Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8031 del 25/11/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 8031 Anno 2016
Presidente: MILO NICOLA
Relatore: BASSI ALESSANDRA

RITENUTO IN FATTO
1.

Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Lecce ha

confermato la sentenza del 21 ottobre 2013, con la quale il Tribunale di Brindisi
ha condannato Malerba Antonio per il delitto di cui agli artt. 81 cpv e 73 d.P.R.
n. 309/1990, per aver detenuto e ceduto a Carluccio Salvatore diversi
quantitativi di cocaina, dal 28 novembre al 17 dicembre 2003.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’Avv. Cinzia Cavallo, difensore
di fiducia di Malerba Antonio, e ne ha chiesto l’annullamento per í seguenti
motivi:
2.1. vizio di motivazione in relazione all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, per
avere la Corte d’appello confermato la sentenza limitandosi a richiamare in
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Data Udienza: 25/11/2015

termini del tutto generici, per relationem, la motivazione del provvedimento
appellato;

2.2. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 73
d.P.R. n. 309/1990, per avere la Corte omesso di esplicitare le ragioni per le
quali non abbia riconosciuto l’ipotesi lieve, essendo la fattispecie in oggetto
ravvisabile anche in caso di attività di spaccio non occasionale, là dove si tratta
di un modesto giro d’affari e di quantità di sostanza in concreto non accertate,
ma evinte dal tenore delle intercettazioni connotate dall’uso di un linguaggio
criptico;

riconoscimento dell’invocato vincolo di continuazione con i fatti già giudicati dal
Gup presso il Tribunale di Lecce con la sentenza irrevocabile del 14 marzo 2005,
trattandosi di fatti commessi a distanza di un solo anno ed ispirati da un
medesimo disegno criminoso.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
2.

Manifestamente infondato è il primo motivo, col quale il ricorrente

censura l’apparato argonnentativo della sentenza della Corte territoriale, in
quanto costituente mera replica della motivazione della decisione di primo grado.

2.1. Giova rammentare come, secondo il costante insegnamento di questa
Corte regolatrice, nel nostro sistema processuale, la cd. motivazione

per

relationem possa considerarsi legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio
o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione
risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento
di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione
del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le
abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l’atto di riferimento,
quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia
conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui
si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed,
eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della
valutazione o dell’impugnazione (Cass. Sez. U, 21/06/ 2000, Primavera, Rv.
216664).
D’altra parte, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la
struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo
grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i
giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri
omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi
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2.3. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione al mancato

logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione
degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, n.
44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Siffatta integrazione tra le due
motivazioni si verifica non solo allorché i giudici di secondo grado abbiano
esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati
dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai
passaggi logico – giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione,
quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano
limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella

12/04/2012, Rv. 252615).
Sulla scorta dei principi sopra

esposti, la tecnica di redazione della

motivazione della sentenza d’appello mediante rinvio alla pronuncia di primo
grado non può, pertanto, ritenersi illegittima, a condizione che il decidente
dell’impugnazione non si sottragga, e dunque offra congrua risposta, alle
specifiche censure mosse nel ricorso e dia contezza del fatto di avere
criticamente vagliato e fatto proprie le argomentazioni del primo giudice, che
abbia richiamato.
2.2. A tale regula iuris si è perfettamente attenuto il Collegio di merito, là
dove ha richiamato la motivazione della sentenza del primo giudice ed ha dato
atto del tenore di alcune conversazioni captate – quelle su cui si erano incentrate
le censure dell’appellante -, dandone una autonoma e critica lettura ed
argomentando congruamente le conclusioni in punto di penale responsabilità da
esse evinte (v. pagine 3 e seguenti della sentenza in verifica).
2.3. Ad ogni modo, non v’è spazio in questa Sede per delibare le dedotte
questioni concernenti l’interpretazione degli scambi verbali intercettati, in quanto
esse si risolvono in una mirata rilettura delle emergenze probatorie ed, in effetti,
non prospettano nessuno dei vizi rilevanti ai sensi dell’art. 606 cod. pen. proc.,
sollecitando un sindacato non espletabile dalla Corte di legittimità, che si deve
limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per
verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu ocull percepibili,
senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni
processuali (ex plurimis Cass. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv.
226074).
E ciò a fronte di una sentenza connotata – si ribadisce – da un corredo
argomentativo congruo ed immune da vizi logico giuridici, là dove menziona in
modo puntuale le fonti di prova e gli elementi tratti da esse ed esplicita le ragioni
per le quali le proposizioni, pur espresse in un linguaggio cifrato, debbano

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decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep.

ritenersi sottintendere ad un’attività di narcotraffico, in linea con condivisibili
massime d’esperienza.
3. Palesemente destituita di fondamento è anche la seconda censura, con la
quale il ricorrente si duole del mancato riconoscimento dell’ipotesi lieve pur in
mancanza di un accertamento circa la quantità di sostanza trattata.
3.1.

Al riguardo giova rammentare come, secondo il consolidato

insegnamento di questa Corte, ai fini della concedibilità o del diniego della
circostanza attenuante del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto,
d.P.R. n. 309 del 1990 (diventata fattispecie autonoma di reato con L. n.

normativamente indicati, quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità
e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del
reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta
criminosa), dovendo conseguentemente escludere il riconoscimento
dell’attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad escludere che
la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità (Sez. 4, n. 6732 del
22/12/2011, P.G. in proc. Sabatino, Rv. 251942; Sez. 3, n. 23945 del
29/04/2015, Xhihani, Rv. 263651).
In altri termini, ferma la possibilità di ravvisare la lieve entità del fatto anche
in caso di attività di spaccio di stupefacenti non occasionale, detta fattispecie non
può ritenersi integrata quando, nonostante l’esiguità dei singoli quantitativi di
droga ceduti, le modalità e le circostanze del fatto impediscano di inquadrare la
condotta in termini di modesto disvalore.
3.2. Di tali principi ha fatto coerente e puntuale applicazione il Collegio
pugliese, allorchè – con motivazione immune da vizi logico giuridici – ha rilevato
come, sebbene l’entità ponderale della sostanza non sia mai stata
compiutamente accertata, nella specie non ricorrano le condizioni per ravvisare
l’ipotesi della lieve entità del fatto (oggi ipotesi autonoma di reato). Nelle pagine
6 e 7 della sentenza, la Corte ha posto in risalto come, nella specie, si tratti di
una reiterata e consolidata attività di detenzione a fini di spaccio e successiva
cessione di sostanza stupefacente del tipo cocaina, sviluppatasi per un arco
temporale di due mesi, posta in essere da parte di un soggetto già inserito da
tempo nell’ambiente del narcotraffico, con il coinvolgimento di altre persone,
comunque avente ad oggetto quantitativi non trascurabili, così come può
evincersi indirettamente dai relativi corrispettivi emersi nelle conversazioni (pari
a circa 1700 – 2000vper fornitura).
La valutazione espressa dal Giudice distrettuale sul punto poggia su
considerazioni conformi a logica ed ai consolidati principi di diritto in materia, là
dove gli elementi storico fattuali evidenziati – segnatamente la sistematicità e la
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79/2014), il giudice sia tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi

reiterazione nel tempo delle cessioni, la tempistica con cui avvenivano le cessioni
in un ambito temporale ravvicinato, il

modus operandi,

che vedeva il

coinvolgimento di altre persone, e l’entità dei quantitativi di sostanza trattati,
come desunti in termini indiretti dal corrispettivo pagato per ciascuna fornitura si appalesano dimostrativi di un agire teso a favorire la circolazione degli
stupefacenti e si pongono in evidente distonia rispetto alla ratio della lieve entità
del fatto, che – si ribadisce -, secondo l’insegnamento di questa Corte, si
giustifica in presenza di condotte di minor disvalore sociale, suscettibili di recare
una minima lesione o messa in pericolo del bene protetto dalla norma

sostanze droganti.
4. Infine, non è censurabile nella sede di legittimità l’ultima deduzione, con
la quale il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento della continuazione con i
fatti già coperti da giudicato.
Il motivo mira difatti a sollecitare una rivisitazione della valutazione in punto
di ravvisabilità degli estremi del vincolo di continuazione sulla scorta di
considerazioni di puro merito e dunque promuove uno scrutinio non operabile in
questa Sede, a fronte della linearità e della rispondenza a logica ed a diritto,
della motivazione svolta sul punto. Ed invero, come si legge a pagina 7 della
sentenza impugnata, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dei
presupposti della continuazione sul presupposto che le due condotte criminose,
oltre ad essere distanti nel tempo, riguardano forniture di stupefacente a
soggetti diversi, hanno ad oggetto una differente tipologia di stupefacente e sono
connotate da modalità operative eterogenee, trattandosi, nel caso già coperto da
giudicato, di un’attività svolta “in proprio” e non in un ambito organizzato, come
nel caso sub iudice. Nessun rilievo di ordine logico giuridico può essere mosso
alla motivazione sviluppata sul punto dal Collegio di merito, che con
considerazioni congrue – in quanto conformi a dati di comune esperienza ed al
dettato normativo dell’art. 81, comma 2, cod. pen. -, ha evidenziato circostanze
obbiettivamente dimostrative di una soluzione di continuità fra le due condotte e
dell’assenza di un’unitaria programmazione criminosa, imprescindibile ai fini
dell’invocato istituto.
5.

Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma

dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento
delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene
congruo determinare in 1.000,00 euro.

5

incriminatrice, che va riferito all’interesse sociale ad evitare ogni diffusione delle

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della Cassa delle
Ammende.

Così deciso in Roma il 25 novembre 2015

Il consigliere estensore

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