Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7876 del 16/12/2013
Penale Ord. Sez. 7 Num. 7876 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: SAVANI PIERO
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
ROMANO MARIO N. IL 08/10/1968
avverso la sentenza n. 2772/2012 TRIBUNALE di RIMINI, del
05/02/2013
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERO SAVANI;
Data Udienza: 16/12/2013
IN FATTO E DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Rimini applicava a ROMANO Mario, a norma degli
artt. 444 e 448 C.P.P., la pena concordata con il Pubblico Ministero in ordine al delitto di furto
pluriaggravato, commesso il 15 dicembre 2012.
Propone ricorso per cassazione l’imputato che deduce violazione di legge e difetto di motivazione per non esser stato applicato il disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. atteso che il furto sarebbe
stato qualificato come non aggravato e quindi procedibile a querela, laddove la querela non era
stata proposta.
Osserva il Collegio che i motivi di ricorso sono destituiti di specificità e comunque manifestamente infondati atteso che l’esclusione di due delle aggravanti non ha modificato la natura del
reato quale procedibile d’ufficio poiché la Corte di merito pur avendo escluso quelle
dell’esposizione alla pubblica fede e dell’utilizzo del mezzo fraudolento, ha pur sempre ritenuto
correttamente il delitto aggravato dalla violenza alle cose e quindi procedibile d’ufficio; ha poi
escluso che ricorressero i presupposti dell’art. 129 C.P.P., facendo riferimento al contenuto degli
atti delle indagini preliminari ed in particolare al verbale di arresto ed a quello di denuncia.
E tale motivazione, avuto riguardo alla speciale natura dell’accertamento in sede di applicazione
della pena su richiesta delle parti, appare pienamente adeguata ai parametri richiesti per tale genere di decisioni, secondo la costante giurisprudenza di legittimità (v., tra le altre, Sez. un., u.p.
27 marzo 1992, Di Benedetto; Sez. un., u.p. 27 settembre 1995, Serafino; Sez. un., u.p. 25 novembre 1998, Messina).
All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento e — per i profili di colpa correlati all’irritualità
dell’impugnazione — di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in €. 1.500,004.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di e. 1.500,00# in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 16 dicembre 2013.