Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 787 del 17/12/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 787 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ZIMBETTI ANGELO N. IL 24/03/1975
LOFFREDO DAMIANO N. IL 20/11/1973
STIGLIANO GENNARO N. IL 14/10/1981
TALOTTI NUNZIO N. IL 24/01/1979
avverso l’ordinanza n. 4951/2013 TRIB. LIBERTA’ di NAPOLI, del
02/07/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;
le:M/sentite le conchtsioni del PG Dott. /19,~) Ittow-toucpit QY
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Data Udienza: 17/12/2013

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza resa il 2 luglio 2013 il Tribunale del riesame di Napoli confermava
l’ordinanza emessa dal G.I.P. dello stesso Tribunale in data 30 aprile 2013, con la quale
era stata disposta nei confronti, tra gli altri, di Angelo Zimbetti, Gennaro Stigliano,
Nunzio Talotti, Damiano Loffredo la misura della custodia cautelare in carcere in quanto
rispettivamente sottoposti ad indagini, il secondo per i delitti di partecipazione ad
associazione di stampo mafioso (capo 1) e partecipazione ad associazione a delinquere

cessione di stupefacente del tipo cocaina, in un’occasione del peso di un kg., in altre
occasioni in quantitativi da tre a quattro kg. (capo 23), il terzo per i delitti di trasporto,
detenzione e cessione di stupefacente del tipo cocaina, in un’occasione del peso di cinque
kg., in altre occasioni in quantitativi da venti a trenta kg. (capo 22), il quarto per i delitti
di detenzione e porto illegali di armi da sparo. Annullava, invece, l’ordinanza applicativa
nei confronti dello Zimbetti con riferimento ai due delitti associativi di cui ai capi 1) e 2)
in applicazione del divieto di “bis in idem” perché già oggetto di contestazione in
precedente procedimento.
1.1 Dopo avere richiamato quale parte integrante del provvedimento le ragioni di
fatto e di diritto esposte nell’ordinanza genetica e quanto accertato con altro
provvedimento cautelare emesso dal G.U.P. del Tribunale di Napoli il 3/10/2011 sulla
scorta delle informazioni fornite dai collaboratori di giustizia Giuseppe Capasso, Carlo
Capasso, Salvatore Esposito e Vincenzo Lombardi in merito all’esistenza ed all’operato del
clan camorristico Di Lauro, insediato nell’area settentrionale di Napoli e dedito in modo
stabile al commercio di stupefacenti, sia cocaina e crack, che marijuana e hashish,
mediante una capillare organizzazione di squadre di spacciatori, attive in diverse “piazze
di spaccio”, fiancheggiate da vedette sul territorio, attività oggetto di minuziosa
contabilità, il Tribunale evidenziava l’acquisizione dei seguenti elementi indiziari.
-A carico dello Zimbetti, delle dichiarazioni dei collaboratori Antonio e Carlo Capasso, i
quali lo avevano indicato come il soggetto deputato a ricevere le forniture di
stupefacente, effettate al clan Di Lauro dal trafficante Michele Papi, contattato da Daniele
Tarantino, e recapitate per il tramite di Francesco Sorrentino, propalazioni ritenute
riscontrate, sia dagli appunti rinvenuti presso l’abitazione dell’indagato, costituenti la
contabilità dell’organizzazione e contenenti riferimenti a tale Mike o Miki Napoli ed a cifre
di denaro erogategli, in corrispondenza delle predette forniture, sia dalle videoriprese, sia
dalle conversazioni intercettate tra il coindagato Daniele Tarantino ed i familiari aventi ad
oggetti la conduzione degli affari illeciti in corso in quel momento con il Papi.
-A carico dello Stigliano, delle dichiarazioni di Antonio e Giuseppe Capasso, i quali lo
avevano concordemente indicato come affiliato al clan Di Lauro, inserito nelle squadre di
spaccio di droghe leggere nel rione Terzo Mondo, riscontrate dalle circostanze del s
l

finalizzata al traffico di droga (capo 2); il primo per i delitti di trasporto, detenzione e

arresto nella flagrante detenzione di stupefacente, avvenuto il 23 ottobre 2010 con altri
sodali anch’essi inseriti nelle “paranze” e dalla conversazione intercettata all’interno
dell’autovettura del coindagato Francesco Tramontano, nel corso della quale questi ed
altro affiliato avevano commentato con dispiace l’arresto dello Stigliano, detto o’
messicano, ed il fatto che l’organizzazione camorristica, detta il “sistema” aveva collocato
propri esponenti a capo delle piazze di spaccio per impedire furti e sottrazioni.
-A carico di Damiano Loffredo, le dichiarazioni dei germani Capasso i quali l’avevano
descritto quale scorta armata di Giuseppe Pica, detto Peppenella, prescelto per tale ruolo

comune detenzione, informazioni ritenute riscontrate dalla presenza, attestata da
videoriprese, dello stesso Loffredo nella circostanza in cui con i coindagati Santolo
Spasiano, Daniele Tarantino e Umberto Giardino avevano provveduto a sistemare un
motocarro Ape Piaggio con il cassone modificato per occultarvi armi e droga in un locale
nella disponibilità dello stesso Spasiano.
-A carico del Talotti, già condannato in separato procedimento per partecipazione ad
associazione camorristica e per avere ricoperto un ruolo dirigenziale nel settore del
narcotraffico, anche internazionale, per conto del clan Di Lauro, a favore del quale si era
anche occupato della tenuta della contabilità, erano utilizzate le dichiarazioni di Carlo e
Giuseppe Capasso circa gli specifici episodi di acquisto di vari chilogrammi di cocaina,
trattati dall’indagato per conto del clan Di Lauro con i trafficanti Cella e Mastellone(pag.
218) sino all’anno 2007, quando la seconda guerra con gli scissionisti e le minacce rivolte
ai due fornitori, li avevano indotti a cessare i rapporti con il clan Di Lauro.
1.2 Quanto alle esigenze cautelari, in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod.
pen. si riteneva sussistente la presunzione di pericolosità, stabilita dall’art. 275 cod. proc.
pen., comma 3, mentre per gli altri addebiti si ravvisava il pericolo di recidivazione
specifica in ragione dell’assoluta gravità delle condotte contestate, sintomatiche della
piena condivisione delle strategie e delle logiche camorristiche, nonché per la negativa e
trasgressiva personalità degli indagati, tutti gravati da precedenti anche giudiziari
allarmanti e l’adeguatezza della sola misura applicata.
2.Avverso tale provvedimento hanno proposto unico ricorso per cassazione gli
indagati a mezzo del loro difensore avv.to Diego Abete, il quale ha articolato i seguenti
motivi:
a) motivazione apparente ed omessa, in parte contraddittoria, in ordine alla sussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza circa i due reati associativi. Il Tribunale ha richiamato
l’ordinanza genetica senza replicare alle censure mosse col riesame, in particolare non ha
verificato se il gruppo organizzato dedito al traffico di droga fosse o meno autonomo
rispetto all’organizzazione di stampo mafioso e ha ritenuto configurabile il concorso tra le
due fattispecie associative, pur escluso per la posizione dello Zimbetti, in quanto il
traffico di droga costituiva l’unica finalità perseguita dall’associazione mafiosa, vi era
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4/1)

per il rapporto fiduciario pregresso instaurato con questi nel corso di un periodo di

,
identità di associati con fungibilità nei ruoli, di luogo operativo e di contabilità e difettava
la prova della commissione delle ulteriori tipiche attività camorristiche, mentre i fatti
concernenti armi o gli episodi violenti erano finalizzati al mantenimento del controllo del
mercato locale della droga. Inoltre, non si era rilevata l’assenza degli elementi sintomatici
dai quali desumere l’effettiva partecipazione ad associazione finalizzata al narcotraffico
per l’assenza di stabilità del vincolo e della volontà di far parte di compagine organizzata.
b) Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità della gravità
indiziaria in relazione alle chiamate in correità o reità provenienti dai collaboratori di

scelta della collaborazione, maturata nello stesso contesto temporale e nella convivenza,
in una situazione di circolarità delle notizie e di violazione delle disposizioni di legge che
regolano il trattamento dei collaboratori.
c) Violazione di legge e carenze motivazionali circa la ricostruzione degli indizi per le
singole posizioni dei ricorrenti, in quanto:
– per lo Stigliano non era configurabile l’appartenenza ad entrambi i sodalizi di cui ai capi
1) e 2), i collaboratori Giuseppe ed Antonio Capasso gli avevano attribuito il ruolo di
spacciatore di sostanze di tipologia diversa, e ciò in assenza di qualsiasi riferimento
temporale al momento di consumazione delle condotte, nonché lo svolgimento
dell’attività criminosa in luoghi distinti, senza che fossero stati acquisiti elementi di
riscontro esterni, posto che l’attività di osservazione ed i controlli svolti dalle forze
dell’ordine avevano evidenziato frequentazioni necessitate dal fatto di risiedere nel rione
“Terzo Mondo”. Inoltre, anche per la sua posizione avrebbero dovuto valere i rilievi,
operati dal Tribunale del riesame per i coindagati Albano, Barone e Longobardi.
-Quanto alla posizione dello Zimbetti, il quadro indiziario in ordine al delitto di cui al capo
23) non poteva rinvenirsi nelle dichiarazioni di Carlo ed Antonio Capasso per l’assenza di
qualsiasi inquadramento temporale delle condotte di cessione e la genericità di quanto
riferito da Antonio Capasso sui movimenti intuiti all’interno della vettura del Sorrentino e
sull’assaggio della droga da parte dello Zimbetti, circostanze affermate senza specificare
ove egli si fosse trovato e se lo Zimbetti avesse versato denaro all’emissario del Papi.
Inoltre, il Tribunale non aveva motivato in ordine alla sussistenza della circostanza
aggravante di cui all’art. 7 I. n.203/91.
-In ordine agli indizi di reità indicati a carico del Loffredo, le notizie riferite dai Capasso
erano frutto di circolarità di informazioni, anche perché l’altro collaboratore Lombardi non
aveva riferito il ruolo del ricorrente quale scorta armata del Pica, ma ne aveva parlato
come di un tossicomane all’ultimo stadio; Antonio Capasso aveva reso propalazioni sul
conto del ricorrente ad un anno dalla manifestazione della volontà di collaborare e tutti e
tre i germani Capasso avevano iniziato la loro collaborazione il 30 dicembre 2010; inoltre,
il Loffredo aveva già subito condanna per la partecipazione ad associazione di stampo l

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T–

giustizia, in sé inattendibili ed autori di una versione dei fatti concordata previamente alla

mafioso nella cui contestazione era compresa anche la condotta oggetto di imputazione
provvisoria.
-A carico di Nunzio Talotti erano state acquisite dichiarazioni di Carlo e Giuseppe Capasso
contraddittorie e comunque non veritiere, posto che Carlo Capasso non aveva saputo
indicare i fornitori del clan Di Lauro dopo la chiusura del canale spagnolo per non essersi
interessato del traffico di droga, salvo poi sostenere di avere trattato direttamente con il
Cella ed il Mastellone ed era comunque generico sulle circostanze temporali, anche
tenuto conto del fatto che gli omicidi di Pica e Cardillo erano avvenuti nel marzo 2007 e

d) Violazione di legge e di norme processuali, vizio di motivazione in ordine alle esigenze
cautelari ed alla loro attualità ed omessa motivazione per la posizione dello Stagliano: i
fatti erano datati nel tempo ed alcuna indagine sulle condotte anteatte e successive, né
sulla personalità individuale, era stata effettuata dal Tribunale.

Considerato in diritto

Il ricorso è infondato e va, pertanto, disatteso.
1.L’impugnazione contesta sotto il duplice profilo della violazione di legge e della
compiutezza e logicità della motivazione della decisione impugnata la sussistenza della
gravità indiziaria quanto a tutti i reati variamente ascritti ai ricorrenti.
1.1 In primo luogo la difesa contesta la configurabilità di entrambi i reati associativi,
contestati ai capi 1) e 2) dell’imputazione provvisoria per l’omessa considerazione da
parte del Tribunale dei rilievi mossi in sede di riesame, sostenendo che il materiale
indiziario consentirebbe al più di ravvisare un’unica organizzazione criminosa e
richiamando le argomentazioni con le quali erano stati esclusi detti addebiti nei confronti
dello Zimbetti e di altri tre coindagati.
1.1.1 Osserva la Corte che, allo stato, la partecipazione ad entrambe le formazioni
criminose indicate sub 1) e 2) è contestata al solo Stigliano, mentre gli altri ricorrenti
devono rispondere soltanto di alcuni specifici reati fine; ciò premesso, va rilevato che
effettivamente nella motivazione dell’ordinanza impugnata sono rinvenibili profili di
contraddittorietà, insiti nella valutazione della posizione dello Zimbetti, in quanto il
Tribunale, dopo avere premesso dei rilievi generali sulla corretta configurazione del
concorso tra le due fattispecie associative e sulla gravità della piattaforma indiziaria
quanto alla partecipazione ad entrambi gli organismi per coloro che si erano occupati
esclusivamente del settore del traffico di stupefacenti, ha poi annullato l’ordinanza
genetica nei riguardi dello Zimbetti per effetto dell’applicazione del divieto di “bis in
idem” sul presupposto del già avvenuto esercizio dell’azione penale in separato
procedimento in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.p.r. 309/90, cui era seguita anche la
sua condanna sino al giudizio di appello. Ha però illogicamente escluso egli dovesse
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la contestazione riguardava fatti commessi nel settembre 2007.

rispondere della partecipazione all’associazione camorristica perché altrimenti si sarebbe
duplicata la punizione di fatti aventi lo stesso nucleo di disvalore. In ciò si è tralasciato
tutto quanto rilevato in premessa, valevole anche per lo Zimbetti in ragione del suo ruolo
di affiliato, dell’espletamento delle mansioni di contabile, tenutario dei “libri mastri”
dell’organizzazione, nonché di detentore di riserve di stupefacenti e di spacciatore sotto
le direttive del Talotti; ciò nonostante, non è certamente consentito a questa Corte alcun
intervento correttivo in “pejus” del provvedimento cautelare, in assenza di impugnazione
da parte dell’organo dell’accusa.

sull’inconsistenza del compendio indiziario, il che consente di escludere che i medesimi
rilievi possano esplicare una qualsiasi rilevanza per la posizione dello Stigliano. Parimenti
privo di fondamento è il raffronto con le statuizioni assunte nei riguardi dei coindagati
Albano, Barone e Longobardi, oggetto di un provvedimento distinto, e fondate su un
diverso compendio probatorio, come si dirà in seguito.
1.1.2 Oltre a ciò, la difesa invoca l’applicazione dei principi di diritto, elaborati dalla
giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. 2, n. 36692 del 22/05/2012, Abbrescia e altri,
Rv. 253892; S.U., n. 1149 del 25/09/2008, Magistris, rv. 241883; sez. 6, n. 4651 del
23/10/2009, Bassano e altri, rv. 245875; sez. 1, n. 17702 del 21/01/2010, Di Lauro e
altri, rv. 247059), secondo la quale i reati di associazione per delinquere, anche di tipo
mafioso, possono concorrere con il delitto di associazione per delinquere finalizzata al
traffico di sostanze stupefacenti, dal momento che presentano una differente oggettività
in relazione ai beni giuridici protetti, che risultano in parte diversi, nel senso che tutte le
norme incriminatrici dei delitti associativi tutelano l’ordine pubblico, mentre quella di cui
all’art. 74 D.P.R. 309/90 presenta un elemento specializzante, costituito dalla
salvaguardia anche della salute individuale e collettiva contro i pregiudizi derivanti
dall’assunzione degli stupefacenti e dalla loro diffusione. Si è dunque concluso che, se
una associazione venga costituita al solo scopo di operare nel settore del traffico degli
stupefacenti, gli appartenenti non possono subire punizione a doppio titolo secondo
quanto previsto dalle due norme incriminatrici, mentre se l’associazione abbia lo scopo di
commerciare in droga e di commettere anche altri reati, è ben possibile che gli agenti
vengano puniti per la partecipazione ad entrambe le consorterie. Pertanto, così come
coloro che, già affiliati a cosca di tipo mafioso, costituiscano e dirigano un’associazione
finalizzata al narcotraffico, che diviene una branca dell’attività del sodalizio mafioso,
concorrono anche nel secondo reato per avere con la loro condotta offerto un contributo
causale determinante per la sua esistenza, gestione e concreta operatività grazie
all’appoggio, alla protezione, ai mezzi ed uomini forniti, altrettanto va detto in riferimento
alla posizione di quanti operino esclusivamente nell’ambito del traffico di stupefacenti,
quando siano consapevoli che questo è gestito e diretto dall’associazione di tipo mafioso.
Pertanto, essi concorrono anche in questo reato associativo per il fatto di contribuire
5

La peculiarità del trattamento riservato allo Zimbetti non riposa dunque

causalmente alla realizzazione di una delle finalità tipiche della consorteria criminale; ne
segue che la prova dell’affiliazione ad una delle due associazioni influisce sulla prova
dell’adesione all’altra, con la conseguenza che gli affiliati dell’una devono ritenersi affiliati
anche all’altra compagine associativa, anche se la sussistenza dei due reati è ancorata a
presupposti diversi, che a tal fine devono essere tutti specificamente provati per ciascuno
di essi.
1.1.3 A tali principi il Tribunale si è debitamente attenuto: la motivazione della
decisione in esame evidenzia come in riferimento agli obiettivi criminosi perseguiti ed alle

principalmente, ma non esclusivamente sulla gestione del narcotraffico, a pieno titolo
poteva configurarsi il concorso tra la fattispecie associativa di stampo mafioso e quella
finalizzata al traffico di droga, dal momento che anche il singolo spacciatore, operante nei
luoghi pubblici controllati dall’organizzazione, ha contribuito con la propria azione in
modo consapevole, permanente e duraturo nel tempo al perseguimento delle finalità,
all’espansione ed al controllo sul territorio dell’organizzazione camorristica, ha cooperato
con i suoi esponenti, si è avvalso dei mezzi dalla stessa fornitigli. Né ha pregio l’obiezione
secondo la quale i ricorrenti non sarebbero stati adibiti ad altre mansioni oltre allo
spaccio su strada, che avrebbe esaurito il dinamismo criminoso dell’associazione, dal
momento che certamente, per come contestato, la compagine era impegnata anche in
altri settori operativi, quali gli omicidi ed il traffico di armi, cui erano addetti altri suoi
partecipi: in tal senso appare significativo che il collaboratore Carlo Capasso negli anni
prossimi alla scelta di cooperare con la giustizia non fosse addetto allo smercio di droga,
ma avesse fatto parte del gruppo di fuoco dei Di Lauro o che, come si dirà in seguito, il
Loffredo avesse funto da guardia armata di Giuseppe Pica, accompagnandolo nei suoi
spostamenti senza essere coinvolto direttamente nello spaccio, che lo Zimbetti, per
quanto esposto nell’ordinanza genetica che più diffusamente ha trattato il tema, fosse
addetto alla tenuta della contabilità del clan, ove erano annotate anche uscite non
inerenti al traffico di droga, ma all’acquisto di armi e veicoli, ossia a dotazioni
strumentali, funzionali alla commissione di omicidi e di atti violenti necessari per

il

modalità organizzative datesi dal clan Di Lauro, la cui attività si era incentrata

controllo a tutto campo del territorio d’influenza, al mantenimento ed alle esigenze
personali dei Di Lauro, alle spese legali per la difesa degli affiliati detenuti. Inoltre, per
quanto emerso in separati procedimenti, i cui accertamenti sono stati richiamati
nell’ordinanza genetica, che li ha resi in tal modo conoscibili e valutabili, non può ritenersi
che il ricorso alla forza ed all’uso delle armi fossero strumentali esclusivamente al
mantenimento del controllo sul traffico di droga nel rione dei Fiori, detto anche Terzo
Mondo, ma piuttosto dovessero consentire l’incontrastata egemonia del clan camorristico
sulla zona di sua competenza.

6

A

Tanto è sufficiente per ritenere che anche sotto tale profilo l’ordinanza impugnata
sia aderente a quegli stessi principi interpretativi, suggeriti dalla giurisprudenza di
legittimità.
2.

Altrettanto infondate sono le censure sollevate in riferimento all’utilizzo

probatorio di quanto riferito dai collaboratori di giustizia Capasso a fronte della
motivazione, puntuale e coerente, dell’ordinanza impugnata che ha proceduto ad attenta
verifica della loro attendibilità intrinseca, soggettiva e oggettiva, quindi valutato in senso
critico le loro convergenti propalazioni, per concludere che, al di là dei rapporti parentali

Carlo Capasso, seguito dai suoi due germani in località protetta e nella scelta di riferire
quanto a loro conoscenza agli investigatori, non vi erano elementi concreti per ipotizzare
la loro preventiva concertazione di quanto da riferire, intenti calunniosi, o comunque il
consapevole mendacio in danno degli accusati. Al riguardo il Tribunale ha evidenziato che
le propalazioni di Carlo Capasso avevano trovato riscontro nelle dichiarazioni di altri
collaboratori, estranei al suo nucleo familiare, e negli esiti delle indagini, anche in ordine
al ruolo assunto dai tre Capasso nel clan Di Lauro, per cui il contributo conoscitivo dei
fratelli non offriva imprescindibile conferma alle sue accuse, che non erano stati
rappresentati motivi plausibili di rancore o desideri di vendetta dei dichiaranti contro i
coindagati e che non erano state esigenze pratiche o di tornaconto individuale ad avere
spinto i di lui germani a collaborare, dal momento che il legame parentale li aveva inclusi
automaticamente nelle misure di protezione adottate.
Oltre a ciò, va rilevato che il ricorso non muove alcuna contestazione al giudizio di
attendibilità espresso dai giudici di merito in riferimento alle dichiarazioni rese dal
collaboratore Vincenzo Lombardi o agli altri propalanti, le cui informazioni sono confluite
nella piattaforma indiziaria, utilizzata per l’emissione delle misure custodiali, il che rende
parziale ed ulteriormente infondata la disamina critica contenuta nell’impugnazione.
3. Quanto alle posizioni dei singoli indagati, a carico dello Stigliano, cui si addebita
la partecipazione ad entrambi i sodalizi criminosi, a suo carico sono state poste le
dichiarazioni di Antonio e Giuseppe Capasso, i quali ne hanno riferito l’affiliazione al clan
Di Lauro e le mansioni di spacciatore di droga per conto del clan, inserito nelle paranze,
all’interno delle quali aveva anche svolto il ruolo di vedetta. Ciò posto, non risponde al
vero che i due collaboratori abbiano reso informazioni divergenti quanto alla natura della
sostanza trattata dallo Stigliano ed al luogo operativo: è sufficiente leggere l’ordinanza
genetica alle pagg. 844-845, richiamate quale parte integrante della motivazione
dell’ordinanza impugnata, per verificare che entrambi i Capasso hanno affermato che il
ricorrente si era occupato di smerciare erba e fumo sulla piazza di spaccio di via Praga
Magica, inserito in una delle “paranze” ivi attive. Inoltre, non deve dimenticarsi che
soprattutto Antonio Capasso, che meglio ha descritto con ricchezza di dettagli il
meccanismo di funzionamento delle “paranze”, ha anche aggiunto che i componenti dei
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e dell’iniziale contatto nei primi tempi della loro collaborazione, intrapresa per primo da

vari raggruppamenti potevano scambiarsi i turni, i ruoli, le piazze di spaccio in base alle
esigenze personali e di gestione del traffico.
3.1 Inoltre, resta smentito anche l’assunto difensivo circa l’assenza di riscontri alle
accuse mosse dai Capasso: al contrario, l’ordinanza in verifica evidenzia come in data 23
ottobre 2010 lo Stigliano fosse stato tratto in arresto nel rione “Terzo Mondo”,
unitamente ai coindagati Mario Guarraccino e Franco De Luca, nella flagrante detenzione
di stupefacente, sia cocaina, che marijuana e hashish per svariate decine di grammi: si
noti che il Guarraccino è soggetto indicato da Antonio Capasso come inserito nella stessa

alla sincerità del collaboratore. A ciò si aggiunge quanto emerso dalla conversazione
intercettata il 25 ottobre 2010 all’interno dell’autovettura del coindagato Francesco
Tramontano, nel corso della quale questi ed altro affiliato avevano commentato con
dispiace l’arresto dello Stigliano, detto o’ messicano, il sequestro della droga e del denaro
detenuto dal capo piazza, nonché osservato come l’organizzazione camorristica, detta il
“sistema”, avesse preposto direttamente propri esponenti, nello specifico Santolo
Spasiano, a capo delle piazze di spaccio per impedire furti e sottrazioni.
3.2 Di tali emergenze il ricorso non si occupa, preferendo ignorarle, mentre è
evidente, per il loro significato univoco, che esse non possono trovare spiegazione logica
e credibile con i rapporti di vicinato o di amicizia con i correi, il che vale anche per le
frequentazioni personali, accertate mediante servizi di osservazione e pedinamento,
condotti sulle piazze di spaccio del rione Terzo Mondo, ove era stata riscontrata la sua
presenza in molteplici occasioni con soggetti suoi coindagati. Tali elementi sono stati
correttamente posti in relazione alla narrazione dei collaboratori, che hanno riscontrato in
modo oggettivo ed inequivoco, dal momento che attestano i rapporti personali con altri
soggetti indiziati di svolgere lo stesso ruolo, nelle stesse circostanze di fatto e nel
medesimo contesto organizzato, riscontrati in un protratto arco temporale di anni sino
all’ottobre 2010, nonché l’effettiva dedizione del ricorrente all’attività di cessione di quella
stessa tipologia di stupefacente indicata dai collaboratori. Deve dunque concludersi che
gli elementi utilizzati danno conto in modo logico e giuridicamente corretto della
sussistenza del requisito della gravità indiziaria del coinvolgimento stabile e consapevole
dei ricorrenti nelle dinamiche del gruppo camorristico dei Di Lauro, quale esecutore di
attività essenziale per l’esistenza e l’affermazione di tale compagine criminosa, dalla
quale attività la stessa poteva ricavare lauti mezzi, debitamente contabilizzati, per il
mantenimento dei suoi sodali, per i rifornimenti di droga, l’acquisto di armi ed il
sostenimento delle spese legali per gli eventuali arrestati.
3.3 E’ manifestamente privo di fondamento anche il raffronto con le posizioni di
alcuni coindagati per i quali l’ordinanza applicativa è stata annullata con separato
provvedimento del Tribunale del riesame: invero, per l’Albano ed il Barone era stata
acquisita una sola chiamata in correità, ritenuta non riscontrata dagli arresti per l’attività
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“paranza” nella quale aveva operato il ricorrente, il che offre un riscontro incontestabile

di spaccio di droga avvenuti per lo più dopo le dichiarazioni di Antonio Capasso, mentre
per il Longobardi si era considerato che entrambi i collaboratori Carlo Capasso e Vincenzo
Lombardi lo avevano indicato quale mero spacciatore e non affiliato al clan Di Lauro.
4. Per la posizione dello Zimbetti sono state valorizzate le due chiamate in correità
di Carlo ed Antonio Capasso circa il suo ruolo di consegnatario delle forniture di cocaina,
effettuate dal trafficante Michele Papi al clan Di Lauro e recapitate per il tramite del
coindagato Francesco Sorrentino; in particolare, secondo quanto analiticamente esposto
nell’ordinanza genetica, Antonio Capasso ha descritto un episodio di consegna, al quale

richiesto dal Sorrentino di reperire lo Zimbetti ed avere presenziato al loro incontro, con il
prelievo da parte del Sorrentino dall’interno dell’autovettura, dotata di “sistema”, ossia di
nascondiglio segreto, il recapito della cocaina confezionata all’interno di una scatola per
ferro da stiro, l’apertura e l’assaggio da parte dello Zimbetti, che gli aveva poi mostrato
la sostanza prima di consegnarla alla piazza di spaccio per la distribuzione. Nel contesto
della narrazione di tale vicenda il Capasso aveva anche escluso che il ricorrente avesse
corrisposto il prezzo della droga, al quale adempimento non era deputato.
4.1 Soltanto genericamente la difesa contesta il significato indiziante delle
annotazioni sui libri mastri dell’organizzazione, in parte tenuti dal ricorrente e sequestrati
presso la sua abitazione, delle uscite per il pagamento delle forniture effettuate dal Papi,
indicate talvolta in modo esplicito col riferimento alla cocaina, in corrispondenza
temporale con l’accertata presenza di quest’ultimo nel rione Terzo Mondo, la cui prova
era offerta dalle videoriprese.
4.2 Infine, per quanto risponda al vero che l’ordinanza non ha affrontato il tema
specifico della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203/91, la
stessa però implicitamente ne ha affermato la ricorrenza allorchè ha rilevato che lo
Zimbetti era stato già condannato per il delitto di cui all’art. 74 d.p.r. 309/90 aggravato
dall’art. 7 perché l’associazione cui aveva preso parte era gestita dal clan camorristico Di
Lauro, che egli sempre per conto e nell’interesse di tale formazione aveva acquisito lo
stupefacente dal fornitore Papi, il quale aveva in corso affari di droga col sodalizio anche
nel momento in cui il coindagato Daniele Tarantino era stato tratto in arresto ed aveva
discusso di tali comuni interessi con i familiari nel corso dei colloqui in carcere. Ciò
consente di escludere il difetto di motivazione denunciato.
5. A carico del Loffredo, quale detentore e portatore di armi, utilizzate quale scorta
armata di Giuseppe Pica e poi di Nunzio Talotti, sono state poste le dichiarazioni di Carlo
ed Antonio Capasso, di cui vanamente la difesa denuncia la circolarità: al contrario, i due
collaboratori hanno riferito lo stesso ruolo del ricorrente, ma soltanto Antonio ha
corredato il suo racconto da particolari attinenti l’origine dei rapporti tra il Loffredo ed il
Pica e le condotte tenute dal primo nel corso dell’agguato omicida in danno del Pica,
senza quindi potersi inferire un reciproco condizionamento; inoltre, proprio la condanna
9

avrebbe assistito personalmente quando si era trovato al bar Rispoli per essere stato

già riportata per la partecipazione ad associazione di stampo mafioso per l’inserimento
nel gruppo di fuoco e le mansioni di guardaspalle del Pica riscontra puntualmente la
narrazione delle fonti dichiarative. Per contro, in modo generico e non documentato si
sostiene che il Lombardi avrebbe definito il Loffredo un “tossicomane perso”, ma si
omette di corredare il gravame dei necessari riferimenti documentali all’interrogatorio del
Lombardi, che non è stato nemmeno allegato, né riportato nell’ordinanza genetica,
restando al di fuori della sfera degli atti accessibili a questa Corte
6. Sono prive di fondamento e vanno respinte anche le doglianze che riguardano la

essendo stato emesso altro titolo custodiale per la partecipazione ad entrambe le
associazioni capi 1) e 2): l’ordinanza impugnata rimanda al provvedimento impositivo
della misura, contenente l’esposizione testuale dei contributi conoscitivi offerti dai
collaboratori di giustizia sulla vicenda in esame, partendo dall’elemento principale di
accusa, ossia le dichiarazioni rese dal collaboratore Carlo Capasso, il quale, dopo avere
ricostruito i meccanismi di approvvigionamento della cocaina, cui aveva fatto ricorso il
clan Di Lauro, al quale era stato partecipe, che avevano consentito di importare lo
stupefacente direttamente dalla Spagna in assenza di intermediari locali e di ottenere
forniture a cadenza settimanale, ha riferito che il capo dell’organizzazione, Marco Di
Lauro, a seguito di alcuni ammanchi e dell’arresto dei fornitori, aveva deciso di acquistare
la sostanza a Napoli da chi ne avesse avuto la disponibilità. Era stato lo stesso
collaboratore a proporre quindi di rifornirsi da due suoi amici di piazza Mercato, tali Luigi
Cella e Luigi Mastellone, entrambi detti Gino, riconosciuti in fotografia, i quali avevano
procurato un primo carico da 5 kg., ottenendo in cambio la somma di 150.000 euro,
consegnata personalmente dal Capasso stesso, cui erano seguite altre forniture, trattate
da Nunzio Talotti o da Antonio Lucarelli, per quantitativi variabili da 20-30 kg. ciascuna,
ogni volta che i due avevano disponibilità di droga.
6.1 In tale narrazione sono contenuti anche i riferimenti temporali sia diretti, che
indiretti; il Capasso, infatti, ha riferito degli acquisti perfezionati con il Cella ed il
Mastelloni, definiti trafficanti indipendenti, non inseriti organicamente nel clan Di Lauro,
ma vicini al clan Contini, che avevano parimenti rifornito di droga, sino al decesso di
Giuseppe Pica nel marzo 2007, in quanto da quel momento era emersa la figura di
Daniele Tarantino, già esperto nel perfezionare acquisti di grosse partite di stupefacenti
per conto del clan Licciardi, il quale aveva ripreso contatti diretti con fornitori spagnoli,
recandosi in Spagna per trattare affari di importazione senza intermediari, dai quali poi si
erano ottenute tre-quattro consegne a cadenze periodiche nel maggio-giugno 2007.
Pertanto, il riferimento al settembre 2007 è affermato in via dubitativa dal Capasso, che
alla datazione ha anche aggiunto “se ben ricordo”. Ciò consente anche di escludere un
insanabile contrasto con le dichiarazioni del fratello Giuseppe, il quale ha riferito che il
Cella ed il Mastellone avevano venduto cocaina al clan Di Lauro mediante rapporti
10

posizione del Talotti, sottoposto a cautela unicamente per il delitto di cui al capo 22),

intrattenuti, con la mediazione del proprio fratello Carlo, da Nunzio Talotti ed Antonio
Lucarelli sino a che era insorta la seconda faida di Secondigliano tra i Di Lauro e gli
scissionisti, in quanto Cesare Pagano, cognato di Raffaele Amato, entrambi a capo di
quest’ultima fazione, avevano intimato loro di non frequentare più il rione del “Terzo
Mondo” e di non rifornire il clan avversario perché altrimenti sarebbero stati uccisi. E’
significativo che il dichiarante abbia affermato ciò essere avvenuto “durante la faida del
2007” quindi nel corso del suo svolgimento. In ogni caso, è notorio che tale sanguinosa
guerra di mafia non si era esaurita nel marzo 2007 con l’uccisione di Giuseppe Pica, ma

non può essere collocata temporalmente, in assenza di più specifiche indicazioni fornite
dal collaboratore, a marzo 2007 in contrasto con quanto riferito da Carlo Capasso.
6.2 Resta comunque certo che le versioni dei fatti, fornite dai due collaboratori,
convergono quanto al nucleo essenziale della loro narrazione, ossia quanto alla
descrizione della condotta materiale, al suo oggetto, ai personaggi coinvolti quali
acquirenti e fornitori, al ruolo di intermediario svolto casualmente da Carlo Capasso in
virtù del rapporto di amicizia pregressa che lo legava al Cella ed al Mastellone,
all’approvvigionamento di droga da parte di costoro, previo acquisto in Spagna o in
Sudamerica, pertanto non può sostenersi che Giuseppe Capasso non fornisca un valido
riscontro alla chiamata in correità proveniente dal germano.
7.Infine, con riferimento alle esigenze cautelari, il provvedimento impugnato ne ha
dedotto la ricorrenza dall’esistenza di gravi indizi di partecipazione al sodalizio di tipo
mafioso ed all’associazione finalizzata al narcotraffico, in mancanza di elementi da cui
desumere l’inesistenza di alcun pericolo, con la conseguente applicazione della
presunzione legale di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfarle. Inoltre, per
i fatti di reato non coperti dalla presunzione, ha rilevato l’assoluta ed allarmante gravità
delle condotte contestate, maturate in contesto associativo ove i raggruppamenti
criminali hanno il controllo incontrastato del territorio e di quanto vi avviene, nonché le
personalità dei ricorrenti, tutti gravati da precedenti penali e giudiziari di particolare
serietà, i quali danno conto, a prescindere dall’epoca di commissione dei reati in
contestazione, dell’elevato pericolo di recidivazione specifica. Né del resto la difesa ha
potuto indicare specifici elementi fattuali di valenza positiva, al di là della collocazione dei
fatti non associativi nell’anno 2007, dai quali poter superare la prognosi sfavorevole
formulata dal Tribunale.
Per le considerazioni svolte, il ricorso va respinto con la conseguente condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P. Q. M.

11

4

si era protratta nel tempo, per cui l’intimidazione rivolta dagli scissionisti ai due fornitori

Trasmessa copia ex art. 23
n. 1 ter L. 8-8-95 n. 332
‘Roma, n

0 6EN, 2 014

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al Direttore
dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, co. 1-ter, disp. att. c.p.p..

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013.

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