Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7904 del 07/01/2016


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 7904 Anno 2016
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: BELLINI UGO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Criaco Alessandro nato il 11.8.1985
Pucci Antonio

nato il 26.2.1964

avverso la sentenza n.2592/2010 Corte di Appello di Torino del 23.2.1995

Visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 7.1.2016 la relazione fatta dal consigliere dott.
Ugo Bellini;
Udito il Procuratore Generale in persona del dott. Enrico Delehaye che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Nessun difensore è presente.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Torino con sentenza del 17.7.2009 riteneva Pucci Antonio e
Criaco Alessandro responsabili del reato di tentato furto in edificio, aggravato in
quanto commesso da tre persone, in concorso anche con Daga Andrea, così
riqualificata la originaria imputazione di concorso in rapina impropria aggravata dal
numero delle persone e dall’impiego di armi, nonché Pucci Antonio anche di altra

Data Udienza: 07/01/2016

ipotesi di furto aggravato da violenza sulle cose, fatti realizzati in data 17.10.2008
in Settimo Milanese in un deposito a cielo aperto recintato ove erano custoditi
materiali edili di diverso tipo. Criaco Alessandro invece veniva assolto dal reato di
concorso nel furto consumato aggravato e entrambi erano assolti dalla
contestazione della detenzione di strumenti atti a offendere utilizzati per la
realizzazione del reato, poi riqualificato, di rapina impropria.
2. Sull’appello avanzato da entrambi gli imputati la Corte di Appello di Torino aveva

stato condannato dal primo giudice alla pena di mesi dieci di reclusione e € 200 di
multa con il riconoscimento delle circostanze attenuanti ritenute prevalenti sulla
contestata aggravante, mentre in accoglimento parziale della impugnazione,
assolveva Pucci Antonio dal reato di furto aggravato consumato in concorso per non
avere commesso il fatto e rideterminava la pena irrogato per il reato sub 1
(concorso in furto tentato aggravato) in anni uno mesi due di reclusione ed € 300 di
multa.
3. Avverso la suddetta sentenza proponevano ricorso per cassazione ciascuno dei
due imputati deducendo quanto segue: 3.1 entrambe le difese in via preliminare
chiedevano dichiararsi la nullità della sentenza per mancata assunzione di una
prova decisiva, rappresentata da una perizia volta ad evidenziare se effettivamente,
come risultava dalla originaria contestazione, gli imputati ricorrenti avessero
maneggiato gli strumenti atti ad offendere con i quali le persone offese del reato
assumevano essere state minacciate dopo avere sorpreso i tre uomini intenti a
caricare materiale edile all’interno dello spazio recintato ove era custodito;
evidenziavano che sebbene fosse risultata esclusa la fattispecie di rapina impropria,
l’accertamento tecnico sarebbe servito a fugare qualsiasi dubbio su tale circostanza
e avrebbe rafforzato l’attendibilità dei ricorrenti anche in relazione a quanto da essi
dichiarato in punto a mancata consapevolezza dell’altruità dei beni del cui recupero
erano stati incaricati dal Daga. 3.2 Con un secondo motivo entrambe le difese
deducevano vizio motivazionale in relazione alla sussistenza dell’elemento
soggettivo del reato di cui agli art. 56, 624 bis e 625 n.5 c.p., evidenziando
entrambi gli imputati come il giudice territoriale avesse errato nel trarre elementi di
convincimento a carico degli imputati dal loro comportamento processuale, in
quanto gli stessi avrebbero fornito elementi a sostegno della propria innocenza
soltanto nel corso del dibattimento, mentre gli stessi fin dall’interrogatorio in sede
di convalida e in quello reso al Pnn, non solo non avevano ammesso la
contestazione ma si erano difesi sostenendo di ritenere che si trattasse di un lavoro
lecito; ugualmente errata era la motivazione nel valorizzare, a carico dei ricorrenti
la circostanza che i luoghi ove doveva essere eseguito il lavoro di recupero di
materiale edile fossero recintati, provvisti di sbarra e di cancello, in quanto non

confermato le statuizioni del primo giudice nei confronti del Criaco, il quale era

risultava provato che l’apertura fosse stata forzata dagli imputati in occasione del
loro ingresso e pertanto la loro condizione di buona fede era assolutamente
compatibile con le rassicurazioni forniti dal Daga e con la apertura del passaggio;
né la motivazione della corte di appello poteva ritenersi logica e coerente nella
parte in cui dava rilievo, al fine di individuare l’elemento soggettivo del reato, al
valore apprezzabile del materiale recuperato in quanto tale fatto non rivestiva
alcuna incidenza sull’elemento psicologico, né assumeva rilievo il fatto che il Criaco

di una serie di soggetti che maneggiavano delle spranghe e che si dirigevano verso
gli imputati con fare minaccioso, di talchè il Criaco aveva temuto per la propria
incolumità personale. 3.3 Quanto al trattamento sanzionatorio il Pucci denunciava
vizio motivazionale del giudice di appello in fase di rideterminazione della pena in
quanto aveva omesso di evidenziare i criteri impiegati per giungere alla sua
fissazione, non potendo sopperire a tal fine un mero richiamo a principi di
adeguatezza, ma dovendo il giudice fornire spiegazione della concreta valutazione
dei criteri fissati dall’art.133 c.p.; Analogamente il Criaco era a lamentare vizio
motivazionale sul mancato contenimento della pena, richiesto dalla difesa nei motivi
di appello, entro i minimi edittali.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1.11 primo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato nella parte in cui i
ricorrenti, ai fini di fornire maggiore conforto di attendibilità alle dichiarazioni dagli
stessi rese in sede di esame con particolare riferimento alla mancanza dell’elemento
soggettivo dell’unico reato (furto tentato in concorso) per il quale sono stati ritenuti
responsabili, dopo la intervenuta assoluzione per le altre fattispecie, assumono che
il giudice di appello abbia omesso di disporre perizia volta ad accertare una
circostanza (presenza di impronte digitali su alcuni strumenti per lavori edili
peraltro atti ad offendere) la cui diretta valenza si sarebbe certamente riverberata
rispetto ad altra fattispecie ad essi contestata (rapina impropria), ma in realtà
assolutamente irrilevante nella dinamica dei fatti relativi al fatto come riqualificato
dal giudice del dibattimento (appunto furto tentato in concorso). A questo proposito
ha statuito il giudice di legittimità che il vizio della sentenza previsto dall’articolo
606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. e consistente nella mancata assunzione di
prova decisiva costituisce un “error in procedendo” che si verifica allorché l’omessa
assunzione riguardi una prova tale da incidere in modo significativo sul
procedimento decisionale seguito dal giudice e da determinare, di conseguenza,
una differente valutazione complessiva dei fatti e portare in concreto a una
decisione diversa: il che ha luogo quando la prova abbia ad oggetto un elemento di
fatto che, inserito nel quadro probatorio, conduca a una diversa ricostruzione della

si fosse dato alla fuga, atteso che la stessa era stata determinata dal manifestarsi

fattispecie concreta così come risultava sulla base delle precedenti acquisizioni, e
non quando l’elemento nuovo che si chiede di provare sia costituito da una
circostanza già acquisita con certezza di prova al processo (Cass. Sez.VI, 24.6.2003
n.35122; 24.10.2005 n.14161). Appare evidente che i ricorrenti non mirino ad una
nuova ricostruzione della fattispecie concreta, la quale ormai è definita
irrevocabilmente in quanto non è intervenuta impugnazione sul punto, ma
intendevano utilizzare la prova (in realtà la perizia) per ammantare di maggiore

giudice, piegando in tal modo il mezzo di accertamento per finalità estranee alla
fattispecie cui la prova si riferisce, tenuto altresì conto che la maggiore o minore
attendibilità di un imputato non costituisce elemento fattuale suscettibile di prova
tecnica, ma rappresenta espressione e semmai approdo del potere del giudice e in
particolare della valutazione da parte di questi di valutare il complesso degli
elementi probatori, tecnici ed indiziari presenti nel processo. La circostanza poi che
il giudice del merito abbia escluso la ipotesi della rapina impropria, rappresenta di
per sì diretto riscontro al fatto che le persone offese non sono state ritenute
attendibili sul punto mentre sono state accolte le difese proposte dai ricorrenti.
Pertanto, conformemente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, la prova
richiesta dai ricorrenti non solo non era decisiva ma era altresì inammissibile per
carenza delle finalità proprie cui la stessa era diretta.
2. Quanto al secondo motivo di ricorso afferente il vizio di motivazione sul ritenuto
elemento soggettivo del reato di furto in capo ai prevenuti, i quali variamente
prospettano profili di illogicità e contraddittorietà della motivazione del giudice di
appello, travisamento degli elementi di prova acquisiti in relazione al
comportamento processuale tenuto dagli imputati da cui desumere una sostanziale
ammissione di responsabilità sul punto, deve preliminarmente affermarsi come la
Corte di Appello non si sia limitata, come prospettato dai ricorrenti, a fare proprie le
motivazioni del primo giudice ma ha fornito convincente e adeguata risposta alle
ragioni di doglianza introdotte da ciascun imputato, ripercorrendo l’iter logico
giuridico della posizione assunta da ciascun imputato e fornendo una ricostruzione
dei singoli episodi in contestazione con il puntuale richiamo a circostanze desumibili
dagli atti di indagine e a elementi di fatto pacificamente emersi nel giudizio di primo
grado a sostegno del proprio argomentare.
3. Sotto questo profilo va poi preliminarmente osservato che in ossequio a principi
ripetutamente affermati da questa Corte, che, in punto di vizio motivazionale,
compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa vigente, è quello di
accertare (oltre che la presenza fisica della motivazione) la coerenza logica delle
argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, non
già quello di stabilire se la stessa proponga la migliore ricostruzione dei fatti.

9d-‘

attendibilità le proprie dichiarazioni riguardanti il nuovo fatto come riqualificato dal

Neppure il giudice di legittimità è tenuto a condividerne la giustificazione, dovendo
invece egli limitarsi a verificare se questa sia coerente con una valutazione di
logicità giuridica della fattispecie

nell’ambito di

una plausibile opinabilità di

apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non consente alla
Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa
interpretazione delle prove, essendo estraneo al giudizio di legittimità il controllo
sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (ex pluribus:
Cass. n. 12496/99, 2.12.03 n. 4842, rv 229369, n. 24201/06); pertanto non può

ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. È stato affermato,
in particolare, che la illogicità della motivazione, censurabile a norma del citato art.
606 c.p.p., comma 1, lett. e), è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare
percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione
limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico
apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata (Cass. SU n.
47289/03 rv 226074). Detti principi sono stati ribaditi anche dopo le modifiche
apportate all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) dalla L. n. 46 del 2006, che ha
introdotto il riferimento ad “altri atti del processo”, ed ha quindi, ampliato il
perimetro d’intervento del giudizio di cassazione, in precedenza circoscritto “al
testo del provvedimento impugnato”. La nuova previsione legislativa, invero, non
ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane comunque un giudizio di
legittimità, nel senso che il controllo rimesso alla Corte di cassazione sui vizi di
motivazione riguarda sempre la tenuta logica, la coerenza strutturale della
decisione. Precisazione, quella appena svolta, evidentemente necessaria, avendo i
ricorrenti denunciato, con il motivo di ricorso, anche il vizio di travisamento della
prova, assumendo che il giudice avrebbe ritenuto come ammesso un
comportamento sostanzialmente confessorio. Così come sembra opportuno
precisare che il travisamento, per assumere rilievo nella sede di legittimità, deve,
da un lato, immediatamente emergere dall’obiettivo e semplice esame dell’atto,
specificamente indicato, dal quale deve trarsi, in maniera certa ed evidente, che il
giudice del merito ha travisato una prova acquisita al processo, ovvero ha omesso
di considerare circostanze risultanti dagli atti espressamente indicati; dall’altro,
esso deve riguardare una prova decisiva, nel senso che l’atto indicato, qualunque
ne sia la natura, deve avere un contenuto da solo idoneo a porre in discussione la
congruenza logica delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito.
4. Orbene, alla stregua di tali principi, deve prendersi atto del fatto che la sentenza
impugnata non presenta alcuno dei vizi dedotti dai ricorrenti, atteso che l’articolata
valutazione, da parte dei giudici di merito, degli elementi probatori acquisiti, rende
ampio conto delle ragioni che hanno indotto gli stessi giudici a ritenere la

integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il

responsabilità degli imputati, mentre le censure proposte da Pucci e Criaco
sostanzialmente rivolte a riproporre argomenti già esposti in sede di appello, che
tuttavia risultano ampiamente vagliati e correttamente disattesi dalla Corte
territoriale, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle
risultanze processuali, fondata su una valutazione alternativa delle fonti di prova, in
tal modo richiedendo uno scrutinio improponibile in questa sede, presentano profili
di inammissibilità, a fronte della linearietà e della adeguatezza della struttura

indicato una serie di elementi a sostegno del proprio convincimento in punto a
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, di cui il comportamento in sede di
indagine degli imputati costituisce un minimo richiamo a confutazione della buona
fede da questi sostenuta, richiamo peraltro operato al solo fine di evidenziare le
scarne affermazioni fatte all’esito della convalida (siamo stati contatti dal Daga per
fare un lavoro di recupero di ferro) a fronte delle giustificazioni fornite in sede
dibattimentale. La Corte di Appello di Torino con ragionamento del tutto logico e
coerente ha in realtà valorizzato il dato principale rappresentato dal fatto che i
ricorrenti si erano posti a caricare il ferro all’interno di un’area c he aveva tutta
l’evidenza di essereprivata, come risultava dalla presenza di reti, di cancelli e della
sbarra, ancorchè privo di lucchetto, e dal carico da eseguire e cioè di materiale in
ferro di non trascurabile valore ivi custodito che, come dichiarato dal Criaco in sede
di interrogatorio dinanzi al PM (quale prova del travisamento) risultava impilato e
pronto per essere caricato; la circostanza poi che il Criaco si fosse dato alla fuga
non appena intervennero i proprietari dell’area costituisce evidenza, come riportato
dal giudice di appello, che lo stesso nutrisse molte perplessità sulla liceità di ciò che
stava realizzando. Il motivo deve pertanto essere disatteso.
5. Passando alle contestazioni relative al trattamento sanzionatorio il giudice
territoriale procede alla rideterminazione della pena nei confronti del Pucci con
motivazione scarna, che si integra con la sentenza di primo grado atteso che la
Corte di Appello, fermo restando il giudizio di valenza tra circostanze si limita a
dimezzare la pena applicata per le due ipotesi di furto e di furto tentato ritenuti dal
primo giudice, attribuendo alle due fattispecie la medesima rilevanza offensiva, in
punto a trattamento sanzionatorio e disvalore sociale, così che, esclusa la
ricorrenza di uno dei due reati, all’altro applica una pena che rappresenta la metà di
quella applicata dal primo giudice per entrambe le fattispecie che aveva
riconosciuto in capo all’imputato. Nel fare ciò il giudice si attesta su criteri medi
edittali, tenuto conto del fatto che il reato di cui all’art.624 bis c.p. è punito con la
pena da uno a sei anni e che la riduzione in presenza di reato tentato varia da un
terzo a due terzi e pertanto la scelta è stata operata tra un minimo di mesi quattro
e un massimo di anni quattro . Va a tale proposito ricordato che la determinazione

motivazionale della sentenza impugnata. In particolare la Corte territoriale ha

della misura della pena tra il minimo e il massimo editale rientra nell’ampio potere
discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia
valutato globalmente gli elementi indicati nell’art.133 c.p. Anzi non appare neppure
necessaria una motivazione specifica tutte le volte in cui la scelta del giudice
risulta, come nel caso in specie, in una fascia medio-bassa rispetto alla pena
edittale (ex plurinnis sez.IV, 20.9.2004 Nuciforo Rv 230278)
6. Ugualmente adeguata e sufficiente risulta la motivazione della sentenza della

Torino a Criaco Alessandro laddove, pure a fronte delle censure proposte in sede di
appello la corte territoriale, sulla base del principio della adeguatezza sanzionatoria
ha confermato la pena applicata al prevenuto (nella misura di mesi dieci di
reclusione), attestata anch’essa su criteri prossimi alla media edittale calcolata
altresì la riduzione per le circostanze attenuanti riconosciute con giudizio di
prevalenza.
7. In conclusione i motivi di ricorso vanno disattesi e i ricorrenti vanno condannati
al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7.1.2016.

Corte territoriale in relazione alla conferma della sanzione applicata dal Tribunale di

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