Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 8010 del 20/12/2013


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 8010 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: DOVERE SALVATORE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LABATE PAOLO N. IL 20/05/1984
avverso l’ordinanza n. 113/2011 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 06/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SALVATORE
DOVERE;
lette/te le conclusioni del PG Dott. t, Q
J45-72.sì

n-01/4-9 g-A-P

1)132″

Data Udienza: 20/12/2013

RITENUTO IN FATTO
1. Labate Paolo, a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, con la quale è stata rigettata la sua
istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal 29.7.2007 al
10.8.2007, in relazione al delitto di cui all’art. 416bis cod. pen., per il quale è
intervenuta sentenza di assoluzione divenuta irrevocabile.
La Corte territoriale ha ravvisato l’insussistenza dei presupposti del diritto
alla riparazione di cui all’art. 314, 1° comma, cod. proc. pen., in quanto il

cautelare, individuando gli estremi della colpa grave, preclusiva al
riconoscimento dell’indennizzo richiesto. E ciò in quanto, nell’ambito delle
indagini che avevano prodotto “una realtà processuale fortemente ambigua e
sospetta” egli aveva “contribuito, con il proprio atteggiamento non collaborativo
(giungendo, addirittura, a fornire false giustificazioni) alla emissione e al
mantenimento della misura cautelare disposta a suo carico”.

2. Il ricorrente ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata per
violazione dell’art. 314 cod. proc. pen. e vizio motivazionale, rilevando che la
Corte di Appello ha espresso una valutazione opposta a quella del Giudice del
merito tacciando di falsità le dichiarazioni rese nel corso dell’interrogatorio di
garanzia, nel quale, all’inverso, il Labate fornì specifici elementi giustificativi; non
spiega perché e come quanto affermato nei dialoghi del Labate si correli
all’ipotesi che il ricorrente fosse coinvolto in un contesto associativo mafioso,
sicché non si comprende quale sia stata la regola di condotta violata dal
medesimo.

3. Con atto depositato il 4.12.2013 si è costituito in giudizio il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il
rigetto del ricorso, rilevando che la Corte di Appello ha giustamente posto in
rilievo il tono criptico ed ambiguo nonché il contenuto delle conversazioni
dell’istante, che lasciavano intendere che questi fosse nella piena conoscenza
dell’altrui attività delittuosa, mantenendo contatti con soggetti coinvolti nel
sodalizio mafioso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato.
4.1. A fronte dei rilievi mossi con il ricorso che si esamina è opportuno
premettere, con estrema sintesi, l’indicazione delle linee portanti della disciplina
dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, così come delineata dalla
giurisprudenza di legittimità.

2

comportamento dell’odierno ricorrente aveva dato corso all’ordinanza di custodia

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per
valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa
grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi
probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che
rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o
regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se
adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 34559 del
26/06/2002 – dep. 15/10/2002, Min. Tesoro in proc. De Benedictis, Rv. 222263).

ripetutamente puntualizzato che il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno
della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per
ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa
grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia
cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che
successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento
della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (Sez. U,
n. 32383 del 27/05/2010 – dep. 30/08/2010, D’Ambrosio, Rv. 247664; nel
medesimo senso già Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro
ed altri, Rv. 203636).
Una risalente pronuncia ha sostenuto che “la condizione ostativa al
riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione rappresentata
dall’aver dato causa, da parte del richiedente, all’ingiusta carcerazione, non può
consistere in circostanze relative alla condotta già oggetto della pronuncia
assolutoria, ma deve concretarsi in comportamenti esterni ai temi
dell’incolpazione, di tipo processuale, come un’autoincolpazione, un silenzio
cosciente su di un alibi, una fraudolenta creazione di tracce o prove a proprio
danno” (Sez. 6, n. 1401 del 28/04/1992 – dep. 22/05/1992, Zenatti, Rv.
190488). Essa però è stata presto disattesa dalla successiva giurisprudenza, che
si è attestata sul principio per il quale “in tema di riparazione per l’ingiusta
detenzione, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo,
rappresentata dall’avere il richiedente dato causa, all’ingiusta carcerazione, deve
concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della
cognizione e che possano essere di tipo extra-processuale (grave leggerezza o
macroscopica trascuratezza tali da aver determinato l’imputazione), o di tipo
processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi); il
giudice è peraltro tenuto a motivare specificamente sia in ordine all’addebitabilità
all’interessato di tali comportamenti, sia in ordine all’incidenza di essi sulla
determinazione della detenzione. (Sez. 4, n. 8163 del 12/12/2001 – dep.
28/02/2002, Pavone, Rv. 220984).

In particolare, quanto al compendio degli elementi valutabili, il S.C. ha

Vale anche precisare che idonea ad escludere la sussistenza del diritto
all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – è non solo
la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi
termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma
anche “la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del
procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit”
secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una
situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a

ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve
ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del
predetto primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., quella condotta che, pur
tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza,
imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme
disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile,
ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un
provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno
già emesso” (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996, Sarnataro ed
altri, Rv. 203637).
Con specifico riferimento alla ipotesi in cui la condotta da esaminare nella
prospettiva richiesta dall’art. 314 cod. proc. pen. sia quella della ‘connivenza’,
risulta sicuro punto di riferimento il principio statuito da questa Corte secondo il
quale, in tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, perché la connivenza
possa costituire causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione
occorre che essa sia consistita in comportamenti improntati a macroscopica
leggerezza e imprudenza, idonei ad essere interpretati, nella fase iniziale delle
indagini, appunto non come semplice connivenza, ma come concorso nel reato
(Sez. 4, n. 37567 del 02/04/2004 – dep. 23/09/2004, Barison, Rv. 229142).
Quindi, non è mai sufficiente la sola connivenza per escludere il diritto alla
riparazione: è necessario che essa, per le modalità con le quali si è manifestata,
possa dar luogo, a causa della macroscopica leggerezza e imprudenza, ad una
accusa di concorso nel reato.
E’ per la menzionata necessità di un simile quid pluris che la giurisprudenza
di legittimità richiede che l’atteggiamento di connivenza passiva abbia comunque
rafforzato la volontà criminosa dell’agente (Sez. 4, n. 6878 del 17/11/2011 dep. 21/02/2012, Cantarella, Rv. 252725) o che essa costituisca indice del venir
meno degli elementari doveri di solidarietà sociale, ovvero quando non sia risolta
in un mero comportamento passivo riguardo alla consumazione del reato, ma si
sia sostanziata nel tollerare che tale reato sia consumato, sempre che l’agente

tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo. Poiché inoltre, anche

fosse in grado di impedirne la consumazione o di ostacolare la prosecuzione
dell’attività criminosa in ragione della posizione di garanzia assunta, o, infine,
quando la connivenza risulti aver oggettivamente rafforzato la volontà criminosa
dell’autore del reato, anche quando il connivente non abbia perseguito tale
obiettivo con il suo comportamento (Sez. 4, n. 2659 del 03/12/2008 – dep.
21/01/2009, Vottari, Rv. 242538).
Ovviamente, il rafforzamento del quale si fa menzione non può essere quello
che dà luogo al concorso nel reato; esso quindi non sarà accompagnato dalla

si potrebbe parlare, al riguardo, di un ‘rafforzamento unilaterale’ della volontà
illecita.
4.2. Un’ultima annotazione è imposta dalla particolare prospettiva del
sindacato di legittimità; in rapporto ad essa è decisivo rimarcare che si tratta di
un sindacato limitato alla correttezza del ragionamento logico giuridico con cui il
giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del
beneficio, mentre resta nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è
tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il proprio convincimento, la
valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o del dolo (Sez. 4, n. 21896
del 11/04/2012 – dep. 06/06/2012, Hilario Santana, Rv. 253325).
Dovendosi però tener conto del fatto che va tenuta distinta l’operazione
logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della
sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella
propria del giudice della riparazione. Questi, pur dovendo operare,
eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un “iter” logicomotivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se
determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste
come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione
dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha
piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per
rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni
dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa
l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione (in
tal senso, espressamente, Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 – dep. 09/02/1996,
Sarnataro ed altri, Rv. 203638).

5. Tanto premesso va rilevato che, nella specie, la Corte territoriale non ha
fatto corretto governo dei principi anche qui rammentati.
La valutazione della condotta del Labate ha preso le mosse da quanto
asserito dal Tribunale per il riesame con l’ordinanza con la quale venne annullato

v

coscienza e volontà di contribuire in qualche guisa alla realizzazione dell’illecito;

il provvedimento cautelare adottato nei confronti dello stesso – in essa si
indicava l’assenza di elementi certi circa il pieno inserimento del Labate
nell’organizzazione mafiosa oggetto di indagini – per affermare che, in ogni caso,
il confronto tra il contenuto di alcune conversazioni captate dagli inquirenti e le
giustificazioni addotte dall’allora indagato lo indicavano almeno quale soggetto
contiguo alla cosca omonima.
Siffatta contiguità è stata derivata dal fatto che il Labate sarebbe stato a
conoscenza del fatto che il padre operava quale effettivo titolare di un esercizio

Gambello Santo nonché dalla circostanza che il Labate, avendo nelle
conversazioni captate sollecitato Mirandoli Oberto Alessandro a raggiungerlo a
Cortona portando con sé “uno che non parla”, fornì quale giustificazione della
circostanza la necessità della presenza dell’amico ‘per sistemare una tavernetta’;
affermazione che il Tribunale per il riesame giudicò ‘assai poco convincente’,
mentre inattendibile ed illogica la Corte di Appello ha ritenuto fosse la
giustificazione data dal Labate alla richiesta di ‘uno che non parla’ (evitare che il
padre venisse a conoscenza che egli manteneva rapporti con persone di Reggio
contro la volontà paterna).
Orbene, una simile motivazione lascia del tutto incomprensibile il percorso di
connessione logico-fattuale attraverso il quale la Corte di Appello, a partire dalle
circostanze appena rammentate, è pervenuto a ritenere sussistente la
connivenza del Labate al sodalizio mafioso omonimo e ne ha accertato la
valenza rafforzativa; per quali particolari profili tale connivenza, qualora
oggettivamente rafforzatrice dell’attività del sodalizio e quindi concretante
condotta colposa, sia connotata da eclatante o macroscopica negligenza,
imprudenza o violazione di leggi o regolamenti. Dovendo peraltro rilevarsi che la
valutazione delle conversazioni del Labate non può essere operata dal Giudice
della riparazione in termini antagonistici a quella del giudice del merito;
l’autonomia del primo si afferma non sul piano dell’accertamento dei fatti,
prerogativa del giudizio di merito, ma su quello della valutazione delle
circostanze ivi acclarate.
Nel caso di specie, non può non rilevarsi come nell’ordinanza impugnata si
sia dato un giudizio negativo delle giustificazioni addotte dal Labate in merito alle
conversazioni nelle quale questi sollecitava il Mirandoli a raggiungerlo, giungendo
a parlare di un atteggiamento non collaborativo e sinanche connotato dalla
prospettazione di false giustificazioni, senza chiarire quale sia stato il giudizio
espresso al riguardo dal giudice di merito.

6

commerciale adibito alla vendita di salumi e formaggi intestato fittiziamente a

6. Si impone quindi l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio
alla Corte di Appello di Reggio Calabria.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata 41 rinvia alla Corte di Appello di Reggio
Ca la bria ()zii.

AAA,410 AlrebtA.”-R_

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20/12/2013.

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