Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7993 del 13/11/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 7993 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: LAPALORCIA GRAZIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
1) MICELI GIUSEPPE N. IL 20/11/1948
2) D’AVILLA CALOGERO N. IL 19/06/1957
3) D’AVILLA GIUSEPPE VINCENZO N. IL 17/07/1963
4) DA VILLA MARIO N. IL 27/06/1965
5) D’AVILLA VINCENZO N. IL 06/02/1931
6) D’AVILLA ROSA N. IL 06/03/1960
avverso la sentenza n. 1056/2008 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 18/05/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 13/11/2012 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GRAZIA LAPALORCIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.gc-, ’12-WTT 1
che ha concluso per Q ( rtr„ apr.,..,ry.r.%_s
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Data Udienza: 13/11/2012

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RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza 18.5.2011 la Corte d’Appello di Palermo, confermando in punto affermazione
di colpevolezza quella del Tribunale di Sciacca in data 29.6.2007 -che parzialmente riformava
in ordine al trattamento sanzionatorio di alcuni imputati-, riconosceva Giuseppe MICELI, quale
amministratore di diritto della Conglomerati srl, dichiarata fallita il 17-7-2001, Vincenzo
D’AVILLA, Calogero D’AVILLA, Giuseppe Vincenzo D’AVILLA (rispettivamente padre e figli),

bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale (quest’ultima relativa alla distrazione di
merci, beni strumentali e somme di denaro, per un totale superiore a due miliardi e settecento
milioni di lire); Rosa D’AVILLA (rispettivamente figlia e sorella dei D’Avilla di cui sopra), quale
amministratore della VAMI Prefabbricati srl (capo C), Mario DAVILLA, quale amministratore di
fatto della GS Costruzioni srl (capo D), responsabili di concorso, con il Miceli ed i D’Avilla,
ciascuno in una distrazione di beni strumentali della fallita, nel primo caso fatturati come
venduti per il prezzo di £ 14.400.000 alla VAMI Prefabbricati srl, somma mai corrisposta, nel
secondo fatturati alla GS per 132 milioni di lire, somma riportata nel bilancio della fallita ma
non rinvenuta nella sua disponibilità, mentre il valore reale era di 500 milioni di lire, importo
promesso e corrisposto altre D’Avilla anche successivamente al fallimento.
2. La corte confermava l’impianto accusatorio secondo cui i veri titolari dell’attività della fallita
erano i D’Avilla padre e figli, i quali, attraverso il conferimento al Miceli, loro dipendente, della
qualifica di amministratore di diritto e la fittizia intestazione allo stesso delle quote sociali,
avevano in tal modo proseguito, tramite la Conglomerati srl, l’attività di altre loro società
dichiarate fallite, la Burgio Conglomerati Bituminosi s.a.s. (soci Vincenzo e Calogero D’Avilla),
l’impresa individuale di Calogero D’Avilla e la Burgio Calcestruzzi s.a.s. di D’Avilla Giuseppe
Vincenzo.

3. Con ricorso personale Miceli deduceva con un primo motivo violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione all’art. 216 legge fall.. Dopo aver richiamato la giurisprudenza in tema
di consapevolezza da parte dell’amministratore di diritto/testa di legno dei disegni criminosi
dell’amministratore di fatto, necessaria per l’affermazione di responsabilità, sosteneva che tale
consapevolezza non poteva essere desunta dalle sporadiche emergenze evidenziate nella
sentenza impugnata, che aveva trascurato quelle che gli attribuivano un ruolo assolutamente
marginale nei fatti contestati. Il carattere secondario della sua partecipazione era del resto
confermato dalla sentenza 15-7-2004 del tribunale di Sciacca (che lo aveva condannato per
bancarotta documentale e patrimoniale in relazione al fallimento della Burgio Conglomerati
Bituminosi s.a.s., in concorso con i soci Vincenzo e Calogero D’Avilla), mentre numerose
testimonianze, enumerate nel ricorso, davano conto del fatto che egli era sconosciuto ai
fornitori, quella del consulente contabile Rosario Messina escludeva qualunque sua ingerenza

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quali amministratori di fatto della stessa società, responsabili dei reati, di cui al capo A), di

nella gestione della società e le intercettazioni telefoniche dimostravano l’assoluta marginalità
del suo ruolo.
3.1 Con il secondo motivo gli stessi vizi erano dedotti in ordine al mancato riconoscimento
dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, in quanto, sempre sulla base della
giurisprudenza di legittimità in tema, il nocumento per i creditori era stato nella specie pari
soltanto a 90 milioni di lire in pregiudizio della Ferrara Accardi & Figli srl.
3.2 Il terzo motivo addebita ancora i medesimi vizi al diniego delle attenuanti generiche in

marginale e il corretto comportamento processuale.

4. Anche il ricorso personale di Vincenzo D’AVILLA è articolato in tre motivi, gli ultimi due dei
quali sono sostanzialmente coincidenti con il secondo e il terzo del ricorso Miceli (per il diniego
delle generiche non si sarebbe tenuto conto del corretto comportamento processuale).
Con il primo motivo si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art.
216 legge fall. sul punto del riconoscimento del ruolo di amministratore di fatto.
Premessa la discrasia tra l’ammontare del passivo e quello delle asserite distrazioni, che
presupponevano un movimento di affari inverosimile in un piccolo centro dell’entroterra
agrigentino, si sosteneva che la sentenza a carico del coimputato Miceli e le intercettazioni
telefoniche smentivano qualunque sua ingerenza nella gestione della società.
Quanto in particolare alla bancarotta documentale, il ricorrente citava uno stralcio dell’esame
del curatore fallimentare da cui risultava che era stato in grado di ricostruire il movimento
degli affari della fallita fino al 31-12-1999.
Da ultimo, sotto il profilo soggettivo, si evidenziava che l’imputato aveva cercato di evitare la
declaratoria di fallimento mediante proposte transattive al creditore istante.

5. Il ricorso proposto dal difensore di Mario Davilla, avv. Riccardo Caramello, consta di due
motivi, il primo dei quali articolato in più censure.
5.1 Primo motivo: inosservanza dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. e motivazione
contraddittoria e manifestamente illogica, tanto sotto il profilo del duplice riconoscimento
all’imputato della qualifica di amministratore di fatto della GS Costruzioni, e di

extraneus

rispetto alla bancarotta relativa al fallimento Conglomerati srl, quanto sotto quello della
sussistenza dell’elemento oggettivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo D),
integrata, secondo la prospettazione accusatoria, dall’acquisto da parte della GS dei beni
strumentali della fallita per l’importo fatturato di 132 milioni di lire, mentre il prezzo
corrisposto, anche dopo il fallimento, agli amministratori di fatto, era pari ad oltre 500 milioni.
5.1.1 Quanto alla qualifica di amministratore di fatto della GS, si osservava che le
intercettazioni valorizzate in sentenza erano succ essive di oltre quattro all’operazione, non
essendo quindi idonee a dimostrare che già allora Davilla esercitasse tali funzioni per il solo
fatto che la moglie era socia della società. Né militava in tal senso il ritrovamento presso la sua
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quanto, a fronte della valorizzazione della gravità del fatto, non erano stati considerati il ruolo

abitazione di documentazione contabile relativa alla GS e di un timbro della stessa, data la
qualità di socia della moglie. Inoltre nulla dimostrava che egli fosse a conoscenza
dell’eventuale stato di decozione della Conglomerati srl al momento dell’acquisto, stato di
decozione da un lato escluso dalla stessa sentenza che aveva ritenuto attiva ed in bonis la
società a quell’epoca, dall’altro, e comunque, non desumibile dai rapporti di parentela e di
affari con gli amministratori di fatto.
5.1.2 Sull’elemento oggettivo del reato, e in particolare sulla non corrispondenza tra il prezzo

sentenza impugnata, incorrendo nel medesimo errore di quella di primo grado, aveva da un
lato omesso di considerare alcune circostanze favorevoli all’imputato, dall’altro era incorsa in
travisamento delle emergenze istruttorie. Infatti:
a) non aveva considerato che le valutazioni attribuite all’impianto di conglomerato bituminoso
e a quello di calcestruzzo nella CTU dell’ing. Costa, erano anteriori di dieci anni rispetto alla
vendita a GS, né aveva tenuto conto del prezzo di acquisto degli stessi impianti indicato nei
contratti di leasing con i quali le s.a.s. facenti capo ai D’Avilla padre e figli li avevano acquistati
dalla Asso Leasing, impianti successivamente venduti ad un prezzo ancora inferiore (20
milioni) da Leasing Roma alla Conglomerati srl, mentre il mero dubbio che potesse non
trattarsi degli stessi impianti ceduti alla GS, da un lato non teneva conto che Leasing Roma era
subentrata ad Asso Leasing nei contratti da questa stipulati, dall’altro non poteva risolversi che
a favore del prevenuto; b) non aveva considerato che degli automezzi acquistati dalla
Conglomerati dalla Levante Leasing soltanto un’autobetoniera era stata ceduta alla GS e poco
tempo dopo indicata come in disuso; c) era incorsa in travisamento dei fatti nel ritenere che
medio tempore la fallita avesse sottoposto gli impianti a spese non irrisorie di manutenzione e
ad adeguamento alla normativa antinquinamento, in quanto le prime erano irrisorie, il secondo
era stato opera della GS dopo l’acquisto; d) era incorsa in travisamento delle risultanze
laddove aveva ritenuto che l’accollo da parte della GS di debiti della Conglomerati verso la
cooperativa Cava Taia e verso la Calcestruzzi Belice srl andasse sommato e non detratto dal
prezzo della vendita dei beni strumentali, nonostante che gli amministratori della cooperativa
avessero dichiarato di aver appreso dall’amministratore della GS, Giaimo, che l’importo dei
debiti accollati sarebbe stato detratto dal prezzo, pari a circa 140 milioni di lire; e) aveva tratto
elementi a sostegno del valore dei beni ceduti, dal prezzo della successiva rivendita degli stessi
dalla GS alla SCB, senza considerare da un lato che non vi era coincidenza tra le
autobetoniere, dall’altro che la GS aveva medio tempore provveduto a due adeguamenti degli
impianti alla normativa antinquinamento, con conseguente aumento di valore degli stessi; f)
era incorsa in travisamento delle risultanze laddove aveva ritenuto che l’accollo da parte della
SCB del debito della GS per pagamento canoni di locazione al curatore del fallimento della
Burgio Conglomerati Bituminosi s.a.s. andasse sommato al prezzo di vendita pattuito, facendo
così ulteriormente aumentare il valore dei beni, mentre da una intercettazione telefonica
(n.1478 del 31-12-2003) risultava che il consulente della SCB aveva informato
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fatturato e quello effettivamente promesso e/o corrisposto, il ricorrente evidenziava che la

l’amministratore della GS che i canoni sarebbero stati versati al curatore detraendoli dal prezzo
di vendita; g) aveva commesso travisamento motivazionale traendo ulteriore elemento a
sostegno della simulazione oggettiva relativa, comunque in termini di plausibilità e non di
certezza, dall’appunto sequestrato in casa del Miceli, erroneamente interpretato come se la
cifra di 40 milioni fosse invece di 400 milioni, nonostante lo zero dopo la cifra 40 risultasse
cancellato.
5.2 Con ulteriore motivo, definito terzo, ma in realtà secondo, il ricorrente si doleva della
valutazione della effettiva diminuzione del danno cagionato ai creditori.

6. Il ricorso dell’avv. G. Vaccaro per Calogero D’Avilla è articolato in cinque motivi, il primo dei
quali introduttivo e sviluppato nel secondo.
6.1 Con il primo ed il secondo motivo si censura mancata correlazione tra accusa contestata e
sentenza in quanto nei capi d’imputazione il prevenuto è citato solo al capo A) con un’accusa
generica, non specificata nei capi B, C e D, relativi a soggetti diversi, in assenza di
individuazione del concorso del Calogero D’Avilla con costoro, con conseguente impossibilità di
adeguata difesa tecnica. Inoltre vi sarebbe contrasto tra la sentenza di primo grado, che nel
dispositivo aveva affermato la responsabilità del predetto soltanto per i capi C e D, peraltro
non contestati all’imputato, e quella di appello che, invece di dichiarare la nullità della
precedente perchè relativa a fatti nuovi, non contestati, ne aveva dato un’interpretazione
additiva ritenendo che Calogero D’Avilla fosse stato condannato anche per i capi A e B e,
quanto ai capi C e D, solo con riferimento alla bancarotta per distrazione. Precisazione
incomprensibile in quanto la bancarotta documentale non era contestata. Comunque entrambe
le pronunce erano slegate dalla contestazione.
Generica era poi l’accusa di bancarotta fraudolenta documentale in presenza dell’attribuzione
della qualifica di mero amministratore di fatto della fallita.
6.2 Con il terzo motivo si deduceva mancanza di motivazione in ordine all’affermazione della
responsabilità per il capo C, in quanto le posizioni esaminate sono solo quelle di Rosa D’Avilla e
di Giuseppe Vincenzo D’Avilla.
6.3 II quarto motivo addebita alla decisione erronea applicazione della legge penale e illogicità
della solo apparente motivazione essendosi sottovalutata la perdita di tutti beni della famiglia
dell’imputato sottoposti ad esecuzione forzata.
6.4 L’ultimo motivo investe l’entità della pena e il diniego delle attenuanti generiche
giustificato, senza motivazione, con il richiamo alla collaborazione prestata solo su circostanze
già note, ma non sulle vicende cardine del giudizio, mentre poi, contraddittoriamente, era stata
ridotta la pena in considerazione delle parziali ammissioni, non tenendo conto che erano state
proprio le ammissioni a determinare, dopo pochi giorni dall’arresto, gli arresti domiciliari e
l’anno seguente l’obbligo di presentazione alla PG.
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mancata concessione dell’attenuante del danno di speciale tenuità non accompagnata dalla

7. Il ricorso dell’avv. A. Rossi nell’interesse di Giuseppe Vincenzo D’Avilla si articola in sette

motivi.
7.1 Con il primo si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione sul punto della
valutazione da parte della corte palermitana della sentenza di condanna del Miceli 389/2004
del Tribunale di Sciacca, acquisita ex art. 238 bis cod. proc. pen.. La corte aveva superato i
limiti fissati da quest’ultima norma in quanto, da un lato, tale decisione non avrebbe potuto
processo e quindi privo della possibilità di esercitare il diritto di difesa, dall’altro i riscontri
individuati dai giudici di merito erano generici, insufficienti e non individualizzanti. Comunque,
una volta ritenuto accertato in quel procedimento che la funzione della Conglomerati srl fosse
quella di consentire ai membri della famiglia D’Avilla di continuare ad esercitare le attività
economiche da anni gestite sul territorio, nonostante l’imminente incapacità che sarebbe
derivata dal fallimento anche in proprio di Calogero e Giuseppe Vincenzo D’Avilla, sarebbe
stato necessario individuare le condotte dell’imputato da inserire in quell’ambito, il che non era
avvenuto.
7.2 Doglianze dello stesso tipo erano dedotte con riferimento all’art. 445 cod. proc. pen. in
quanto la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del prevenuto per reati connessi al
fallimento della Burgio Conglomerati Bituminosi sas, era stata valutata come se la
contestazione fosse un fatto accertato nonostante che quel tipo di decisione sia equiparata ad
una pronuncia di condanna soltanto a limitati effetti.
7.3 Con il terzo motivo si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione in ordine
all’utilizzo nella sentenza di primo grado (pag. 6) dell’interrogatorio in data 19-2-2005 di
Calogero D’Avilla, nonostante il ricorrente non avesse prestato il consenso. NON chiaro, non fa
riferimento alla sentenza di secondo grado e non dice in quale parte tale interrogatorio sarebbe
stato utilizzato.
7.4 Il quarto motivo investe, con la prospettazione delle medesime censure -quella di vizio
motivazionale anche sotto il profilo del travisamento della prova-, il mancato riconoscimento
del reato impossibile in ordine al capo D) avendo la corte territoriale ritenuto che l’appellante
avesse sostenuto solo genericamente che i beni strumentali ceduti erano quelli oggetto di
leasing dalla Levante Leasing alle due sas poi fallite (Burgio Conglomerati e Burgio

Calcestruzzi), mentre tale circostanza risultava documentalmente. Inoltre la sentenza
impugnata aveva ritenuto apoditticamente che la locazione degli impianti alla Conglomerati da
parte delle due sas fosse un espediente strumentale alla prosecuzione dell’attività sotto diversa
denominazione.
7.5 Con il quinto motivo il ricorrente deduceva violazione di legge e motivazione omessa,
contraddittoria o illogica sul punto dell’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto
della Conglomerati in quanto, da un lato, gli elementi evidenziati a sostegno di tale conclusione
erano generici, non individualizzanti e non caratterizzanti l’attività di gestione, dall’altro la
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essere utilizzata a dimostrazione del coinvolgimento dell’imputato, rimasto estraneo a quel

decisione impugnata non aveva valutato gli elementi di segno opposto indicati nell’atto di
appello, ritenendoli assorbiti, con motivazione apparente, nel proprio iter argomentativo.
7.6 Lo stesso tipo di doglianze investe, con il sesto motivo, il riconoscimento della qualifica di
amministratore di fatto della VAMI, società di Rosa D’Avilla, di cui il ricorrente era solo un
dipendente. Travisamento della prova era ravvisato nella portata confessoria attribuita
all’interrogatorio 22.12.2005 dell’imputato laddove aveva, ma in modo meramente atecnico,
dichiarato di non essere l’amministratore, ma il gestore della società.
giustificato, con motivazione insufficiente, con il richiamo alla collaborazione prestata solo su
circostanze innegabili, mentre, secondo la corte, altre vicende della società, non precisate,
erano rimaste oscure.
8. Nello stesso atto a firma dell’avv. A. Rossi, è contenuto anche il ricorso nell’interesse di Rosa
D’Avida, sostenuto da doglianze (indicate come ottavo motivo) di violazione di legge e vizio di
motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova, che investono l’elemento
oggettivo del reato sub C), in relazione al quale la corte palermitana aveva ritenuto che la
cessione di beni strumentali dalla fallita alla VAMI fosse avvenuta senza corrispettivo in
assenza di utilizzo di mezzi bancari (fattura 21-12-1999 n.40). Per contro, secondo il
ricorrente, plurimi elementi deponevano per la corresponsione del prezzo in contanti, e cioè il
prelievo bancario del capitale sociale, pari a 20 milioni di lire, interamente versato; la presenza
nella cassa cartolare della Conglomerati di oltre cento milioni di lire, importo comprensivo del
prezzo di quella vendita; il mancato esperimento di azioni revocatorie; il sequestro della
fattura e di altri documenti presso la sede amministrativa della VAMI.
CONSIDERATO IN DIRITTO

Miceli

1. Il ricorso di Miceli è inammissibile.
2. Il primo motivo, che addebita alla decisione impugnata violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione all’art. 216 legge fall., investe una questione, quella della sussistenza
dell’elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta in capo all’amministratore formale della
società dichiarata fallita, che è stata oggetto di puntuale esame e motivata soluzione da parte
della corte territoriale, senza che il ricorrente abbia aggiunto considerazioni nuove ovvero non
considerate. Esso si appalesa pertanto affetto da aspecificità.
2.1 Premessa l’indubbia esattezza del principio giuridico evocato dal ricorrente secondo cui il
dolo, in tali casi, non è presunto, né discende puramente e semplicemente dall’accettazione
dell’incarico di amministratore quale prestanome, va tuttavia ricordato che, per consolidato
indirizzo giurisprudenziale di questa corte, nell’ipotesi di concorso ex art. 40 cpv. cod. pen.
(omissione di impedimento dello evento in dipendenza dall’obbligo di vigilanza)
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7.7 L’ultimo motivo investe l’entità della pena e il diniego delle attenuanti generiche

dell’amministratore di diritto negli illeciti commessi dall’amministratore di fatto, ad integrare il
dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle
condotte indicate nell’art. 216 comma 1 n. i I. fall. (dolo generico), con accettazione del
relativo rischio (dolo eventuale), senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i
singoli episodi delittuosi (Cass. 7208/2006, Riv. 233637, 29896/2002, Rv. 222389).
2.2 Uniformandosi a tale indirizzo, la sentenza impugnata ha fornito ampia ed esaustiva
illustrazione delle ragioni per le quali la condotta del Miceli era animata da tale consapevolezza,

smentire che il carattere secondario della partecipazione dell’imputato fosse confermato dalla
sentenza 15-7-2004 del tribunale di Sciacca (che lo aveva condannato per bancarotta
documentale e patrimoniale in relazione al fallimento della Burgio Conglomerati Bituminosi
s.a.s., in concorso con i soci della stessa, Vincenzo e Calogero D’Avilla), la corte territoriale ha
ineccepibilmente rilevato il suo ruolo cruciale tanto nella costituzione della nuova società, la
Conglomerati srl -sorta dalle ceneri delle precedenti imprese riconducibili ai D’Avilla, falliti
anche in proprio-, di cui nel 1995, da dipendente dei D’Avilla che era, Miceli era divenuto socio
unico, quanto nella stipula del contratto di affitto tra la neonata società e la Conglomerati
Bituminosi sas, sintomo evidente di continuità dell’attività.
2.3 Né la corte palermitana ha mancato di evidenziare che la sottoscrizione da parte del Miceli
degli atti sociali che richiedevano la firma dell’amministratore, aveva riguardato anche la
cessione, a carattere distrattivo, di tutti i beni strumentali della Conglomerati srl,
nell’imminenza del fallimento, alla GS, cessione la cui simulazione in ordine al prezzo era
attestata da un appunto rinvenuto proprio presso l’abitazione dell’imputato: ritrovamento con
ragione reputato sintomatico della sua conoscenza anche nel dettaglio delle singole operazioni
distrattive messe a segno con il suo contributo dagli amministratori di fatto.
Il contegno tenuto dal Miceli con il curatore, indicante coinvolgimento nella gestione e nelle
condotte illecite per aver tentato di fornire anche informazioni non conformi al vero, è stato poi
valorizzato in sentenza per ulteriormente corroborare la conclusione della sua consapevolezza
dell’operato degli ex datori di lavoro.
2.4 Invano, quindi, il ricorrente ha enumerato le testimonianze che lo descriverebbero come
sconosciuto ai fornitori, essendo stato tale elemento con ragione ritenuto smentito, nella
decisione impugnata, dalla circostanza che il teste Melchiorre Di Maria aveva riferito che Miceli
si era recato presso la cooperativa da lui rappresentata insieme con uno dei D’Avilla, in veste
di presentatore, quando la Conglomerati era subentrata alla fallita società in accomandita
semplice esercente la stessa attività; mentre l’assunto secondo cui la deposizione del
consulente contabile Rosario Messina escluderebbe qualunque ingerenza del Miceli nella
gestione della società, risulta smentito dalla corte siciliana mediante il richiamo alla telefonata
in cui Messina forniva a Calogero D’Avilla precise istruzioni, affinchè le riferisse a Peppe
(Miceli), per aprire un rapporto bancario presso un istituto di credito.

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ribattendo punto per punto alle doglianze ora nuovamente sollevate nel ricorso. Così, a

2.5 Del tutto generica, in quanto non accompagnata da motivi a sostegno, è poi, anche a
fronte di quanto appena osservato, l’asserzione del ricorrente secondo cui le intercettazioni
telefoniche dimostrerebbero l’assoluta marginalità del suo ruolo.
3. Del pari aspecifico il secondo motivo di gravame, attinente al mancato riconoscimento
dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, in quanto oggetto di doglianza già
sottoposta al giudice di secondo grado e da questi affrontata e rigettata rilevando che il
passivo era stato di almeno 200 milioni di lire, importo incompatibile con il concetto di speciale

nocumento cagionato ai creditori, nella specie assertivamente pari a 90 milioni di lire in
pregiudizio della Ferrara Accardi & Figli srl, la doglianza sarebbe manifestamente infondata
posto che anche quest’ultimo importo esula dalla nozione di speciale tenuità del danno.
4. Il terzo motivo si manifesta a sua volta ripetitivo di questione che, già sottoposta al giudice
di merito, è stata puntualmente esaminata e ragionatamente risolta. Invero, mentre non è
esatto che, a sostegno del diniego di attenuanti generiche, la corte abbia valorizzato la gravità
del fatto, il richiamo da essa effettuato ai precedenti del Miceli per reati finanziari, falsità
materiale e per la bancarotta di cui alla sentenza 15-7-2004 del tribunale di Sciacca, integra
giustificazione più che sufficiente del diniego (costituendo tra l’altro principio consolidato quello
secondo cui, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione di tale diniego, è sufficiente
che il giudice di merito giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con
l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione senza essere tenuto ad esaminare tutte le
circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa), cui il ricorrente si è limitato a contrapporre
la marginalità del ruolo, peraltro abitualmente tipica del prestanome, e la non meglio precisata
correttezza del comportamento processuale del prevenuto.
Senza contare che la corte del territorio ha pure fornito perspicua motivazione della rilevanza,
nella specie, della recidiva (dovuta alla bancarotta fraudolenta già giudicata, commessa con gli
stessi correi), ancorando anche a tale rilievo la mancata concessione delle generiche, senza
tuttavia mancare di ridurre la pena, già inflitta al prevenuto, in considerazione della sua
posizione subordinata e della necessità di garantirsi la conservazione del posto di lavoro.

Vincenzo D’Avilla

1. Anche il ricorso di Vincenzo D’Avilla è inammissibile.
2._ Il primo motivo, inerente a violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento
impugnato, in relazione all’art. 216 legge fall., per l’intervenuto riconoscimento del suo ruolo di
amministratore di fatto, è del tutto privo di specificità laddove, dopo il generico rilievo
dell’asserita sproporzione tra l’ammontare del passivo del fallimento della Conglomerati e
quello delle contestate distrazioni, si limita a sostenere che la sentenza a carico del coimputato
Miceli e le intercettazioni telefoniche smentirebbero qualunque sua ingerenza nella gestione
della società, senza tuttavia fornire alcuna indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di
fatto alla base di tale assunto.

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tenuità del danno. A tener presente, poi, secondo quanto osservato dal ricorrente, il dato del

2.1 Inidonea a fondare la tesi dell’inesistenza della bancarotta fraudolenta documentale, è poi
la citazione di uno stralcio, fuori contesto, dell’esame del curatore fallimentare (che questa
corte non conosce, e non può conoscere, nella sua integralità) da cui risulterebbe che la
ricostruzione del movimento degli affari della fallita era stata possibile fino al 31-12-1999,
anche perché, comunque, tale dato non sarebbe significativo in quanto il fallimento venne
dichiarato nel luglio 2001, oltre un anno e mezzo dopo.
2.3 Invano il ricorrente rileva, da ultimo, al fine di mettere in dubbio l’esistenza dell’elemento

transattive al creditore istante. Non solo, infatti, detta eventuale iniziativa potrebbe essere
significativa di un interesse ad evitare che, con la pronuncia di fallimento, si perfezionasse il
reato, dall’altro tale incisivo intervento nelle vicende societarie non fa che confermare la
qualità di amministratore di fatto di Vincenzo D’Avilla.
3.Del pari aspecifico il secondo motivo di gravame, attinente al mancato riconoscimento
dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, in quanto oggetto di doglianza già
sottoposta al giudice di secondo grado e da questi affrontata e rigettata rilevando che il
passivo era stato di almeno 200 milioni di lire, importo incompatibile con il concetto di speciale
tenuità del danno. A tener presente, poi, secondo quanto osservato dal ricorrente, il dato del
nocumento cagionato ai creditori, nella specie assertivamente pari a 90 milioni di lire in
pregiudizio della Ferrara Accardi & Figli srl, la doglianza sarebbe manifestamente infondata
posto che anche quest’ultimo importo esula dalla nozione di speciale tenuità del danno.
4. Il terzo motivo si manifesta a sua volta ripetitivo di questione che, già sottoposta al giudice
di merito, è stata puntualmente esaminata e ragionatamente risolta valorizzando, a
neutralizzare l’assunto del corretto comportamento processuale, da un lato la circostanza che
le ammissioni avevano riguardato fatti già dimostrati e quindi innegabili, dall’altro il
coinvolgimento nelle pregresse vicende delle società in accomandita semplice, le cui attività
erano state proseguite dall’imputato, insieme con i familiari, sotto lo schermo di una società di
capitali sotto la guida apparente dell’ex dipendente Miceli.

Mario Davilla
Il ricorso di Mario Davilla è nel complesso da rigettare.
1.Le censure mosse, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, al
riconoscimento della qualifica di amministratore di fatto della GS, acquirente dei beni
strumentali della Coglomerati srl nell’imminenza del fallimento di quest’ultima, hanno trovato
puntuale ed esaustiva risposta nella sentenza impugnata che le ha ritenute infondate.
Infatti: a)quanto al rilievo che le intercettazioni valorizzate in sentenza erano successive di
oltre quattro all’acquisto di cui sopra, non essendo quindi idonee a dimostrare che già allora
Mario Davilla esercitasse tali funzioni per il solo fatto che la moglie era socia della società, la
corte territoriale ha evidenziato come la GS fosse stata costituita tra la moglie dell’imputato,
Biagina Speciale, e Antonino Giaimo sulle ceneri -solo sei mesi dopo- della Edilsala sas, che

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soggettivo del reato, di aver cercato di evitare la declaratoria di fallimento mediante proposte

aveva comportato anche il fallimento in proprio del Davilla, socio accomandatario, all’evidente
scopo di proseguirne l’attività sotto il nome di terzi, essendo egli fallito; b)quanto alla
sostenuta irrilevanza del ritrovamento presso la sua abitazione di documentazione contabile
relativa alla GS e di un timbro della stessa, con ragione essa è stata esclusa dal momento che
la detenzione del timbro non si concilia con la qualità di socio non amministratore della
Speciale; c)quanto alla mancata conoscenza dello stato di decozione della Conglomerati srl al
momento dell’acquisto, con argomentazione non manifestamente illogica tale conoscenza è
società Edilsala sas e Siciliana Calcestruzzi sas, con la Conglomerati (e i suoi amministratori di
fatto), già inoperativa da un anno all’epoca della cessione, intervenuta nel maggio 1999, dei
beni strumentali alla GS.
2. Del pari infondate le censure sulla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, e in
particolare sulla simulazione relativa del prezzo della vendita.
Tale aspetto è stato oggetto di analitico esame nella motivazione delle sentenze di primo e
secondo grado, che si integrano vicendevolmente essendo di segno conforme in punto
affermazione di responsabilità. Le conclusioni al riguardo risultano quindi nel complesso
adeguatamente giustificate dai giudici di merito attraverso una puntuale valutazione delle
prove, che ha consentito una ricostruzione dei fatti esente da incongruenze logiche e da
contraddizioni.
Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il
controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta nei
gradi di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia
nel complesso esauriente e plausibile.
2.1 Così la decisione impugnata risulta del tutto immune dall’addebito a)di non aver
considerato che le valutazioni attribuite all’impianto di conglomerato bituminoso e a quello di
calcestruzzo nella CTU dell’ing. Costa, erano anteriori di dieci anni rispetto alla vendita a GS,
b)di non aver tenuto conto del prezzo di acquisto degli stessi impianti indicato nei contratti di
leasing con i quali le società in accomandita semplice facenti capo ai D’Avilla padre e figli li
avevano acquistati dalla Asso Leasing -impianti successivamente venduti ad un prezzo ancora
inferiore (20 milioni) da Leasing Roma alla Conglomerati srl-, c)di aver valorizzato il mero
dubbio che potesse non trattarsi degli stessi impianti ceduti alla GS, trascurando da un lato che
Leasing Roma era subentrata ad Asso Leasing nei contratti da questa stipulati, dall’altro che
tale dubbio non poteva risolversi che a favore del prevenuto.
2.2 Infatti la corte territoriale, alle pagg. 35 e 36 della sentenza, ha indicato con assoluta
specificità e precisione tutti gli elementi in fatto che deponevano nel senso della non
rispondenza di parte dei beni ceduti alla GS a quelli che la Conglomerati aveva riscattato dalle
società di leasing.
2.3 Ugualmente la censura di omessa considerazione del fatto che, degli automezzi acquistati
dalla Conglomerati dalla Levante Leasing, soltanto un’autobetoniera era stata ceduta alla GS e
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stata desunta dai rapporti del ricorrente di parentela e, soprattutto, commerciali, tramite le

poco tempo dopo indicata come in disuso, risulta superata dal puntuale rilievo della corte
palermitana che altre due autobetoniere erano di diversa provenienza e, dunque, non vi era
prova che il loro valore fosse esiguo.
2.4 Né è ravvisabile il dedotto travisamento dei fatti nell’aver ritenuto che medio tempore,
prima della cessione alla GS, la fallita avesse sottoposto gli impianti a spese non irrisorie di
manutenzione e all’adeguamento alla normativa antinquinamento (mentre, secondo il
ricorrente, le prime sarebbero state irrisorie, il secondo sarebbe stato opera della GS dopo
della sentenza, le spese e gli interventi di adeguamento documentalmente sostenuti dalla
Conglomerati, pur senza escludere che la GS ne avesse fatti altri dopo.
2.5 Neppure è ascrivibile alla sentenza impugnata travisamento delle risultanze laddove ha
ritenuto che l’accolto da parte della GS di debiti della Conglomerati verso la cooperativa Cava
Taia e verso la Calcestruzzi Belice srl andasse sommato, non detratto, dal prezzo della vendita
dei beni strumentali (nonostante che gli amministratori della cooperativa avessero dichiarato di
aver appreso dall’amministratore della GS, Giaimo, che l’importo dei debiti accollati sarebbe
stato detratto dal prezzo, pari a circa 140 milioni di lire).
Premesso che il travisamento è ravvisabile soltanto nella palese ed incontrovertibile difformità
tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione di una prova e quelli che il giudice di
merito ne abbia tratto (Cass. 37756/2011, Rv. 251467), nella specie la corte del territorio, alle
pagg. 37 e 38 della sentenza, dopo aver rilevato che nella fattura non vi era traccia di accolto e
che tra i documenti sequestrati presso Miceli vi erano quietanze a saldo della fattura, ha
sottoposto ad attento esame la testimonianza invocata dal ricorrente ritenendola imprecisa
sull’importo della fattura e non in grado di superare i dati sopra evidenziati.
2.6 Esente da censure è poi l’individuazione ad opera della corte di un ulteriore elemento a
sostegno della simulazione del prezzo, nell’ammontare del corrispettivo della successiva
rivendita dei beni dalla GS alla SCB. Infatti non solo sono stati considerati soltanto i beni
identici nelle due successive cessioni (pag. 39 della sentenza), ma, a fronte del rilievo difensivo
che la GS aveva medio tempore provveduto a due adeguamenti degli impianti alla normativa
antinquinamento, con conseguente aumento di valore degli stessi, la corte territoriale ha
osservato, senza incorrere in manifesta illogicità della motivazione, che la differenza in più,
pari a 253 milioni di lire, dopo ben tre anni dalla cessione da Conglomerati a GS, concorreva a
confermare la simulazione relativa del prezzo di quest’ultima vendita.
2.7 Inidoneo a sostenere la censura di travisamento delle risultanze -laddove la corte
palermitana aveva ritenuto che l’accollo da parte della SCB del debito della GS per pagamento
canoni di locazione al curatore del fallimento della Burgio Conglomerati Bituminosi s.a.s.
andasse sommato al prezzo di vendita pattuito, facendo così ulteriormente aumentare il valore
dei beni- è il richiamo del ricorrente ad una intercettazione telefonica (n.1478 del 31-12-2003)
da cui risulterebbe che il consulente della SCB aveva informato l’amministratore della GS che i
canoni sarebbero stati versati al curatore detraendoli dal prezzo di vendita. Al riguardo la

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l’acquisto), avendo la corte elencato, singolarmente e con certosina precisione, alla pag. 36

sentenza ha valorizzato il dato documentale che nessuna clausola della convenzione scritta
deponeva nel senso che l’accollo fosse parte del prezzo (pag. 40 della sentenza), mentre la
mancata allegazione al ricorso della trascrizione dell’intercettazione ne preclude comunque
l’esame e la valutazione.
2.8 Questione di puro fatto, estranea al dedotto vizio di ‘travisamento motivazionale’, è infine
quella della valutazione dell’appunto relativo al prezzo della cessione sequestrato in casa del
Miceli, analiticamente effettuata dalla corte di merito nel senso che la cifra indicata era di 400
testo integrale del documento ed indicando le ragioni della plausibilità della interpretazione
fornita dal tribunale, che ha quindi condiviso, dando luogo a doppia decisione conforme, senza
incorrere in manifeste illogicità o contraddizioni.
3. Ai limiti dell’inammissibilità è il secondo motivo (definito terzo), relativo alla mancata
concessione dell’attenuante del danno di speciale tenuità che si assume non accompagnata
dalla valutazione della effettiva diminuzione del danno cagionato ai creditori, ma senza ulteriori
indicazioni degli elementi di fatto e di diritto a sostegno del motivo, questione peraltro
affrontata e risolta in sentenza in relazione ad altre posizioni, come sopra già osservato.
Non è poi chiaro se la doglianza investa anche il diniego di attenuanti generiche, sul quale
comunque la corte territoriale ha adeguatamente motivato a pag.67 della sentenza.
Calogero D’Avilla

Il ricorso di Calogero D’Avilla è infondato e va disatteso.
1. Con la doglianza di mancata correlazione tra accusa contestata e sentenza, di cui ai primi
due motivi, il ricorrente, muovendo dall’erroneo presupposto che al prevenuto non fosse stata
contestata la bancarotta documentale, ne ha tratto la conseguenza, altrettanto erronea, che la
corte del territorio fosse incorsa in interpretazione additiva laddove aveva ritenuto che il
D’Avilla fosse stato condannato anche per i capi A e B, oltre che, quanto ai capi C e D, per la
bancarotta per distrazione.
Infatti, come chiaramente spiegato in sentenza alle pagg. 28 e 49, l’esame dei capi
d’imputazione evidenzia che la bancarotta documentale era contestata nei capi A, C e D,
grazie al richiamo all’art. 216, comma 1 n. 2, legge fall. ivi contenuto, mentre il dispositivo
della sentenza di primo grado era cristallino nell’affermare la responsabilità degli imputati per i
reati rispettivamente ascritti (e quindi, quanto in particolare al ricorrente, per i capi A, C e D,
questi ultimi due contestati attraverso il richiamo alle condotte in essi descritte contenuto nel
capo A), con la limitazione, quanto ai capi C ed D, alla bancarotta per distrazione (esclusa
quindi la documentale il cui articolo di riferimento era comunque palesemente citato per
errore, mediante copiatura dal capo A). Del resto gli imputati i cui nomi sono citati all’inizio dei
capi C e D -D’Avilla Rosa e Davilla Mario-, in quanto concorrenti estranei, non possono che
concorrere nella bancarotta ascritta agli amministratori di diritto e di fatto, tutti citati -ivi
compreso Calogero D’Avilla- nel contesto di tali capi, anche se non all’inizio di ciascuno di essi,
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milioni (non di 40), e quindi interpretata come prova della simulazione del prezzo, riportando il

dove, con una scelta discutibile che, solo a tutta prima, può indurre qualche incertezza, è
citato soltanto il concorrente

extraneus

Le decisioni di primo e secondo grado, dunque, non solo non sono in contrasto tra loro, ma si
inquadrano perfettamente nel perimetro tracciato dalle imputazioni, senza alcuna possibilità di
lesione del diritto di difesa.
1.1 Aspecifica è poi la censura di genericità dell’accusa di bancarotta fraudolenta documentale,
in quanto fondata esclusivamente sul rilievo che Calogero D’Avilla è stato ritenuto

non potrebbe essere chiamato a rispondere di tale reato.
La giurisprudenza di questa corte è orientata in senso contrario avendo affermato, proprio in
tema di bancarotta fraudolenta documentale, che l’amministratore di fatto della società fallita è
gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove
concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale
responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti addebitabili all’amministratore di
diritto (Cass. 39593/2011, Rv. 250844).
2. Priva di fondamento è poi la censura, di cui al terzo motivo, di mancanza di motivazione in
ordine all’affermazione della responsabilità per il capo C, in quanto in sentenza sarebbero state
esaminate soltanto le posizioni di Rosa D’Avilla e di Giuseppe Vincenzo D’Avilla. La doglianza
sconta l’errore di trascurare che il capo A ascrive la bancarotta per distrazione al Miceli,
amministratore formale, e ai tre D’Avilla, amministratori di fatto, anche attraverso le condotte
di cui ai successivi capi, mentre neppure il ricorrente ha contestato la sua qualifica di
amministratore di fatto della Conglomerati srl, a fianco del padre e del fratello, in piena unità
di intenti con costoro.
3. Del tutto inconducente il quarto motivo che addebita alla decisione erronea applicazione
della legge penale e illogicità della motivazione, addirittura solo apparente, essendosi
sottovalutata la perdita di tutti beni della famiglia dell’imputato, sottoposti ad esecuzione
forzata. La corte territoriale non ha infatti mancato di rilevare la mancanza di significatività di
tale evento, frutto del fallimento in proprio dell’imputato e delle garanzie prestate in favore dei
creditori delle società in accomandita semplice poi fallite, ma privo di ricadute sul fallimento
della Conglomerati.
4. Il motivo sul trattamento sanzionatorio è manifestamente infondato. Le parziali ammissioni
di responsabilità hanno infatti già ricevuto riconoscimento nella riduzione della pena inflitta in
primo grado, né ciò è in contraddizione con il diniego di attenuanti generiche, ineccepibilmente
ancorato alla capacità a delinquere dimostrata dal fatto che le vicende delle due società in
accomandita semplice poi fallite non avevano trattenuto l’imputato da nuove iniziative
imprenditoriali in spregio alla legge fallimentare.

Giuseppe Vincenzo D’Avilla

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amministratore di fatto della fallita, come a sottintendere che, perciò stesso e perciò solo, egli

Il ricorso di Giuseppe Vincenzo D’Avilla, che, secondo la prospettazione accusatoria, cumula i
due ruoli di amministratore di fatto rispettivamente della fallita Conglomerati e della VAMI che,
facente capo formalmente alla sorella Rosa, aveva acquistato simulatamente beni della prima
nell’imminenza del suo fallimento, è inammissibile.
1.

La prima censura è connotata da manifesta infondatezza se si considera che

l’interpretazione dell’art. 238 bis cod. proc. pen. patrocinata dal ricorrente, e cioè che le
sentenze irrevocabili acquisite ai sensi di tale norma non sarebbero utilizzabili nei confronti di

tenore testuale della disposizione, che recita ‘le sentenze divenute irrevocabili possono essere
acquisite ai fini della prova di fatto in esse accertato’, senza alcuna limitazione alla riferibilità
del fatto accertato al soggetto imputato nel procedimento in cui dette sentenze vengono
acquisite. Del resto l’utilizzabilità erga omnes del fatto accertato non è in alcun modo lesiva del
diritto di difesa del terzo, garantito dalle limitazioni, regolate dall’art. 192, comma 3, cod. proc.
pen., cui l’art. 238 bis cod. proc. pen. fa espresso richiamo, che assistono l’efficacia probatoria
del fatto accertato nel diverso procedimento.
1.1 Del pari manifestamente infondato l’assunto del ricorrente di genericità, insufficienza e
mancanza di carattere individualizzante dei riscontri indicati dai giudici di merito, come pure di
mancata individuazione delle condotte dell’imputato nell’ambito della poi fallita Conglomerati
anche ammesso che nel procedimento a carico del Miceli si fosse accertato che la funzione
della Conglomerati srl era di consentire ai membri della famiglia D’Avilla di continuare ad
esercitare le attività economiche da anni gestite sul territorio.
Invero, come evidenziato dalla corte palermitana, posto che dalla sentenza acquisita risultava
che Miceli era il prestanome dei tre D’Avilla, una lunga serie di elementi, di natura dichiarativa
e captativa, evocati nella pronuncia impugnata con certosina precisione (da pag. 16 a pag.
21), riscontra la qualifica del prevenuto di coamministratore di fatto della Conglomerati, non
ultimi gli accertati sforzi per assicurare il travaso dalla fallita Burgio Calcestruzzi sas alla
neonata Conglomerati, prima ancora della sua registrazione nel registro delle imprese, di
commesse e di clienti, nonchè dei pagamenti che costoro avrebbero dovuto effettuare alla
Burgio, mentre non è mancato l’esame delle fonti dichiarative invocate in contrario dalla difesa,
accompagnato dalla valutazione della loro inidoneità a smentire l’attribuzione a Giuseppe
Vincenzo D’Avilla del ruolo di amministratore di fatto.
2. Del tutto privo di fondamento è l’assunto, di cui al secondo motivo di doglianza, della
equiparazione soltanto a limitati effetti della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di
condanna, essendo il dettato normativo orientato esattamente in senso contrario e cioè che
tale equiparazione vale sempre ‘salve diverse disposizioni di legge’ (art. 445, comma 1 bis,
cod. proc. pen.). Correttamente quindi la corte territoriale ha valutato a carico del ricorrente
la sentenza di patteggiamento emessa nei suoi confronti per reati connessi al fallimento della
Burgio Conglomerati Bituminosi sas, relativa alla vicenda della stipulazione con la
Conglomerati, nell’imminenza del fallimento delle due sas, di un contratto di affitto degli
16

terzi rimasti estranei ai procedimenti nei quali esse sono state pronunciate, è sconfessata dal

impianti in tal modo sottraendoli alla garanzia dei creditori. Senza contare che la condotta
successiva del prevenuto, sopra ricordata, conferma che la Conglomerati era sorta dalle ceneri
delle società fallite del gruppo D’Avilla, per continuare ad operare, questa volta sotto lo
schermo di una società di capitali e sotto il nome del Miceli, nell’identico settore di attività
tradizionalmente proprio della famiglia D’Avilla.
3. Il terzo motivo di gravame è affetto da genericità dal momento che la censura di violazione
di legge e vizio di motivazione in ordine all’utilizzo nella sentenza di primo grado
prestato il consenso, non è accompagnata né dal riferimento a tale utilizzo anche da parte del
giudice di secondo grado, né dall’indicazione della parte di interrogatorio asseritamente
utilizzata.
4. Il quarto motivo è ripetitivo di doglianze già proposte e disattese con adeguata motivazione
e comunque manifestamente infondato avendo la corte palermitana, da un lato, escluso che il
fatto sub D configurasse reato impossibile rilevando che gli impianti ceduti non erano quelli in
leasing sia perché la loro asserita corrispondenza a questi ultimi era stata genericamente
indicata non essendo precisati quelli coincidenti, sia perchè, comunque, nel 1994 la
Conglomerati li aveva riscattati e quindi erano diventati di sua proprietà, dall’altro ritenuto
ammessa ed accertata, alla stregua della sentenza acquisita a carico del Miceli, la
strumentalità della locazione degli impianti da parte delle due sas alla Conglomerati a
consentire la prosecuzione dell’attività sotto diversa denominazione.
5. A dimostrazione della manifesta infondatezza del quinto motivo, tra l’altro pure generico, si
rinvia a quanto osservato, sul punto dell’attribuzione al prevenuto della qualifica di
amministratore di fatto della Conglomerati, trattando il primo motivo di gravame nella parte
relativa a tale specifico profilo.
6. Il sesto motivo, che investe il riconoscimento in capo all’imputato della qualifica di
amministratore di fatto della VAMI Prefabbricati srl, di cui era legale rappresentante Rosa
D’Avilla e della quale egli sarebbe stato solo un dipendente, e addebita travisamento della
prova alla portata confessoria attribuita al suo interrogatorio in data 22.12.2005, prospetta
nulla più che una ricostruzione alternativa della valutazione delle prove effettuata, con
motivazione logica e coerente, nella sentenza impugnata.
Sentenza che, oltre a far leva sull’ammissione del prevenuto di essere il gestore della VAMI,
anche se non il suo amministratore (ruolo ricoperto infatti formalmente dalla sorella), ha
ineccepibilmente valorizzato numerosi altri elementi a sostegno del qualifica dell’imputato di
amministratore di fatto di tale società, rilevando che l’attività della Burgio Calcestruzzi, a lui
facente capo, era stata proseguita dalla Conglomerati e poi dalla VAMI, acronimo, quest’ultimo,
formato con le iniziali dei nomi delle sue figlie, della quale egli aveva promosso la costituzione
coinvolgendo la sorella, come risultava da numerose intercettazioni telefoniche, specificamente
richiamate, chiare nell’indicare anche che era lui ad occuparsi di tutti gli aspetti della gestione.

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dell’interrogatorio in data 19-2-2005 di Calogero D’Avilla, nonostante il ricorrente non avesse

7. Il motivo sul trattamento sanzionatorio è manifestamente infondato. Le parziali ammissioni
di responsabilità hanno infatti già ricevuto riconoscimento nella riduzione della pena inflitta in
primo grado, né ciò è in contraddizione con il diniego di attenuanti generiche, ineccepibilmente
ancorato alla capacità a delinquere dimostrata dal fatto che le vicende delle due società in
accomandita semplice poi fallite non avevano trattenuto l’imputato da nuove iniziative
imprenditoriali in spregio alla legge fallimentare.

Il ricorso nell’interesse di Rosa D’Avilla è inammissibile.
Invero le censure inerenti all’elemento oggettivo del reato sub C), relativo alla cessione dei
beni strumentali dalla fallita alla VAMI senza corrispettivo, in assenza di utilizzo di mezzi
bancari -mentre, secondo la ricorrente, plurimi elementi deporrebbero per la corresponsione
del prezzo in contanti (il prelievo bancario del capitale sociale, pari a 20 milioni di lire,
interamente versato; la presenza nella cassa cartolare della Conglomerati di oltre cento milioni
di lire, importo comprensivo del prezzo di quella vendita; il mancato esperimento di azioni
revocatorie; il sequestro della fattura e di altri documenti presso la sede amministrativa della
VAMI)-, sono state controbattute, punto per punto, in sentenza trattando la posizione di
Giuseppe Vincenzo D’Avilla (da pag. 31), laddove si è in particolare sottolineato che, essendo
la VAMI titolare di un conto corrente, era inverosimile che avesse ritirato oltre 14 milioni di lire
per consegnarli in contanti alla Conglomerati, senza contare, da un lato, che la somma sarebbe
stata ritirata oltre venti giorni dopo che in calce alla fattura era stato annotato l’avvenuto
pagamento in contanti, dall’altro che la cassa della Conglomerati non fu reperita dal curatore.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Miceli Giuseppe, D’Avilla Vincenzo, D’Avilla
Giuseppe Vincenzo e D’Avilla Rosa seguono le statuizioni di cui all’art. 616 cod. proc. pen.,
determinandosi in C 1000, in ragione della natura delle questioni dedotte, la somma da
corrispondersi da ciascuno alla Cassa delle Ammende.
Al rigetto dei ricorsi di D’Avilla Calogero e Davilla Mario segue la condanna di ciascuno al
pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.

Dichiara inammissibili i ricorsi di Miceli Giuseppe, D’Avilla Vincenzo, D’Avilla Giuseppe Vincenzo
e D’Avilla Rosa che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali e della
somma di C 1000 in favore della Cassa delle Ammende.
Rigetta i ricorsi di D’Avilla Calogero e Davilla Mario che condanna singolarmente al pagamento
delle spese processuali.

D
_SPOSITATA
IN CANCELLERIA

Così deciso in Roma, il 13-11- ul

f,I1 Presidente

Rosa D’Avilla

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