Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7770 del 05/12/2013


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 7770 Anno 2014
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
– TODESCO GRAZIELLA, n. 25/06/1952 a MONCALIERI

avverso la sentenza della Corte d’Appello di GENOVA in data 6/12/2012;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Cons. Dott. Fulvio Baldi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udite le conclusioni dell’Avv.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA

IL

1 9 FEB 2014

Data Udienza: 05/12/2013

RITENUTO IN FATTO

1.

TODESCO GRAZIELLA ha proposto, a mezzo del difensore fiduciario –

procuratore speciale cassazionista, tempestivo ricorso avverso la sentenza della
Corte d’Appello di GENOVA in data 6/12/2012, depositata in data 21/12/2012,

IMPERIA, con cui la medesima imputata è stata condannata alla pena sospesa di
anni uno di reclusione ed € 1000,00 di multa (pena ridotta in appello a mesi
quattro di reclusione ed € 400,00 di multa), per il reato di cui all’art. 2, legge n.
638/1983, per avere, quale datore di lavoro, omesso di versare all’INPS la
complessiva somma di € 17268,00 quale trattenuta sulle retribuzioni corrisposte
a lavoratori dipendenti.

2.

Ricorre avverso la predetta sentenza l’imputata, a mezzo del difensore

fiduciario – procuratore speciale cassazionista, deducendo un unico motivo di
ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione
ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, in particolare, violazione delle norme di cui all’art. 546, lett. E), in
relazione a quelle di cui agli artt. 125 e 606, lett. B) ed e) c.p.p., per illogicità e
mancanza di motivazione nonché per violazione della norma di cui all’art. 603, n.
3, c.p.p.; in sintesi, si duole la ricorrente per aver la Corte territoriale ritenuto
penalmente responsabile l’imputata quale prestanome della sorella, senza tener
in considerazione la giurisprudenza che esclude, invece, la responsabilità penale
del prestanome che sia esclusivamente titolare apparente dell’impresa; non
risulterebbero in atti le modalità con cui veniva gestita l’impresa, con
conseguente illogicità della motivazione che, con l’utilizzo dell’avverbio
“evidentemente familiare” riferito all’impresa, sarebbe affetta dal vizio
denunciato, essendo ciò espressione di un’illazione e non di valutazione di una
situazione probatoria (il riferimento è, in particolare, alla consegna
dell’intimazione dell’INPS alla sorella che parrebbe alla difesa indice non di
compartecipazione, ma di estraneità all’impresa); si duole, infine, della mancata
attivazione da parte della Corte d’appello del potere istruttorio officioso ex art.
603, n. 3, c.p.p., non essendovi alcuna motivazione circa la necessità di sentire
nuovamente i testimoni che avevano deposto sull’estraneità dell’imputata
asserendo trattarsi di una semplice prestanome.

2

parzialmente confermativa della sentenza 7/11/2011 emessa dal Tribunale di

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza e
comunque, per le ragioni che si esporranno, anche per la sua genericità.

4. Al fine di meglio comprendere la soluzione cui è addivenuta questa Corte di

difesa del ricorrente – è opportuno, seppure sinteticamente, richiamare quanto
oggetto di esame da parte dei giudici di merito. La ricorrente è stata dichiarata
colpevole del reato addebitatole, come emerge dall’impugnata decisione,
confermativa della sentenza del giudice di prime cure (le cui motivazioni,
pertanto, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed
inscindibile, con la conseguenza che la motivazione adottata dal primo giudice
vale a colmare le eventuali lacune di quella d’appello: Sez. 2, n. 5112 del
02/03/1994 – dep. 04/05/1994, Palazzotto, Rv. 198487), per aver omesso di
versare all’INPS le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni
dei dipendenti nei periodi contestati; che la stessa era titolare dell’impresa e che,
pertanto, nella predetta qualità aveva ricevuto l’intimazione dell’INPS; che i testi
a discarico (sorella e cognato della ricorrente) avevano dichiarato che la stessa
svolgesse il ruolo di prestanome del cognato, impossibilitato a continuare
un’attività imprenditoriale a causa di una trascorsa insolvenza; che, secondo i
giudici d’appello, tali testi non sarebbero decisivi nel senso di escludere la
responsabilità della ricorrente, limitandosi gli stessi a definirla quale prestanome,
senza però specificare le modalità gestorie dell’attività di natura “evidentemente”
familiare, intestata formalmente alla ricorrente; che, anzi, quanto affermato da
uno dei testi (la sorella) secondo cui era stata lei a consegnare alla ricorrente
l’intimazione dell’INPS, costituiva conferma della compartecipazione di
quest’ultima alla gestione dell’impresa, escludendo il ruolo di mero prestanome
della stessa; che, conclusivamente, quale titolare dell’impresa, l’obbligo del
versamento incombeva alla ricorrente sicchè, quand’anche che l’impresa fosse
gestita da terzi da non formalmente investiti di incarichi, non ne escludeva la
responsabilità.

5. A fronte di un simile quadro probatorio, destituite di ogni fondamento paiono
a questo Collegio le censure mosse dalla ricorrente con il motivo di ricorso,
costituendo in realtà espressione del tentativo, non consentito, di imporre a
questa Corte una rilettura dei fatti processuali risultati nel corso dei due gradi di
giudizio, qualificando come violazione di legge e vizi di motivazione doglianze
3

legittimità, alla luce delle censure – soprattutto motivazionali – prospettate dalla

che esplicano, in effetti, un dissenso sulla valutazione da parte dei giudici di
merito delle risultanze probatorie. Orbene, è sufficiente in questa sede
richiamare – al fine di evidenziare la manifesta infondatezza del motivo,
rilevandosene anche la genericità, riproponendo sostanzialmente il motivo di
ricorso i medesimi profili di censura già sollevati con l’atto di appello, senza tener
conto delle ragioni argomentative esposte dalla Corte ligure per disattenderli

quanto già condivisibilmente affermato da questa Corte a proposito della
responsabilità del “prestanome” nel reato di cui all’art. 2 della legge n. 638/83,
non essendovi in particolare alcuna ragione per discostarsi dal principio secondo
cui l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli
quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero
prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto,
atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di
vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a
titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva
possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la
semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (v., in termini: Sez. 3,
n. 22919 del 06/04/2006 – dep. 04/07/2006, Furini, Rv. 234474). Se, peraltro,
si tiene conto delle corrette considerazioni espresse dalla Corte territoriale in
ordine al coinvolgimento effettivo della ricorrente nella gestione societaria,
indiziariamente desumibile dalla ricezione dell’intimazione dell’Inps consegnatale
dalla sorella, deve comunque concludersi per la mancanza di qualsiasi elemento
probatorio a sostegno dell’asserito disinteresse della ricorrente rispetto alla
vicende societarie, a fronte di elementi che, diversamente, conducono ad un suo
effettivo coinvolgimento.

6. Nessun profilo di carenza motivazionale in ordine alla necessità di sentire
nuovamente i testimoni è, infine, rilevabile per l’asserita mancata attivazione da
parte della Corte d’appello del potere istruttorio officioso ex art. 603, n. 3, c.p.p.,
in quanto è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il giudice può d’ufficio – disporre discrezionalmente la rinnovazione del dibattimento quando
questa sia “assolutamente necessaria”, ossia nel caso in cui si trovi
nell’impossibilità di decidere allo stato degli atti. Tale discrezionalità, peraltro,
non è sottratta a controllo, ma è sindacabile, e, per verificare l’esattezza della
decisione sul punto, occorre vagliare la motivazione, accertando se, all’interno
del quadro probatorio emergente dalla decisione stessa, le argomentazioni
adottate risultino mancanti o apodittiche ovvero risultino manifeste
4

(Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849) –

contraddizioni, lacune o aporie, o, al contrario, se il giudice di appello era nella
oggettiva condizione di decidere allo stato degli atti, dimodoché la rinnovazione
non si palesava affatto necessaria (v., in termini: Sez. 6, n. 7519 del
05/06/1998 – dep. 24/06/1998, Zietek DJ, Rv. 211265). Orbene, questa Corte,
nell’esercizio dei suoi poteri di sindacato sulla motivazione, non può non rilevare
come le emergenze istruttorie non palesassero quella “assoluta necessità” di

grado, avendo peraltro già la Corte d’appello motivatamente argomentato in
ordine alla solidità del quadro probatorio che consentiva di pervenire a sicuro
giudizio di responsabilità della ricorrente, donde sussistevano le oggettive
condizioni per la Corte ligure di decidere allo stato degli atti. Si osservi, del resto,
che, nel caso previsto dal comma terzo dell’art. 603 cod. proc. pen., invocato
dalla ricorrente (rinnovazione quale espressione del potere integrativo di ufficio),
in virtù del principio della presunzione di completezza dell’indagine
dibattimentale di primo grado, soltanto al positivo esercizio del potere di disporre
la rinnovazione totale o parziale del dibattimento deve corrispondere la
constatazione dell’impossibilità di decidere allo stato degli atti e della
conseguente assoluta necessità della rinnovazione medesima (Sez. 6, n. 3349
del 20/10/1994 – dep. 18/03/1994, Pedris, Rv. 199178).

7. Il ricorso dev’essere, dunque, dichiarato inammissibile. Segue, a norma
dell’articolo 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a favore della
Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che si stima
equo fissare, in euro 1000,00 (mille/00).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2013

Il Con igliere est.

Il Presidente

rinnovare l’istruttoria quanto all’esame dei testi già assunti nel giudizio di primo

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