni, per l’ampia formula ivi adottata diretta come tale
all’esclusione del fatto contestato, non coprono invero le posizioni di tutti
coloro che, giudicati separatamente rispetto agli odierni ricorrenti, entravano
a comporre, secondo originaria imputazione, il quadro associativo
finalizzato al compimento dei vari reati di truffa, falso, estorsione (capo n.
2)
Da una lettura della documentazione versata in atti in una alla indicata
memoria difensiva, restano invero escluse, dalle indicate pronunce
assolutorie, le posizioni di Vadalà, Mondello, Perrelli, Gravagno, indicati quali
concorrenti nel capo di imputazione formulato ai danni dei prevenuti Celebrò
e Rando.
Peraltro, sempre dalle prodotte sentenze, risulta la partecipazione alla
contestata associazione a delinquere di ulteriori concorrenti (tali le posizioni
di Cardia, Di Blasi, Chiofolo, Doddis, De Petro, Giancotti, Ricciardi) non
raggiunti dall’esito assolutorio indicato.
La natura del contestato fenomeno associativo, che si articola secondo
plurima struttura soggettiva, sottrae di certo, e quanto meno, evidenza alla
deduzione difensiva.
Nella generale premessa che l’interesse dell’imputato ad impugnare nel
caso in cui sia pronunciata sentenza di non doversi procedere per
prescrizione, ai sensi dell’ art. 129, comma 1, cod. proc. pen., sussista
allorché dalla modifica del provvedimento impugnato possa venire
l’eliminazione di un qualsiasi effetto pregiudizievole per il primo.
Che l’interesse debba valere anche rispetto alle conseguenze
extrapenali più favorevoli che derivino all’imputato dall’efficacia del giudicato
delle sentenze di condanna o di assoluzione nel giudizio di danno o altri
giudizi civili (Sez. 5, n. 24300 del 19/03/2015, Migliaccio, Rv. 263907).
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Il motivo è infondato.

Resta pur fermo che, quando l’impugnazione sia affidata ad una
deduzione difensiva, diretta come tale a sollecitare poteri di controllo e
verifica in sede di legittimità — tanto valga per la materia del giudicato e
delle ripercussioni che questo, formatosi in distinti giudizi, possa comunque
avere sul giudizio pendente dinanzi alla Corte —, la stessa deve porsi, nei
voluti esiti, come evidente ed univoca.
La partecipazione al contestato reato associativo, nella insensibilità del
giudicato esterno assolutorio ad incidere sulla struttura plurisoggettiva del

4. Per il secondo ordine di censure, i ricorrenti lamentano l’intervenuta
integrazione in loro danno di una nullità di ordine generale, nullità violativa,
in modo rilevante, del diritto difesa.
I Giudici dell’impugnata sentenza avrebbero infatti accertato l’esistenza
del fatto-reato, l’associazione di cui all’art. 416 cod. pen., sulla base di
prove inutilizzabili, pervenendo in tal modo ad una declaratoria di estinzione
del reato (art. 129, comma 1, cod. proc. pen.), invece che alla dovuta
assoluzione nel merito (art. 129, comma 2, cod. proc. pen.).
Duplice, anche per quest’ultimo profilo, la prospettiva impugnatoria.
Da una parte infatti, sì denuncia dai ricorrenti come il Tribunale e la
Corte di appello di Messina siano giunti al censurato convincimento in
ragione di brogliacci, formati dalla p.g. procedente, i cui contenuti di mero
compendio di esiti intercettativi non rivestirebbero, come tali, dignità di
prova.
Consistendo invero quest’ultima nel supporto informatico

(Compact

Disk) comprensivo degli esiti captativi, nella sopraggiunta impossibilità

tecnica di decifrazione di questi ultimi, i brogliacci non avrebbenotuto
essere utilizzati al fine di giungere alla declaratoria di prescrizione secondo
quella connotazione di “immediatezza”, di cui all’art. 129, comma 1, cod.
proc. pen.
Piuttosto, l’evidenza del fatto assolutorio conseguente alla inutilizzabilità
della prova avrebbe dovuto condurre i medesimi Giudici di appello, secondo
corretta applicazione delle norme di governo, e prima ancora di formazione
della prova, all’adozione di formula assolutoria di merito (art. 129, comma
2, cod. proc. pen.), anche ai fini delle residue statuizioni civili.
Il motivo è infondato.
Per costante indirizzo di legittimità, in sede di giudizio abbreviato, qual
è quello all’interno dei quale sono state adottate in primo grado le statuizioni
di condanna dei prevenuti, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie
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reato, rimane pertanto quella accertata nell’impugnata sentenza.

compiute dalla polizia giudiziaria sul contenuto delle conversazioni
telefoniche intercettate.
Sono infatti utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che sono stati
legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero (Sez. 4, n.
35535 del 14/05/2015, Chafi; Sez. 5, n. 20055 del 26/03/2013 Nocella;
Sez. 6, n. 16823 del 24/03/2010, Haj) e nessun obbligo gravava sui giudici
di merito di procedere a perizia trascrittiva ai sensi dell’art. 268 cod. proc.
pen.

dei brogliacci sarebbe inficiata dal tentativo, negativamente definito, di
estrarre dal supporto informatico che lo conteneva, il file audio dell’
intercettazione i cui contenuti sono stati posti a fondamento del giudizio di
responsabilità del prevenuto, è stato, con motivazione non manifestamente
illogica, e come tale non scrutinabile in questa sede, disatteso dalla Corte
territoriale.
Quest’ultima rileva invero come non dubitando il ricorrente della realtà
della intercettazione, la successiva non trascrizione, per i problemi tecnici
registrati dal tentativo operato dalla difesa, non elida la portata probatoria
dei brogliacci.
Ogni ulteriore profilo di censura, superato quello diretto a denunciare
l’invalidità del mezzo di prova, è destinato a sconfinare in un sindacato sulla
motivazione e per esso in un vizio di motivazione.
L’estrazione della conversazione ad opera della difesa sarebbe valsa
infatti, in ragione di eventualmente diversi e verificati esiti intercettativi, ad
orientare diversamente il giudizio (lasciando così residuare un diverso
possibile sindacato, quello sulla motivazione, sul quale più oltre si dirà
esaminando le ulteriori censure dei ricorrenti), fornendo altro materiale
probatorio da sottoporre alla valutazione del giudice.
Ma siffatti esiti non valgono a rendere il supporto informatico
inutilizzabile quanto ai raggiunti esiti e a sanzionare di nullità insanabile il
contenuto del brogliaccio.
Le integrazioni probatorie, alle quali il giudizio abbreviato può aprirsi,
valgono infatti ad ampliare la platea cognitiva del Giudice offrendo altri
elementi di formazione della decisione, ma non ad invalidare, come
sostanzialmente rilevato dalla Corte di appello, il materiale presente in atti
che, per la scelta del rito, deve poter essere liberamente valutabile dal
decidente.

10

L’argomento svolto dalla difesa del Calabrò per il quale, l’utilizzabilità

4.

L’ulteriore profilo dei proposti motivi di ricorso, unitariamente

riconducibile al tema della inutilizzabilità della prova (artt. 606, comma 1,
lett. c) in relazione all’art. 191 cod. proc. pen.), per il quale la difesa
denuncia l’ illegittimità delle intercettazioni in quanto disposte per uso di
impianti esterni alla Procura in difetto di decreti motivati dell’ufficio
procedente (art. 268, comma 3, cod. proc. pen.), è del pari infondato.
La Corte di appello argomenta sul punto, per relationem, giusta
richiamo alla motivazione adottata dal Gup, nella identità delle censure in

esaminate e correttamente risolte dal primo giudice (Sez. 6, n. 17912 del
07/03/2013, Adduci).
La motivazione non manifestamente illogica, e quindi non sindacabile in
questa sede, muove da una valutazione di adeguatezza della ragioni
contenute nel provvedimento autorizzatorio che nella sua stringatezza — il
primo dà conto che non vi è alcuna disponibilità di punti di ascolto presso la
Procura — consente comunque di individuare le giustificazioni all’uso in
esterno degli impianti per corretta adesione ai principi affermati dalla Corte.
La segnalazione, contenuta nel decreto, che non vi fosse “Nessuna”
disponibilità di punti di ascolto presso la Procura dà soddisfazione ai requisiti
di norma e non richiede l’indicazione delle cause, rilevando ai fini della
motivazione la situazione obiettiva come univocamente ricostruibile dalla
prima.

5. Infondati sono ancora i motivi di ricorso per i quali si censura
l’impugnata sentenza, per essere la stessa incorsa in un sostanziale cattivo
governo degli esiti delle prove assunte.
Va esclusa fondatezza alla censura portata dal Calabrò alla sentenza
nella parte in cui i Giudici di appello hanno ritenuto l’integrazione di una
condotta partecipativa del prevenuto al contestato reato associativo, pur in
difetto di prova relativamente al compimento dei “reati fine”.
L’autonomia del primo reato rispetto ai secondi depone
inequivocamente per la correttezza del formulato giudizio (Sez. 3, n. 40749
del 05/03/2015, Sabella) di cui non segnalano quindi distonie logiche.
Per il resto, l’impugnata sentenza offre motivazione non
manifestamente illogica laddove esamina gli esiti probatori del processo e
fornisce degli stessi una lettura che sostiene la partecipazione di entrambi i
prevenuti all’associazione loro contestata.
In siffatto contesto i motivi proposti non riescono a delineare una
interpretazione del dato probatorio destinata a consentire alternative e
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diritto dinanzi alla stessa proposte e già espressamente ed adeguatamente

contrapposte letture, dirette, come tali, ad infirmare la tenuta del giudizio di
colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
La reiterazione allora in sede di legittimità dei medesimi motivi, non
accompagnati da congrue contestazioni destinate ad individuare del tessuto
argomentativo della Corte territoriale cadute e interruzioni logiche, riporta
inammissibilmente nel giudizio di legittimità questioni di fatto
compiutamente valutate nella fase di merito.
Con un articolato richiamo alle emergenze processuali, tra le quali

Calabrò all’interno dell’agenzia e sul connesso regime di conoscenza ed
autorizzazione delle rilevanti operazioni effettuate dal Venuti, in una alla
svalutazione delle emergenze invece sottolineate dalla difesa (così per la
segnalazione delle operazioni sospette effettuata dal Calabrò quanto
all’enorme movimentazione di denaro registrata sul conto del Venuti, di cui
la Corte, congruamente, segnala il ritardo e la coesistenza al perdurare del
rapporto del Calabrò con il Venuti), i Giudici dell’appello fanno buon governo
degli esiti di prova, rispettando, nell’osservato percorso ricostruttivo del
fatto, un discorso logico non segnato da manifeste illogicità.
Medesime valutazioni risultano condotte dai Giudici di appello quanto
alla posizione dell’altro imputato, Antonino Rando, di cui primi,
compiutamente delineando il ruolo nei rapporti con il Venuti, fissano,
rispetto all’associazione, conoscenza, condivisione di metodi e finalità
dell’operato.
Anche il tema, in questa sede riproposto, del diverso trattamento
riservato in primo grado dal Gup ad altri legali inizialmente coinvolti nella
contestata associazione riceve, ad opera della Corte territoriale, una risposta
congrua.
Diverse sono per ciascun imputato le risultanze investigative, dovendo
poi, in ogni caso, la Corte di merito decidere su quanto positivamente
sottoposto alla sua attenzione e non su quanto risulti estraneo al descritto
ambito di decisione.
Si tratta di argomento in alcun modo sconfinante nella manifesta
illogicità e come tale sottratto ad ogni sindacato da condursi in questa fase
del giudizio.

6. L’ulteriore motivo articolato dal ricorrente Rando, per il quale la
sentenza della Corte di appello sarebbe affetta da invalidità per violazione di
legge sostanziale nella parte in cui, pur dichiarando estinto il reato per
prescrizione, la stessa non avrebbe provveduto a caducare la pena
12

figurano racconti testimoniali, congrue valutazioni sul ruolo rivestito dal

accessoria, irrogata in primo grado, dell’incapacità di contrarre con la
pubblica amministrazione, è manifestamente infondato.
Le pene accessorie conseguono infatti, di diritto, alla sentenza di
condanna come effetti penali della stessa (art. 20 cod. pen.), con la
conseguenza che non possono essere mantenute in caso di proscioglimento
dell’imputato, anche se pronunciato a seguito di estinzione del reato per
prescrizione (Sez. 6, n. 18256 del 25/02/2015, Zelli, Rv. 263280).
La Corte territoriale, attenendosi a siffatto principio, ha dichiarato

7. In via conclusiva, i ricorsi proposti sono infondati e come tali vanno
rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso in Roma, il 10/12/2015

Il Consigliere estensore

I Presidente

estinto il reato, in tal modo facendo venir meno la pena accessoria.

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