Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8027 del 13/11/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 8027 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: DE CRESCIENZO UGO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
PALERMO
nei confronti di:
PANZECA GIUSEPPE N. IL 18/11/1956
PUCCIO SALVATORE N. IL 08/07/1946
inoltre:
PANZECA GIUSEPPE N. IL 18/11/1956
avverso la sentenza n. 969/2012 CORTE APPELLO di PALERMO, del
22/10/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/11/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. UGO DE CRESCIENZO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

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Data Udienza: 13/11/2013

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Procuratore Generale denuncia:
§1.) vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale
(art. 606 I^ comma lett. B) ed E) cpp): la Corte territoriale
condannando il PANZECA Giuseppe per il delitto di cui all’art. 416
bis cp avrebbe erroneamente affermato che la condotta criminosa
sarebbe terminata in data 17.3.1995 in coincidenza con l’esecuzione
della misura cautelare personale relativa a questo procedimento,
ancorchè nel decreto di citazione a giudizio fosse indicato il tempus
commissi delicti con la formula “fino alla data odierna”, da intendersi
pertanto fino al 2.10.1997.
Il ricorrente richiama a tal proposito la giurisprudenza di questa Corte
[Cass. Sez. H 15.3.2012 n. 25311] rammentando che è principio
affermato che nel caso di reati associativi, la condotta criminosa cessa
solo con lo scioglimento del sodalizio criminale o per effetto di
condotte che denotino l’avvenuto recesso volontario che deve essere
accertato caso per caso attraverso l’individuazione di una condotta
esplicita, coerente ed univoca, che nella specie non si sarebbe
manifestata.
§2.) vizio di motivazione in ordine all’assoluzione di PUCCIO
Salvatore dal reato ascritto, fondata sulla ritenuta insufficienza delle
dichiarazioni del collaboratore GIUFFRE’, perché assertivamente
prive di riscontri individualizzanti. L’ufficio ricorrente lamenta che la
Corte territoriale a conforto delle dichiarazioni rese dal GIUFFE’ non
ha debitamente valutato che questi troverebbe riscontro nelle
affermazioni del VAIRA e, con riferimento a fatti successivi al 1994,
non ha valutato le dichiarazioni del BARBAGALLO secondo quanto
rassegnato nella memoria depositata dalla Procura Generale in sede di
formulazione delle conclusioni nel giudizio di appello.
La difesa dell’imputato PANZECA chiede l’annullamento della
decisione impugnata formulando, con due distinti ricorsi fra loro
sostanzialmente sovrapponibili, le seguenti censure:
§1.) ex art. 606 I^ comma lett. B), C) ed E) cpp, vizio di motivazione
e violazione degli artt. 110, 378, 416 bis cp, 125, 192 comma 3 e 4,
238 bis e 546 comma lett. E) cpp. La difesa sostiene che la Corte
territoriale, disattendendo i principi di diritto formulati dalla Corte di
Cassazione con la sentenza di rinvio del 10.10.2011 n. 1494, ha tratto

Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo ricorre
per cassazione avverso la sentenza 22.10.2012 con la quale la Corte
territoriale ha condannato PANZECA Giuseppe alla pena di anni sette
di reclusione per la violazione dell’art. 416 bis cp e ha assolto
PUCCIO Salvatore dal medesimo delitto “per non avere commesso il
fatto”.
Avverso la medesima decisione ricorre, tramite i difensori, anche il
PANZECA Giuseppe.

la prova della “partecipazione” dell’imputato all’associazione per
delinquere denominata “Cosa Nostra”, basandosi sulle dichiarazioni
del GIUFFRE’ [effettuando una valutazione parziale: ricorso avvio
MATTEI pag. 4] senza rinvenire i necessari riscontri [pag 10/11
Ricorso avv.to BONSIGNORE, non esistendo emergenze processuali
dalle quali ritenere provati i rapporti tra il PANZECA e i vari CALO’,
GAETA, MATTALIANO: ricorso avv.to MATTEI pag. 4].
Con particolare riferimento alla gestione della CALCESTRUZZI
TERMINI, la difesa sostiene che l’imputato ne è stato amministratore
solo per pochi mesi e che non gli è stata contestata alcuna ipotesi di
riciclaggio o di altra reato connesso alla gestione della società, così
ponendo in evidenza la contraddittorietà dell’affermazione del
GIUFFRE’ il quale avrebbe ammesso di non avere avuto alcun
contatto o rapporto con la prefata società [v. Pag. 3 ricorso avv.to
MATTEI]. La difesa censura la sentenza, perchè non sono indicate le
attività economiche e/o imprenditoriali che l’imputato avrebbe gestito
nell’interesse della consorteria mafiosa, tali da far ritenere completa e
perdurante e stabile la adesione del PANZECA a “Cosa Nostra”. [pag.
4 ricorso avv.to MATTEI]
La difesa [pag 13 ricorso BONSIGNORE] sostiene che il
collaboratore FACELLA Salvatore (in parte concordando quanto
affermato dallo stesso GIUFFRE”) ha affermato che l’imputato non
era organico a “Cosa Nostra” escludendo che lo stesso fosse uomo
d’onore, mettendo in evidenza una condotta dissipativa dei soldi del
proprio zio. Con riferimento alle dichiarazioni rese da LANZALACO
Salvatore, SIINO Angelo e LA CHIUSA Pietro, la difesa afferma che
il quadro delineato dai propalanti si pone in netto contrasto con quanto
ritenuto in sentenza: LANZALACO avrebbe definito il PANZECA
“piccolo imprenditore sottoposto al vincolo del pagamento del pizzo”
[ricorso dall’avv.to MATTEI: pag. 5], il SIINO ha smentito il
GIUFFRE’ affermando di non avere mai effettuato interventi per
aiutare l’aggiudicazione di appalti e il LA CHIUSA è stato smentito
attraverso produzioni documentali.
In ultimo la difesa lamenta che la sentenza della Corte territoriale
(quale giudice del rinvio) non rispondendo al contenuto degli atti di
appello e non adeguandosi al dictum della sentenza di rinvio della
Corte di cassazione non ha fornito indicazioni della concreta attività
associativa svolta dal PANZECA, al di là della circostanza di avere
prestato aiuto al GIUFFRE’ durante la sua latitanza.
§2.) ex art. 606 I^ comma lett. B) ed E) cpp la violazione dell’art. 416
bsi IV e VI comma cp. La difesa sostiene che la sentenza della Corte
palermitana è errata nel punto relativo al riconoscimento delle
circostanze aggravanti di cui al IV e al VI comma dell’art. 416 bis.
Sul punto la difesa rileva il vizio di totale carenza di motivazione della
sussistenza di circostanze aggravanti che sono state ritenute ai fini
della determinazione della pena irrogata.
§3.) ex art. 606 I^ comma lett. B), C) ed E) cpp, erronea applicazione
dell’art. 62 bis cp e vizio di motivazione con riferimento al negato

riconoscimento delle attenuanti generiche, in ordine alla quale viene
denunciata una carenza assoluta di motivazione.

L’imputato è stato sottoposto a giudizio penale con l’accusa di
violazione dell’art. 416 bis cp, “per fare parte dell’associazione
mafiosa Cosa Nostra, avvalendosi quindi della forza di intimidazione
del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed
omertà che ne deriva; per commettere delitti; per acquisire in modo
diretto o indiretto la gestione o, comunque il controllo di attività
economiche, di concessioni di autorizzazioni, di appalti e servizi
pubblici; per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per sé e gli altri
per impedire ed ostacolare il libero esercizio del voto e per procurare
voti ad altri in occasione di consultazioni elettorali; per tutti con
l’aggravate di cui ai commi IV e VI dello stesso articolo per fare parte
di una associazione armata, avendo essi stessi e gli altri aderenti la
medesima disponibilità di armi ed esplosivi per il conseguimento delle
finalità dell’associazione, e il prezzo e il prodotto o il profitto di
delitti.
In Palermo, Caccamo, Trabia, Termini Imerese, Cerda Sciara ed in
altre località nazionali ed estere fino alla data odierna (2.10.1997
data del decreto di rinvio a giudizio).
Dalla lettura della decisione impugnata si evince che il Tribunale di
Termini Imerese, con sentenza 21.7.2004 ha dichiarato l’imputato
(unitamente al PUCCIO Salvatore) colpevole del delitto di cui all’art.
416 bis cp. La Corte d’Appello di Palermo, successivamente adita dal
PANZECA e dal PUCCIO, con sentenza del 15.12.2008 riformava la
decisione di primo grado, riducendo la pena inflitta al primo ad anni
sette e mesi sei di reclusione, rigettando tutte le altre richieste.
La Corte di Cassazione, decidendo sul ricorso conseguentemente
proposto da entrambi gli imputati, con sentenza del 10.10.2011
annullava quella di appello, accogliendo i motivi di impugnazione in
punto affermazione della responsabilità, peraltro giudicando infondati
quelli riguardanti il “ne bis in idem”, il riconoscimento della
diminuente di cui all’art. 442 cpp e la sussistenza della circostanze
aggravanti. In particolare la Corte di Cassazione ha annullato la
decisione della Corte d’Appello con riferimento alla complessiva
valutazione degli elementi di prova a carico degli imputati alla luce
del dettato dell’art. 192 cpp, ponendo in rilievo i limiti della decisione
non sulla natura e la portata dello illecito contestato, quanto sulla
sufficienza e la coerenza delle fonti di prova valutate a carico degli
imputati.
La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza 22.10.2012,
riesaminando la vicenda ha confermato la dichiarazione di penale
responsabilità fino alla data del 17.3.1995 del PANZECA
condannandolo alla pena definitiva di anni sette di reclusione e ha

PREMESSA IN FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

assolto il PUCCIO dal reato ascritto con la formula “per non avere
commesso il fatto” a partire del 3.12.1992.

Vanno qui premesse alcune considerazioni in diritto al fine di
delimitare in modo preciso i confini del giudizio di legittimità.
Nel caso in esame entrambi i ricorrenti hanno sottoposto all’attenzione
di questo Collegio, questioni che rientrano sotto il più generale profilo
del vizio della motivazione ex art. 606 IA comma lett. e) cpp.
Sotto questo profilo il relativo sindacato del vizio della motivazione
non consiste nella sovrapposizione di una autonoma valutazione del
giudice di legittimità a quella compiuta dai giudici di merito; in tale
caso il compito del giudice di legittimità si conclude con
l’accertamento se in sede di merito siano stati esaminati tutti gli
elementi a disposizione, e se i giudici di merito abbiano fornito una
corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta
alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole
della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato
la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre [v. Cass. SU
13.12.1995 n. 930; Cass. Sez. VI 5.11.1996 n. 10751; Cass. Sez. I
6.6.1997 n. 7113; Cass. 10.2.1998 n. 803; Cass. Sez. 117.12.1998 n.
1507; Cass. Sez. VI 10.3.1999 n. 863].
Dall’affermazione di questo principio, ormai costante nel panorama
giurisprudenziale, discende che: esula dai poteri della Cassazione,
nell’ambito del controllo della motivazione del provvedimento
impugnato, la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, giacché tale
attività è riservata esclusivamente al giudice di merito, potendo
riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell'”iter”
argomentativo di tale giudice, accertando se quest’ultimo abbia o
meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno condotto
ad emettere la decisione [Cass. Sez. VI 14.4.1998 n. 1354];
La specificità della disposizione di cui all’art. 606 lett. e) c.p.p.
esclude inoltre che la norma possa essere dilatata per effetto di regole
processuali concernenti la motivazione stessa, utilizzando la diversa
ipotesi di cui alla lett. c) dell’art. 606 c.p.p; l’espediente non è
consentito: sia per i ristretti limiti nei quali la disposizione ora citata
prevede la deducibilità per cassazione delle violazioni di norme
processuali (considerate solo se stabilite “a pena di nullità, di
inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza”), sia perché la
puntuale indicazione contenuta nella lettera e), riferita al “testo del
provvedimento impugnato”, collega in via esclusiva e specifica al
limite predetto qualsiasi vizio motivazionale. Tantomeno può
costituire motivo di ricorso sotto il profilo dell’omessa motivazione il
mancato riferimento a dati probatori acquisiti. Se è vero che tale vizio
è ravvisabile non solo quando manca completamente la parte motiva
della sentenza, ma anche qualora non sia stato considerato un

RITENUTO IN DIRITTO

argomento fondamentale per la decisione espressamente sottoposto
all’analisi del giudice, il concetto di mancanza di motivazione non può
essere tanto esteso da includere ogni omissione concernente l’analisi di
determinati elementi probatori. Invero, un elemento probatorio
estrapolato dal contesto in cui esso si inserisce, non posto a raffronto
con il complesso probatorio, può acquisire un significato molto
superiore a quello che gli è attribuibile in una valutazione completa
del quadro delle prove acquisite. Ritenere il vizio di motivazione per
l’omessa menzione di un tale elemento nella sentenza comporterebbe
il rischio di annullamento di decisioni logiche, e ben correlate alla
sostanza degli elementi istruttori disponibili. Per ovviare ad un tale
rischio, la Corte di legittimità dovrebbe valutare la portata
dell’elemento additato dalla difesa nel contesto probatorio acquisito,
con una sovrapposizione argomentativa che sconfinerebbe nei compiti
riservati al giudice di merito [Cass. Sez. 111.11.1998 n. 13528]. IN
tale contesto si deve quindi ribadire che in tema di giudizio di appello,
il giudice non è tenuto a prendere in considerazione ogni
argomentazione proposta dalle parti, essendo sufficiente che egli
indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata, dimostrando di
aver tenuto presente ogni fatto decisivo; ne’ l’ipotizzabilità di una
diversa valutazione delle medesime risultanze processuali costituisce
vizio di motivazione, valutabile in sede di legittimità [Cass. Sez. V
6.5.1999 n. 7588].
Passando al più specifico tema del “vizio di manifesta illogicità”
della motivazione, va osservato che il relativo controllo viene
esercitato esclusivamente sul fronte della coordinazione delle
proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto
argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità, per
il giudice di legittimità, di verificare se i risultati dell’interpretazione
delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni
probatorie risultanti dagli atti del processo; sicché nella verifica della
fondatezza, o meno, del motivo di ricorso ex art. 606, comma primo,
lett. e) c.p.p., il compito della Corte di Cassazione non consiste
nell’accertare la plausibilità e l’intrinseca adeguatezza dei risultati
dell’interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma
quello, ben diverso, di stabilire se i giudici di merito: a) abbiano
esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; b) abbiano dato
esauriente risposta alle deduzioni delle parti; c) nell’interpretazione
delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le
massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di
valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale
della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Ne consegue che, ai fini della denuncia del vizio in esame, è
indispensabile dimostrare che il testo del provvedimento sia
manifestamente carente di motivazione e/o di logica, per cui non può
essere ritenuto legittimo l’opporre alla valutazione dei fatti contenuta
nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione degli stessi,
magari altrettanto logica, dato che in quest’ultima ipotesi verrebbe

inevitabilmente invasa l’area degli apprezzamenti riservati al giudice
di merito [Cass. SU 30.4.1997 n. 6402; Cass. Sez. I 21.9.1999 n.
12496; Cass. Sez IV 2.12.2003 n. 4842]. Infatti il controllo di
legittimità operato dalla Corte di Cassazione non deve stabilire se la
decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile
ricostruzione dei fatti, ne’ deve condividerne la giustificazione, ma
deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il
senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento [Cass. 30.11.1999 n. 1004; Cass. Sez. IV 2.12.2003 n.
4842]. Va da ultimo osservato che la denunzia di minime
incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di
valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa
decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro
carattere di decisività), non possono dar luogo all’annullamento della
sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque
omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto.
Al contrario, è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale
ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la
consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro
ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto
argomentativo della motivazione [Cass. Sez. II 22.4.2008 n. 18163].
Passando al tema del travisamento va osservato che, a seguito delle
modifiche dell’art. 606, comma primo, lett. e) ad opera dell’art. 8 della
L. n. 46 del 2006, mentre non è consentito dedurre il “travisamento
del fatto” [Cass. Sez. VI 14.2.2012 n. 25255], stante la preclusione per
il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle
risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito,
è invece, consentita la deduzione del vizio di “travisamento della
prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il
proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di
prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in
tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal
giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti
elementi sussistano [Cass. Sez. H 23.5.2007 n. 23419; Cass. Sez. IV
10.7.2007 n. 35683; Cass. Sez. 5, 25.7.2007 n. 39048].
Sul tema va ancora precisato che la novella codicistica, introdotta con
la L. n. 46 del 2006, nel riconoscere la possibilità di deduzione del
vizio di motivazione anche con il riferimento ad “atti processuali”
(che devono essere specificamente indicati nei motivi di
impugnazione, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso
medesimo), non ha comunque mutato la natura del giudizio di
Cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicchè
gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi
processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente
incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto
esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito
di una valutazione unitaria, e devono essere tali da inficiare la struttura
logica del provvedimento stesso. [Cass. Sez. 11 11.1.2007 n. 7380]. In

Passando pertanto alla disamina delle singole questioni il Collegio
osserva quanto segue.
Con il primo motivo di Procura Generale della Corte d’Appello
denuncia un’ipotesi di possibile violazione di legge o di vizio della
motivazione nel punto in cui la Corte Palermitana ha affermato la
cessazione del vincolo associativo da parte del PANZECA, alla data
del 17.marzo 1995 e non già in epoca posteriore. La Procura Generale
lamenta da un lato un’erronea applicazione dei principi di diritto in
materia e in secondo luogo un vizio di carenza di motivazione
sufficiente ed idonea a sorreggere e a giustificare l’affermazione
contenuta nella sentenza.
In linea generale va rilevato che in tema di associazione per delinquere
è stato affermato che la permanenza nel reato non è interrotta dallo
stato di detenzione, tranne che sia raggiunta la prova
dell’estromissione della persona dall’associazione criminosa o il suo
recesso da questa, operando in termini di interruzione, per il caso in
cui vi sia la c.d. “contestazione aperta” solo la sentenza di condanna.
Quali momenti che segnano la cessazione della permanenza del reato
associativo, la giurisprudenza ha individuato, con riferimento ora
all’organizzazione nel suo complesso ed ora alla partecipazione del
singolo associato: il recesso volontario (Cass., sez. I, 7 aprile 1986,
MAVILLA, ibid., 259; 21 aprile 1986, BENIGNO, cit.; 30 gennaio
1992, ALTADONNA, cit.), la riduzione del numero degli associati
sotto la soglia minima o lo scioglimento dell’associazione o la
cessazione della sua operatività con il compimento dell’ultimo reatofine o con l’arresto di tutti i consociati (Cass., sez. I, 25
settembre1984, RIZZI, Giur. it., 1985, II, 177; Cass. 13 giugno 1987,
ABBATE, Riv. pen., 1988, 1195).
Relativamente all’ipotesi di partecipazione va rilevato che è
particolarmente controversa la valenza da annettere all’arresto ed allo
stato di detenzione del singolo associato, sostenendosi in talune
decisioni (Cass., sez. I, 8 maggio 1985, ABITUDINE, Riv. pen., 1986,

consonanza con quanto fin qui richiamato, va ancora osservato che
qualora la prova che si assume essere stata travisata provenga da una
fonte dichiarativa (deposizione testimoniale, dichiarazione di un
collaboratore di giustizia per es.), l’oggetto della stessa deve essere del
tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e
non opinabile [in tal senso Cass. sez. IV 12.2.2008 In ced Cass. rv
239533 ove in motivazione si è affermato che al di fuori degli
evidenziati limiti, dovendosi considerare la deposizione sempre il
frutto della percezione soggettiva del testimone, la sua valutazione ha
inevitabilmente chiamato il giudice di merito a «depurare» il
dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante,
operazione che per essere apprezzata dal giudice di legittimità
presuppone la contezza non del singolo atto processuale, bensì
dell’intero compendio probatorio, nonché una analisi comparativa che
rimane preclusa a suddetto giudice).

301; Cass 24 giugno 1986, GAGLIARDI, id., 1987, 481) che tale
evento determini la cessazione della permanenza, ferma la possibilità
di una successiva ripresa della condotta di partecipazione, integrante,
peraltro, ipotesi delittuosa nuova ed autonoma, ed affermandosi
secondo altro, ed invero prevalente, indirizzo che l’arresto non
determina, per sua natura, la cessazione della partecipazione, salva la
possibilità di altrimenti dimostrare l’avvenuto recesso dell’arrestato
(Cass., sez. I, 21 aprile 1986, BENIGNO, cit.; 13 giugno 1987,
ABBATE, cit.; 23 novembre 1992, EGIZIO, M.C.P., 1993, IV, 64).
Secondo talune sentenze, più correttamente, si impone tuttavia,
all’accusa l’onere di dimostrare che la partecipazione è proseguita
nonostante l’arresto, sia sul versante della permanente operatività del
gruppo che su quello dell’impegno del singolo (v. Cass., sez. I, 20
gennaio 1988, MUTO, Riv. pen., 1989, 84; 21 ottobre 1992, PUCA,
M.C.P., 1993, IV, 34; sez. VI, 3 giugno 1993, DE TOMMASI, cit.).
Attribuiscono, invece, l’effetto di far cessare la partecipazione alla
pronuncia della sentenza di primo grado le già menzionate sentenze
BENIGNO ed EGIZIO nonché Cass., sez. V, 30 giugno 1993,
TORNESE, M.C.P., 1994, II, 92, mentre Cass., sez. V, 6 novembre
1995, MAGGIO, ined., assegna il medesimo effetto alla pronuncia del
decreto di rinvio a giudizio, ravvisando nell’eventuale condotta
successiva la commissione di un nuovo reato [Cass., sez. I, 21 ottobre
1992, PUCA, cit.]. La giurisprudenza più recente di questa Corte
afferma anche che ai fini della configurabilità del delitto di
partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il
singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura
permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo
scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della
cessazione del carattere permanente del reato soltanto l’avvenuto
recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della
qualità di partecipe, deve essere accertato caso per caso in virtù di
condotta esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi
indiziari di incerta valenza, quali quelli della età, del subingresso di
altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in luogo
in cui si assume non essere operante una famiglia di “cosa nostra”
[Cass. Sez. 11 15.3.2012 n. 25311 in Ced Cass. Rv 253070]; infatti,
secondo questo filone giurisprudenziale il delitto di associazione di
tipo mafioso (art. 416 bis cod. pen.) può continuare a consumarsi
anche successivamente all’emissione di una misura cautelare – essendo
legato non solo a condotte tipiche ma anche soltanto alla mancata
cessazione dell'”affectio societari scelerum” – fino ad un atto di
desistenza che può essere volontaria oppure legale, rappresentato dalla
sentenza di condanna anche non definitiva; nel caso di contestazione
senza l’indicazione della data di cessazione della condotta, la
permanenza deve ritenersi sussistente fino alla data della pronunzia di
primo grado [Cass. Sez. V 19.3.2009 n. 31111 in Ced Cass. Rv
244479]

Così fissati i termini della questione secondo la giurisprudenza di
questa Corte, si può affermare che in tema di valutazione della
permanenza del vincolo derivante dalla partecipazione ad una
associazione di stampo mafioso, date le caratteristiche peculiari di
siffatta organizzazione si traggono i seguenti principi. L’arresto di un
affiliato ad un’organizzazione mafiosa o l’esercizio dell’azione penale
nei suoi confronti non costituisce causa automatica di cessazione del
vincolo associativo, perché gli effetti derivanti dalla affiliazione e
della permanenza del vincolo può protrarsi anche durante il periodo di
detenzione con la instaurazione di ulteriori forme di legame e
collaborazione fra i vari partecipanti. Sulla base di tale presupposto la
stessa giurisprudenza di legittimità demanda ad una ponderata
valutazione di merito se le vicende processuali di un’imputato di
violazione dell’art. 416 bis cp possono costituire motivo di risoluzione
dei legami associativi, indicandone le ragioni. A fronte di tale
possibile valutazione è onere dell’accusa fornire la prova della
persistenza del vincolo associativo.
Nel caso in esame, la Corte Palermitana, affrontando il tema del
perdurante legame associativo del PANZECA con Cosa Nostra, ha
posto in evidenza le ragioni poste a base e fondamento della propria
valutazione. La Corte Palermitana, infatti ha posto in rilievo che
manca notizia dell’appartenenza mafiosa del PANZECA (che non
risulta essere “uomo d’onore”) in data successiva al 17.3.1995 in cui
l’imputato è stato sottoposto a misura custodiate cautelare, con un
successivo alternarsi di ulteriori periodi di detenzione a causa di
provvedimenti restrittivi emessi in altri procedimenti, nessuno dei
quali risulta definito con condanna per fatti avvenuti dopo la data
succitata. La stessa Corte di merito ha quindi rilevato che l’incertezza
della prova del protrarsi della condotta delittuosa anche dopo lo
arresto va tanto più affermata non solo considerando le importanti
trasformazioni verificatesi nel contesto mafioso in cui ha operato il
PANZECA, ma anche tenuto conto di alcune affermazioni del
GIUFFRE’ (collaboratore di giustizia) che sono state ritenute
significative: “….tale collaboratore ha precisato che dopo i
provvedimenti di natura cautelare emessi in questo ed in altri
procedimenti, resosi conto delle attenzioni degli inquirenti
sull’odierno imputato, non aveva più potuto mantenere quei contatti
con lui che ne avevano consentito gli apporti durante la latitanza. Nè
risulta che ime detto che il PANZECA abbia inteso in altro modo e
traverso altri stabili punti di riferimento di natura associativa, dare
ancora corso alla condotta di partecipazione a Cosa Nostra
nonostante il succedersi delle accuse che determinavano le attenzioni
degli inquirenti e i provvedimenti restrittivi”. Alla luce delle censure
mosse dalla Procura ricorrente, la affermazione della Corte d’Appello
va riguardata sotto i due diversi profili: a) corretta applicazione dei
principi di diritto affermati dal giudice di legittimità in tema di effetti
permanenti del delitto di cui all’art. 416 bis cp; b) adeguatezza della
motivazione.

Sotto il primo profilo la decisione impugnata appare corretta. La
giurisprudenza di legittimità nel corso del tempo da un lato ha escluso
ogni automatismo derivante dall’arresto di una persona affiliata ad
associazione mafiosa in tema di permanenza del vincolo. Tale
affermazione si accompagna con la regola che è precipuo compito del
giudice di merito rinvenire fatti positivi o indici che costituiscano la
prova della cessione del vincolo associativo. Sotto questo profilo la
giurisprudenza, nel tempo ha fornito talune indicazioni a tal proposito,
privilegiando i casi in cui lo stesso imputato abbia dato prova positiva
di risoluzione del legame associativo attraverso comportamenti
incompatibili con lo stesso. Peraltro tali fattispecie (alle quali si
aggiungono per esempio lo scioglimento della associazione o lo
arresto di tutti i suoi adepti con conseguente impossibilità del
perseguimento degli scopi) non costituiscono un numerus clausus,
potendo e dovendo, di volta in volta, il giudice di merito rinvenire
quelle specifiche condizioni di fatto dalle quali è ragionevolmente
desumibile che è cessata la permanenza del vincolo associativo.
Sotto questo punto di vista la decisione della Corte d’Appello è
corretta. Infatti è stata rinvenuta una particolare situazione di fatto,
particolare per la posizione del PANZECA, in base alla quale il
giudice di merito ha fondato il proprio convincimento. Il susseguirsi di
arresti del PANZECA, hanno determinato una situazione per la quale,
le attenzioni delle forze dell’ordine lo rendevano inaffidabile
ponendole nelle condizioni di uno scioglimento del vincolo
associativo. Sul punto va osservato che non ha rilevanza quale sia la
causa dello scioglimento del vincolo associativo ex art. 416 bis cp, o
da chi parta l’iniziativa, ciò che rileva è la obbiettiva circostanza che
tale cessazione si sia realizzata. La Corte territoriale, peraltro non solo
non si è limitata e recepire, stando alle dichiarazioni del collaboratore
di giustizia, il fatto che il vincolo associativo fosse venuto meno a
causa di una contingente situazione personale del PANZECA, ma ha
proceduto ad un riscontro indiretto verificando l’assenza di
circostanze di fatto comprovanti il contrario. Sotto questo ulteriore
punto di vista la decisione della Corte territoriale appare corretta in
diritto e la motivazione è adeguata, non illogica e scevra di carenze. Il
ricorrente a sua volta, pur richiamando condivisibili principi
giurisprudenziali, ne ha erroneamente invocato un’applicazione del
tutto automatica, avulsa dal contesto fattuale in cui tali principi
devono essere comunque calati attraverso una concreta valutazione di
ogni singolo caso. D’altro canto lo stesso ufficio ricorrente non è stato
in grado di fornire alcuna indicazione di fatti specifici, positivi
dimostrativi della permanenza del vincolo associativo del PANZECA
anche per epoca successiva al 17.3.1995 con conseguente
dimostrazione di una erroneità della decisione, sotto il profilo di
carenza di motivazione su un aspetto essenziale della stessa.
La doglianza va pertanto rigettata.
Con riferimento al secondo motivo di ricorso della Procura Generale
va osservato che la Corte d’Appello ha reso una motivazione adeguata

delle ragioni per le quali non ha ritenuto sufficiente la prova
dimostrativa della penale responsabilità del PUCCIO in ordine al reato
di partecipazione alla associazione mafiosa “Cosa Nostra”, facendo
corretta applicazione delle regole poste dall’art. 192 cpp; la Corte
ponendo in evidenza come il periodo da prendere in considerazione ai
fini della valutazione della posizione del PUCCIO fosse successivo
alla data del 3.12.1992, ha rilevato l’insufficienza del dato probatorio
relativo alla condotte associative apprezzabili e databili in epoca
successiva alla data indicata. La Corte territoriale, dopo avere preso
atto delle dichiarazioni rese dal collaboratore GIUFFRE’ relative al
PUCCIO, rimarca l’inesistenza di riscontri esterni che, secondo la
disciplina dell’art. 192 cpp conferirebbero il carattere di “prova” alle
dette dichiarazioni. La Corte d’Appello rileva infatti che il
collaboratore VARA, che definisce il PUCCIO quale “uomo d’onore”
riferisce fatti antecedenti di quattro anni rispetto a quanto riferito dal
GIUFFRE’ con la conseguenza che manca una congruenza fra le
dichiarazioni dell’uno e dell’altro collaboratore tale da poter costituire
l’uno il riscontro delle affermazioni dell’altro.
La Corte d’Appello ha spiegato inoltre le ragioni per le quali ha
ritenuto che neppure possono costituire elemento di riscontro
sufficiente al GIUFFRE’ le dichiarazioni dei collaboratori LIMA e
BARBAGALLO; il primo, perchè ha mostrato “incertezze” nella
individuazione del PUCCIO, riferendo fatti inerenti a vicende
antecedenti al 1992; il secondo perché non credibile per le specifiche
inesattezze e perché talune delle sue dichiarazioni sono state smentite
da altre e sicure emergenze processuali. La motivazione della Corte
territoriale è esauriente, logica, e immune da vizi. E’ corretta la
applicazione dei principi di diritto indicati da questa Corte di
legittimità nell’analisi della disciplina dell’art. 192 cpp. Le censure del
ricorrente sono pertanto infondate, scadendo in definitiva in
apprezzamenti di merito non sindacabile in questa sede.
Passando alla valutazione del ricorso della difesa dell’imputato
PANZECA, si deve osservare ancora quanto segue.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte territoriale
non ha deciso della posizione dell’imputato esclusivamente sulla base
delle dichiarazioni rese dal GIUFFRE, ma ha proceduto, seguendo il
dettato dell’articolo 192 cpp, ad un serrato riscontro fra le
dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, dando atto che la
stessa difesa dell’imputato non ha sollevato questioni in ordine al tema
della credibilità del suddetto collaboratore. Esclusa la formale
affiliazione del PANZECA all’organizzazione “Cosa nostra”,
GIUFFRE’ ha fornito specifica indicazione del ruolo e della funzione
svolta dal PANZECA nello interesse della organizzazione criminale, e
ciò con particolare riguardo alla società CALCESTRUZZI TERMINI
S.r.l., le cui quote, secondo le indagini della polizia giudiziaria sono
appartenute nel corso del tempo ai fratelli GAETA (capi mafia di
Termini Imerese), ABSENTE Bernardo (ucciso a Baucina il
17.2.1992), MATTALIANO Gregorio (cognato del PIPPO CALO’ –

capo del mandamento di Porta Nuova). Il Collaboratore GIUFFRE’ ha
rivelato che la società, alla quale sono stati interessati lo stesso
CALO’ e il DI GESU’ (deceduto il 22.1.1990) ha avuto un ruolo di
importanza strategica per le articolazioni di “Cosa nostra” perché
attraverso essa si potevano “agganciare” buona parte delle imprese
che svolgevano lavori in appalto. Il GIUFFRE’ ha inoltre riferito di
operazioni immobiliari effettuate dal CALO’ anche per il tramite del
PANZECA (che fungeva da prestanome del DI GESU’), investendo in
tali operazioni denari derivanti dal traffico delle sostanze stupefacenti.
La Corte d’Appello ha quindi indicato i riscontri alle dichiarazioni
rese dal GIUFFRE’ rinvenendole nei resoconti dei Carabinieri, nelle
dichiarazioni di LANZALACO Salvatore e procedendo quindi ad una
articolata analisi del loro contenuto (vv. pp. 15 e ss della sentenza) in
uno con il contenuto di deposizioni testimoniali di appartenenti
all’Arma dei Carabinieri e con le dichiarazioni di SIINO Angelo
procedendo inoltre ad un raffronto critico tra queste ultime e quelle
dello stesso GIUFFRE’ (pag. 18 della sentenza).
La Corte d’Appello ha esaminato la natura del rapporto intercorso tra
il PANZECA e tale BIONDOLILLO Giuseppe (esponente mafioso di
CERDA e per un certo periodo di tempo sindaco di tale centro), messo
in evidenza dallo stesso GIUFFRE; anche per questo aspetto, che vede
coinvolte “amicizie politiche” per l’acquisizione e l’esecuzione di
appalti nel settore pubblico, le dichiarazioni del collaboratore trovano
riscontro in quelle del LANZALACO, nonché negli esiti delle analisi
del traffico telefonico. Da ultimo la Corte d’Appello ha esaminato i
rapporti intercorsi tra l’imputato e il collaboratore LA CHIUSA che
descrivendo le proprie esperienze imprenditoriali ha chiarito il proprio
ruolo consistente nel fornire “buste di appoggio” al PANZECA per
consentirgli l’aggiudicazione di appalti e nel contempo ha illustrato i
termini di un conflitto intercorso tra lo stesso dichiarante e l’odierno
imputato in relazione all’attribuzione di un contratto di appalto nel
comune di CACCAMO.
Da ultimo la Corte d’Appello ha esaminato la vicenda relativa al
contributo dato dal PANZECA nell’assistere il GIUFFRE’ nella sua
latitanza, fornendogli ospitalità attraverso altro collaboratore di
giustizia: BARBAGALLO Salvatore, a sua volta ritenuto per
affermazione del LANZALACO, il factotum del PANZECA.
Sulla scorta delle considerazioni svolte dalla difesa la Corte
Palermitana ha esaminato inoltre il rapporto intercorso tra il
PANZECA e il VARA e in particolare l’aspetto di “una messa a
posto” richiesta dal secondo al primo. I giudici di merito hanno
chiarito come il fatto fosse da ascriversi non ad un ruolo di “vittima”
dell’imputato, ma rispondente alla prassi della “contribuzione” tra
appartenenti a famiglie diverse della medesima organizzazione,
qualora fossero stati eseguiti “lavori” fuori zona, venendo peraltro
chiarito che nella specie il PANZECA nulla aveva dato, poiché i
“lavori” venivano eseguiti nel territorio di CACCAMO, al di fuori del
mandamento VALLELUNGA al quale il VAIRA faceva riferimento.

Sulla base di tutti i suddetti elementi la Corte d’Appello, con
motivazione non illogica, né contraddittoria ha formulato il proprio
giudizio sulla adesione del PANZECA all’organizzazione “Cosa
nostra” e circa il suo contributo causale.
Le censure mosse dalla difesa su questo punto della motivazione in
questa sede sono infondate. Esse sono generiche, inducenti ad
apprezzamenti di merito limitandosi a richiamare alcune dichiarazioni
rese dai collaboratori, avulse dal testo complessivo e come tali
inidonee a costituire prova di illogicità della motivazione secondo i
limiti indicati nelle premesse di questa pronuncia. Il primo motivo di
ricorso va quindi rigettato.
Deve essere rigettato anche il secondo motivo di ricorso. La censura
della difesa circa l’erroneo riconoscimento delle circostanze
aggravanti di cui al IV e al VI comma dell’art. 416 bis cp è infondato
e ai limiti della inammissibilità. Va in primo luogo osservato che il
tema relativo alla sussistenza delle aggravanti non è stato oggetto di
doglianza nell’atto di appello del 29.4.2005 della difesa avv.to
LAMACCHIA, nè tantomeno nei c.d. motivi nuovi di appello prodotti
dalla difesa avv.to MATTEI del 10.11.2005 con la conseguenza che
l’argomento sarebbe in questa sede improponibile perché non è stato
ritualmente dedotto.
Cenno sul punto relativo alla sola circostanza aggravante di cui al VI
comma dell’art. 416 bis cp è stato fatto , in termini del tutto generici,
nel ricorso per Cassazione 22.10.2009 sottoscritto dall’imputato (pag.
12) (come peraltro si riscontra anche dalla motivazione della sentenza
di questa Corte del 10.10.2011 (pag. 5).
Di qui consegue che oggi viene proposta per la prima volta questione
relativa alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis IV
comma cp e ciò in violazione dell’art. 606 III^ comma cpp e sua
conseguente inammissibilità. Infatti, la La Corte di Cassazione con la
propria decisione del 10.10.2011 prendendo in considerazione quanto
devoluto dai ricorrenti, ha annullato la sentenza della Corte d’Appello
limitatamente alla valutazione e alla concludenza delle fonti di prova
accusatoria valorizzate dalla decisione di appello, senza rimettere in
discussione il fatto reato valutato in tutte le sue componenti
comprensive anche delle circostanze aggravanti, tanto che la stessa
Corte di legittimità (pag. 9 della sentenza 10.10.2011) affrontando il
tema relativo alla circostanza aggravante di cui al VI comma dell’art.
416 bis cp, così testualmente ha affermato: “….appare opportuno
evidenziare l’infondatezza dei rilievi enunciati dai due imputati
sull’indicata aggravante per la incidenza del tema sulla estensione e
qualificazione della contestata associazione delinquenziale mafiosa.
La congiunta lettura delle due conformi decisioni di merito consente
di rilevare come la qualificazione aggravata del sodalizio criminoso
non risulti affatto trascurata dalle motivazioni delle due decisioni ed
in particolare dalla decisione di secondo grado mette conto
osservare che la aggravante di cui all’art. 416 bis c. 6 ha natura
oggettiva ed è riferibile all’attività dell’associazione nel suo insieme e

Pe le suddette ragioni i ricorsi vanno rigettati e l’imputato PANZECA
deve essere altresì condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna PANZECA Giuseppe al pagamento delle
spese processuali.
Così deciso in Roma il 13.11.2013

non al contegno del singolo partecipe che ne risponde per il solo fatto
della partecipazione, attendo che appartenendo al risalente
patrimonio conoscitivo comune (id est fatto notorio) che Cosa Nostra
opera nel settore economico utilizzando ed investendo i profitti ed i
proventi dei delitti che commette in esecuzione del suo programma
delinquenziale, un’ipotetica ignoranza al riguardo in capo ad un
soggetto che a tale organizzazione aderisca anche nella c.d.forma
esterna o ad essa sia affiliato non è seriamente pensabile…” La
riproposizione della questione è pertanto inammissibile in questa sede
e nessuna censura può essere mossa sul punto alla Corte d’Appello,
essendosi formato giudicato definitivo sul punto.
Il terzo motivo di ricorso è infondato e va rigettato.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, la Corte
d’Appello ha affrontato la questione relativa alla concepibilità delle
attenuanti generiche al PANZECA alle pagine 31/32 della decisione
impugnata rilevando la gravità della condotta per essersi protratta per
lungo tempo, per il ruolo rivestito dall’imputato nel perseguimento
“Cosa Nostra”
degli scopi dell’organizzazione criminale
condividendo interessi con “uomini d’onore”, anche successivamente
alla c.d. “stagione delle stragi”. Si tratta di motivazione sufficiente ed
adeguata alla decisione di non riconoscere le invocate attenuanti. La
decisione sul punto è inoltre coerente con la restante sentenza e non
presenta vizi nell’applicazione di norme di legge. Le censure sono
pertanto infondate, generiche e più strettamente attinenti ad aspetti di
merito che non possono essere qui presi in considerazione.

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