Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 795 del 09/06/2017


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 795 Anno 2018
Presidente: CAVALLO ALDO
Relatore: CERRONI CLAUDIO

Data Udienza: 09/06/2017

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Vitali Matteo, nato a Ravenna il 10/03/1965

avverso la sentenza del 15/07/2016 della Corte di Appello di Bologna

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Claudio Cerroni;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio
Baldi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
udito per l’imputato l’avv. Giuseppina Ferro in sostituzione dell’avv. Vincenzo
Saponara, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 15 luglio 2016 la Corte di Appello di Bologna ha
confermato, per quanto interessa, la sentenza del 28 novembre 2012 del
Tribunale di Ravenna, in forza della quale Matteo Vitali, in qualità di legale
rappresentante della Vivicom s.r.I., era stato condannato alla pena di anni tre
mesi tre di reclusione per il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 2 d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74, in relazione agli anni d’imposta da 2005 a 2008, con revoca dei

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benefici in precedenza concessi e con l’irrogazione delle previste sanzioni
accessorie, con recidiva reiterata.
2. Avverso la predetta decisione l’imputato, tramite il difensore, ha proposto
ricorso per cassazione articolato su tre motivi d’impugnazione.
2.1. Col primo motivo è stata dedotta contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione, dal momento che il rapporto tra il Vitali e gli altri imprenditori
italiani importatori di autovetture straniere, che in tesi avrebbero svolto
solamente il ruolo di “cartiere” per favorire l’indebita creazione di credito Iva,

laddove il prospettato accordo criminoso in realtà rappresentava l’esecuzione di
un contratto di commissione, con l’interposizione effettiva delle persone che
avrebbero emesso le fatture considerate inesistenti, sì che non poteva parlarsi di
fatturazione di operazioni soggettivamente inesistenti.
Oltre a ciò il cliente finale non sceglieva assieme al Vitali l’autovettura da
acquistare, bensì operava una mera puntuazione per un bene che doveva ancora
essere individuato, ed il versamento della caparra aveva solamente la funzione di
fermare l’affare. Si trattava di un contratto a formazione progressiva e
comunque di una fattispecie, appunto, di interposizione reale, nella quale
l’obbligazione tributaria gravava sui primi importatori, mentre al ricorrente
veniva solamente ritrasferito il bene per la successiva destinazione all’acquirente
italiano.
2.2. Col secondo motivo, sempre in tema di contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione, il ricorrente ha rilevato che la sentenza non forniva la
prova della partecipazione del ricorrente alla frode tributaria, trattandosi invero
dell’esecuzione del contratto di commissione, né i commissionari erano estranei
alla scelta del bene da acquistare, che anzi individuavano e procuravano in
specie al Vitali.
2.3. Col terzo motivo infine, quanto all’elemento soggettivo del reato, era
/
costante l’insegnamento secondo cui la prova della cd. frode carosello non
poteva risolversi in una mera presunzione di fatto, laddove in ogni caso
incombeva sull’Amministrazione finanziaria la prova, in specie mancante, della
consapevolezza della frode fiscale da parte dell’acquirente, atteso che al riguardo
l’onere motivazionale sarebbe stato soddisfatto incongruamente dalla sola prova
dell’esistenza di rapporti di amicizia tra il Vitali e gli altri soggetti coinvolti.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso del rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è inammissibile.

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doveva invece inquadrarsi nello schema del mandato senza rappresentanza,

Osserva preliminarmente la Corte che l’esame dei motivi di ricorso può
essere effettuato prendendo in considerazione sia la motivazione della sentenza
impugnata sia quella della sentenza di primo grado, e ciò in quanto i giudici di
merito hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni che possono
essere valutati congiuntamente ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda
processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente. E’ infatti
appena il caso di ricordare che qualora il giudice d’appello abbia accertato e
valutato, come in specie, il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli

merito costituiscono una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre far
riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e
completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella
d’appello (Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Scardaccione, Rv.
197250). Invero, allorché le sentenze di primo e secondo grado concordino
nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle
rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda
con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (ex
plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906).
4.1. Ciò posto, il provvedimento impugnato, siccome letto in unione alla
sentenza del primo Giudice ravvenate alla stregua delle considerazioni che
precedono, appare esente da censura e certamente non affetto dai denunciati
vizi motivazionali di cui ai tre profili denunciati, il cui esame può avvenire
congiuntamente quanto ai primi due motivi, strettamente connessi.
In proposito, infatti, è stato dato adeguato conto dell’articolarsi della
vicenda anche sotto il profilo delle indagini svolte, che avevano preso le mosse
da un’originaria ipotesi di mera evasione fiscale da parte dei titolari delle ditte
Fecar e Gemelli s.r.l. (i cui voluminosi giri d’affari derivanti dall’acquisto di
autovetture in Germania non erano stati accompagnati da adeguati riscontri
erariali, in considerazione della mancata presentazione di dichiarazioni dei redditi
e dell’omesso pagamento dell’Iva, né erano sostanzialmente giustificati, stante la
totale inconsistenza materiale ed organizzativa delle rispettive aziende) per
giungere alla prospettazione di una fattispecie delittuosa nel cui ambito, e nelle
forme della cd. frode carosello, costoro erano fittiziamente interposti
nell’acquisto dei veicoli da parte dei commercianti italiani reali acquirenti, i quali
in tal modo, in virtù dell’indebito maturarsi di un credito Iva a loro favore,
omettevano il pagamento del dovuto al Fisco (laddove gli interposti, sui quali
incombeva l’obbligazione, nulla comunque versavano).
In particolare, e sempre ai fini di adeguata e sintetica comprensione della
fattispecie sottostante, i Giudici di merito hanno ricostruito le modalità con le
quali avvenivano gli acquisti di autovetture, allorché gli acquirenti italiani

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usati dal giudice di primo grado, le motivazioni delle sentenze dei due gradi di

fornivano la provvista o comunque coprivano tutte le spese necessarie, gli
interposti si recavano in Germania per ritirare le autovetture la cui scelta era
avvenuta tra il commerciante italiano ed il cliente finale, senza alcun intervento
ulteriore e senza che agli interposti fosse lasciato margine alcuno di
discrezionalità nell’individuazione e nel ritiro dei veicoli, già determinati nel corso
delle trattative (come si evinceva dal riepilogo, recato in sentenza, delle
testimonianze assunte).
Oltre a ciò, emergevano altresì vendite finali apparentemente sottocosto, a

commercianti italiani, e mai in realtà pagata; nonché documentazioni, rinvenute
in occasione delle perquisizioni e dei relativi sequestri, relative ad es. ai rapporti
direttamente intrattenuti tra i commercianti italiani e i venditori germanici,
ovvero a doppie fatture recanti contraffazione materiale delle fatture originali.
Ciò posto, il ricorrente / in buona misura/ neppure si confronta col complessivo
materiale istruttorio siccome rievocato ovvero con la motivazione
complessivamente resa.
Nulla viene infatti aggiunto quanto alla rilevata inconsistenza aziendale di
Fecar e Gemelli; nulla è dedotto in relazione al rinvenimento di inequivoca
documentazione attestante i diretti rapporti tra i commercianti italiani e i
venditori d’Oltralpe, ovvero in ordine alle doppie fatture rintracciate nel corso
delle attività d’indagine; nulla è specificamente contestato quanto alle
deposizioni testimoniali puntualmente rievocate.
Parte ricorrente infatti ha insistito sulla natura del rapporto come
commissione e quindi come mandato senza rappresentanza, avvalorata dal fatto
che i pretesi interposti erano tenuti indenni dalle spese ed era loro fornita la
provvista per gli acquisti oltreconfine.
A questo proposito, peraltro, non può non concordarsi con quanto osservato
dai Giudici territoriali, laddove uno dei titolari delle ditte in tesi interposte era
stato definito come “collaboratore-autista” in una comunicazione rivolta ad un
venditore germanico, così palesando un ruolo meramente esecutivo nella
vicenda; mentre al contempo non era stata rintracciata alcuna prova del
contratto di commissione.
Né va sottaciuto che l’importo delle operazioni contestate era di quasi un
milione e ottocentomila euro, per cui entità del genere avrebbero
ragionevolmente richiesto una traccia convenzionale formale. Mentre in ogni
caso, nonostante la naturale onerosità del contratto invocato di commissione, in
alcun modo risulta provata l’erogazione di un compenso ovvero comunque di una
provvigione in favore dei soggetti in tesi interposti.
In ogni caso, peraltro, va ricordato che alla Corte non è rimesso affatto un
giudizio sul dissenso, pur motivato, del ricorrente in ordine al risultato del
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conferma del fatto che l’Iva sarebbe stata solamente recuperata dai

procedimento valutativo operato dal giudice di merito. Oggetto della censura
deve essere l’iter motivazionale e la connessione logica delle argomentazioni
della sentenza impugnata. Ciò implica l’individuazione di un “passaggio
motivazionale”, che il ricorrente censura perché – a suo avviso – illogico o
contraddittorio, utilizzando a tal fine anche “atti del processo specificamente
indicati nei motivi di gravame”. Come anche l’isolamento di un’affermazione della
sentenza impugnata che, in quanto meramente assertiva, risulti non porsi in
connessione logica nel tessuto argomentativo della motivazione dà adito ad una

Nell’una e nell’altra ipotesi però la censura di vizio di motivazione è tutta
focalizzata sul testo della sentenza impugnata e sull’analisi critica della rete di
connessioni logiche che legano le affermazioni di cui la motivazione si compone.
Il controllo della Cassazione, in presenza di un eccepito vizio motivazionale,
ha un orizzonte circoscritto e va confinato alla verifica della esistenza di un
apparato argomentativo non contraddittorio né manifestamente illogico del
provvedimento impugnato.
Rimane comunque fermo il divieto per la Cassazione – in presenza di una
motivazione non manifestamente illogica o contraddittoria – di una diversa
valutazione delle prove, anche se plausibile. Di conseguenza, non è comunque
sufficiente che alcuni atti del procedimento siano astrattamente idonei a fornire
una ricostruzione diversa e più persuasiva di quella operata nel provvedimento
impugnato; occorre che le prove, che il ricorrente segnala a sostegno del suo
assunto, siano decisive e dotate di una forza esplicativa tale da vanificare l’intero
ragionamento svolto dal giudice sì da rendere illogica o contraddittoria la
motivazione (cfr. in motivazione, Sez. 3, n. 14437 del 22/01/2014, C., Rv.
258700).
In specie, per quanto detto ed a prescindere da ogni ulteriore
considerazione, la motivazione addotta non appare certamente illogica, né
comunque la diversa valutazione delle prove, in cui in realtà si sostanzia
complessivamente la censura, si dimostra convincente.
4.3. In relazione infine al terzo motivo di ricorso, è stato recentemente
osservato che in tema di evasione dell’IVA mediante il meccanismo delle cd. frodi
carosello che, nelle operazioni di importazione di beni, sfrutta la neutralizzazione
dell’IVA all’acquisto mediante l’interposizione di società cartiere, aventi il solo
scopo di emettere fatture – con l’esposizione di un’imposta in realtà non versata
– destinate ad essere utilizzate nella catena delle cessioni per creare crediti
d’imposta inesistenti, una volta appurata l’oggettiva sussistenza della frode
attraverso la ricostruzione dei passaggi in cui, in concreto, detto meccanismo si
estrinseca, è insita nella stessa gestione di fatto delle società coinvolte, e
conseguentemente nella regia e supervisione delle operazioni commerciali dalle

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censura di mancanza di motivazione.

stesse poste in essere, la piena consapevolezza, in capo ai soggetti agenti, del
sistema fraudolento complessivo (Sez. 3, n. 18924 del 20/01/2017, Pelliccio e
altri, Rv. 269903).
Al riguardo, è sufficiente rievocare la piena e consapevole partecipazione
dell’odierno ricorrente alla vicenda delittuosa, desumibile con certezza proprio
dai meccanismi evidenziati e pienamente rievocati nelle fasi di merito, nonché
dalle emergenze testimoniali se non altro in relazione all’effettività dei rapporti
ed alle modalità di scelta degli autoveicoli (il Tribunale ravennate ha anche

acquisti in qualche modo condotti in autonomia all’estero dai titolari delle
“cartiere” rientrassero tra le poste contestate all’odierno ricorrente).
Né va censurato il richiamo ai rapporti di amicizia esistenti tra le parti,
atteso che l’intesa personale preesistente certamente favoriva la prosecuzione
nel tempo dell’illecito traffico, nella piena generale consapevolezza come
correttamente rappresentato.
5. Il ricorso non è in grado di varcare la soglia dell’ammissibilità, stante la
manifesta infondatezza dei motivi addotti alla stregua delle considerazioni che
precedono.
Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte
costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per
ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria
dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen.,
l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma,
in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma il 09/06/2017

puntualmente sceverato acquisti e relative circostanze, escludendo che i pochi

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