Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 769 del 10/10/2012


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 769 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Cristina Maria, nata a Termini Imerese il 14.10.1939; Di Liberto
Fiorella, nata a Palermo il 4.11.1974, avverso la sentenza
pronunciata dalla corte di appello di Palermo il 4.4.2011;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Giovanni D’Angelo, che ha concluso per il rigetto
del ricorso.

Data Udienza: 10/10/2012

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 4.4.2011 la corte di appello di Palermo

preliminari presso il tribunale di Palermo, in sede di giudizio
abbreviato, aveva condannato Cristina Maria, imputata, in qualità
di amministratrice e titolare della ditta individuale Maria Cristina,
con insegna “Ada Negri”, dichiarata fallita con sentenza del
12.7.2004 del Tribunale di Palermo, dei reati di cui agli artt. 216,
co. 1, n. 2, 219, 223, legge fall. (capo a) e 220, legge fall. (capo
b); 110, c.p. e 216, co. 1, 219, 223, legge fall. (capo c) e Di
Liberto Fiorella, figlia della Cristina, imputata in concorso con
quest’ultima del solo reato di cui al capo c), alla pena,
rispettivamente, la Cristina di anni due mesi due di reclusione e la
Di Liberto di anni due di reclusione, condonata e condizionalmente
sospesa per quest’ultima, mentre alla Cristina veniva anche
applicata la pena accessoria di cui all’art. 216, ultimo comma,
legge fall., per la durata di dieci anni, nonché al risarcimento dei
danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in
separato giudizio.
Avverso tale sentenza, di cui chiedono l’annullamento, hanno
proposto ricorso le imputate, a mezzo del loro difensore di fiducia,
articolando quattro motivi di impugnazione.
Con il primo la Cristina lamenta i vizi di cui all’art. 606, co. 1, lett.
b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 216 e 217, legge fall., 516 e
521, c.p.p., 27 e 111, Costituzione, in quanto sulla base delle
risultanze processuali l’imputata Cristina non poteva essere
condannata per il delitto di cui al capo a) dell’imputazione,

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confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini

essendo tutt’al più configurabile nei suoi confronti il delitto di
bancarotta semplice documentale cui all’art. 217, co. 2, legge
fall., non avendo l’imputata mai posto in essere le condotte di
falsificazione, distruzione o di occultamento a lei contestate, che

non possono configurarsi nel caso in esame, in cui alla Cristina si
può addebitare non una condotta positiva volta alla sottrazione,
distruzione, falsificazione, tenuta irregolare o incompleta delle
scritture contabili, ma solo di avere semplicemente tenuto, sino al
1999, la contabilità in regime semplificato, come previsto dalla
normativa fiscale, e di non avere tenuto le scritture contabili nei
tre anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, quando l’attività
imprenditoriale si era interrotta, una condotta, in altri termini,
meramente omissiva, inidonea ad integrare il delitto di bancarotta
fraudolenta documentale, con conseguente violazione del principio
della correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, di
cui all’art. 521, c.p.pp, non rinvenendosi, peraltro, nel corpo della
sentenza di secondo grado, nemmeno adeguata motivazione sulla
sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta
fraudolenta documentale per cui la Cristina ha riportato condanna.
Con il secondo motivo le ricorrenti deducono il vizio di cui all’art.
606, co. 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli artt. 1 e 216, legge
fai!, 2, co. 4, c.p., 3, Cost., in quanto, dovendosi ricondurre la
ditta individuale di cui era titolare la Cristina, in ragione
dell’attività svolta (esercizio di una piccola attività di scuola
materna ed elementare privata), alla categoria del piccolo
imprenditore, che, ai sensi delle modifiche apportate alla legge
fallimentare dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007,
non è più assoggettabile al fallimento, viene meno uno degli

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elementi costituitivi dei reati ad esse ascritti, in virtù del principio
stabilito dall’art. 2, co. 4, c.p.
Con il terzo motivo le ricorrenti eccepiscono la violazione di cui
all’art. 606, co. 1, lett. b) e lett. e), c.p.p., in relazione sia all’art.

dichiarativa di fallimento sia stata notificata alla Cristina,
presupposto indefettibile per ritenere integrata la violazione di cui
alla menzionata disposizione normativa in quanto è da tale
momento che decorre il termine perentorio di 24 entro il quale
vanno depositate le scritture contabili, sia in relazione all’art. 216,
co. 1, n. 1 , legge fall., in quanto dagli atti risulta che la Di Liberto
non ha creato la nuova scuola materna ed elementare attraverso
la distrazione del complesso di beni attraverso i quali si svolgeva
l’attività della precedente ditta individuale Maria Cristina con
insegna “Ada Negri”, ma attraverso un personale sacrificio
economico, senza peraltro che la corte territoriale abbia indicato i
beni, le attrezzature ed i mezzi oggetto di distrazione, fatta
eccezione per alcuni beni di modesto valore (consistenti in
banche, lavagne, sedie, armadietti, cattedra), la cui eventuale
sottrazione non avrebbe causato alcun pregiudizio ai creditori,
tanto da non trovare nessun acquirente ed essere stati
abbandonati dal curatore presso i locali della ditta della Di Liberto,
che non ne ha mai rivendicato il possesso, per cui non si può
ritenere che quest’ultima abbia, per mezzo di una diversa
compagine, continuato l’attività imprenditoriale della madre.
Con il quarto motivo le ricorrenti eccepiscono la violazione di cui
all’art. 606, co. 1, lett. b) e lett. e), in relazione agli artt. 62 bis,
69 e 133, c.p., 219, co. 3, legge fall., lamentando: 1) l’eccessivo
rigore della condanna inflitta alla Di Liberto; 2) il mancato

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220, legge fall., non essendovi la prova che la sentenza

riconoscimento in favore della Cristina del giudizio di prevalenza
delle circostanze attenuanti generiche, pur concesse, sulla
ritenuta circostanza aggravante; 3) il mancato riconoscimento
della circostanza attenuante di cui all’art. 219 co. 3, legge fall.; 4)

all’art. 216, legge fall., comminata alla Cristina, che non può
essere superiore al “quantum” della pena detentiva principale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso presentato nell’interesse di Cristina Maria e di Di Liberto
Fiorella non può essere accolto.
In via preliminare va rilevato che nell’esaminare i motivi di ricorso
si procederà ad una lettura integrata delle sentenze di primo e di
secondo grado, da considerare un prodotto unico, in quanto la
decisione della corte territoriale e quella del giudice per le indagini
preliminari hanno utilizzato criteri omogenei di valutazione e
seguito un apparato logico argomentatívo uniforme (cfr. Cass.,
sez. III, 1.2.2002-12.3.2002, n. 10163, Lombardozzi D., rv.
221116).
Ciò posto, quanto al primo motivo di ricorso, va premesso che la
violazione del principio di cui all’art. 521, c.p.p., in tema di
correlazione tra imputazione contestata e sentenza, si verifica,
come è noto, in presenza solo di una trasformazione radicale, nei
suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si
riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si
configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui
scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue
che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio

la mancata riduzione della durata della pena accessoria di cui

suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto
puramente letterale fra contestazione e sentenza perché,
vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del
tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter” del

difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione. (cfr, ex plurimis,
Cass., sez. IV, 16/02/2012, n. 17069, G. e altro).
Orbene nel caso in esame la Cristina, che, in realtà, contesta la
sussistenza del fatto-reato per il quale è stata condannata come
descritto nel capo a) dell’imputazione (art. 216, co. 1, n. 2, 219 e
223, legge fall., “per avere distrutto o comunque occultato i
bilanci e le scritture contabili della società allo scopo di impedire la
ricostruzione del patrimonio della fallita”), non indica in che modo,
durante lo svolgimento del processo, si sarebbe trovata nella
impossibilità di difendersi concretamente in ordine all’oggetto
dell’imputazione.
Sul punto, peraltro, la corte territoriale ha reso adeguata
motivazione, attenendosi ai principi di diritto in precedenza
indicati ed evidenziando, in particolare, come le imputate abbiano
avuto “ampio modo di esercitare le proprie difese su tutti gli
elementi posti a fondamento della decisione, emersi dalle
“risultanze probatorie che hanno formato oggetto di sostanziale
contestazione”, rappresentati dagli “accertamenti peritali
disposti”; dalle “verifiche compiute dal curatore, per ciò stesso
ben a conoscenza di entrambe le appellanti”; dall’escussione del
consulente fiscale Pippo Lo Franco (cfr. pp. 3-4 dell’impugnata
sentenza).
Il motivo di ricorso riguardante la menzionata censura deve,
dunque, ritenersi inammissibile, perché generico e meramente

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processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di

ripetitivo di una questione prospettata in appello, su cui è stata
fornita idonea risposta dalla corte territoriale.
Non fondati sono gli ulteriori rilievi esposti nel primo motivo di
ricorso.

sottoposte ad un regime tributario di contabilità semplificata sono
obbligate alla tenuta delle scritture e dei libri di cui all’art. 2214,
c.c., ed in modo particolare del libro giornale e del libro degli
inventari che lo stesso art. 2214, c.c., indica come scritture
contabili obbligatorie per chi esercita un’attività commerciale, sia
ai fini civili che a quelli penali previsti dalla legge fallimentare (cfr.,

ex plurimis, Cass., sez. fer., 6.8.2009, n. 33402, Castrogiovanni,
rv. 244842).
Ne consegue che ove la condotta illecita si sostanzi non nella
semplice omissione di tale tenuta, ma in un fatto di bancarotta
ore-fallimentare consistente nella distruzione (cioè
nell’eliminazione fisica delle scritture contabili o di quanto in esse
annotato) o nella sottrazione delle scritture medesime (che, a sua
volta, si risolve nella indisponibilità, totale o parziale, delle
scritture contabili attraverso il loro occultamento o con il renderne
impossibile o difficoltosa la materiale apprensione), finalizzate ad
evitare l’apprensione delle scritture medesime da parte degli
organi fallimentari, come nel caso in esame in cui il curatore
fallimentare non ha rinvenuto le scritture contabili della ditta
individuale, fatta eccezione per un registro vendite relativo al solo
periodo 11.12.2000-30.6.2001 ed un registro acquisti relativo al
solo periodo 31.1.2000-30.6.2001, appare configurabile non il
delitto di bancarotta semplice documentale di cui all’art. 217, co.
2, legge fall., ma il più grave delitto di bancarotta fraudolenta

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Al riguardo si osserva, innanzitutto, che anche le imprese

documentale come previsto in una delle prime tre ipotesi
disciplinate dall’art. 216, co. 1, n. 2, legge fall., reato, come è
noto, di pura condotta, per la cui realizzazione non si richiede il
verificarsi dell’evento della concreta impossibilità di ricostruire il

fallita (cfr. Cass., sez. VI, 13.1.1994, n. 4038, D’Episcopo).
Proprio il mancato rinvenimento delle scritture contabili
obbligatorie per legge (libro giornale e libro degli inventari), dal
quale il giudice per le indagini preliminari, con motivazione
approfondita ed immune da vizi, condivisa dalla corte di appello,
ha desunto la soppressione o l’occultamento delle scritture
medesime, non essendo stato possibile alla curatela, in loro
mancanza ed alla luce della scarsa documentazione fornita,
ricostruire la situazione patrimoniale e del movimento degli affari
della ditta (cfr. pp. 5-6 della sentenza impugnata), non consente
di ritenere sussistente, come pure prospettato dalla ricorrente, la
diversa fattispecie delittuosa di cui all’ultima delle ipotesi
disciplinate dall’art. 216, co. 1, n. 2, legge fall. (avere tenuto le
scritture contabili “in guisa da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”), che, in
ogni caso, giova rilevare, è sottoposta al medesimo trattamento
sanzionatorio delle precedenti, per cui, non ravvisandosi, come si
è detto, alcuna violazione del principio sancito dall’art. 521, c.p.p.,
in danno delle ricorrenti, difetta un concreto interesse della
Cristina ad ottenerne il riconoscimento.
Quanto all’elemento soggettivo, rappresentato in questo caso dal
dolo specifico, cioè dalla necessità che la condotta sia finalizzata
allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di
recare pregiudizio ai creditori, in previsione della possibilità del

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patrimonio o il movimento degli affari dell’impresa dichiarata

fallimento, (cfr. Cass., sez. V, 17/12/2008, n. 1137, V., rv
242550; Cass., sez. V, 13/10/1993, n. 11329, Trombetta, rv
195896), proprio il mancato deposito ed il mancato rinvenimento
delle menzionate scritture contabili obbligatorie per legge hanno

ricostruzione della situazione patrimoniale e del movimento degli
affari della impresa individuale dichiarata fallita, circostanza che,
pur non assumendo rilievo ai fini della integrazione dell’elemento
oggettivo della ritenuta ipotesi di bancarotta fraudolenta, assume,
per converso, valore pregnante per dimostrare l’esistenza del dolo
specifico, cioè della volontà di arrecare un pregiudizio ai creditori
in previsione del possibile fallimento (cfr. p. 6 della sentenza di
primo grado), che, peraltro, emerge anche dal concomitante
elemento della incompleta documentazione messa a disposizione
degli organi del fallimento, rappresentata dal registro vendite e
dal registro acquisti indicati in precedenza.
Va, infine, sottolineato che ove anche si volesse qualificare la
condotta illecita di cui si discute in termini di mera omissione delle
scritture contabili obbligatorie, ipotizzando, come prospettano le
ricorrenti, che la contabilità, almeno per un certo periodo di
tempo, non sia stata mai tenuta, sarebbe pur sempre
configurabile (senza alcuna lesione, per le ragioni già esposte, del
diritto di difesa delle imputate) non il delitto di bancarotta
documentale semplice, ma quello più grave di bancarotta
fraudolenta documentale di cui all’ultima ipotesi dell’art. 216, co.
1, n. 2, legge fall., che, per costante giurisprudenza di questa
Sezione, ricorre quando sia stata raggiunta la prova, come nel
caso in esame, che l’omessa tenuta delle scritture contabili è
mirata ad impedire la ricostruzione della situazione patrimoniale e

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reso impossibile, come si è detto, per gli organi del fallimento la

del movimento degli affari della impresa individuale dichiarata
fallita, finalità resa particolarmente evidente dalla connessione di
tale omissione con i fatti distrattivi di cui al capo c)
dell’imputazione, di cui risponde anche la Di Liberto (cfr. Cass.,

25.5.2006, Chiarle; Cass., sez. V, 25.6.1992, n. 9103, Ruzza;
Cass., sez. V; Cass., sez. V, 18.10.2005, n. 6769, rv 233997).
Quanto al secondo motivo di ricorso, se ne deve rilevare
l’infondatezza.
Si osserva a tale proposito che la prospettazione difensiva trova
riscontro in un orientamento formatosi in passato nella
giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di reati
fallimentari spetta al giudice penale il potere-dovere di verificare
autonomamente, tra l’altro, se l’imputato possa o meno essere
considerato piccolo imprenditore, non soggetto, come tale, a
fallimento, per cui, rappresentando la dichiarazione di fallimento
un elemento costitutivo del reato di bancarotta ed assumendo, di
conseguenza, le modifiche normative incidenti sui relativi
presupposti rilevanza ai fini dell’applicabilità della disciplina
dettata dall’art. 2 c.p. in materia di successione di leggi penali nel
tempo, deve ritenersi che, anche nel caso in cui la suddetta
qualità di piccolo imprenditore sia stata esclusa dal tribunale
fallimentare, in applicazione della disciplina transitoria dettata
dall’art. 150 dig. 9 gennaio 2006 n. 5, sulla base della originaria
formulazione dell’art. 1 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, il giudice
penale debba ciononostante far riferimento, invece, alla nuova e
più favorevole formulazione di tale norma, introdotta dall’art. 1
del cit. d.Ig. n. 5 del 2006 ed escludere, quindi, la configurabilità
del reato ove, secondo tale formulazione, la qualità di piccolo

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sez. V, 11.6.2009, n. 32173, Drago, rv. 244494; Cass., sez. V,

imprenditore debba essere riconosciuta, (cfr. Cass., sez. V,
18.10.2007, n. 43076, Rizzo).
Tale orientamento, tuttavia, risulta ormai da tempo superato dalla
nota pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n.

principio in base al quale il giudice penale investito del giudizio
relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti r.d. 16 marzo
1942, n. 267 non può sindacare la sentenza dichiarativa di
fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di
insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle
condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le
modifiche apportate all’art. 1 r.d. n. 267 del 1942 dal d.lgs. 9
gennaio 2006, n. 5 e dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non
esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p., sui procedimenti
penali in corso, principio successivamente ribadito da altre
decisioni delle sezioni semplici intervenute al riguardo (cfr. Cass.,
sez. V, 8.1.2009, n. 9279, Carottini, rv. 243160; Cass., sez. V,
8.5.2009, n. 40404, Melucci, rv. 245427; Cass., sez. V, 8.4.2008,
n. 29907, Calzavara, rv 240444).
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento delle Sezioni Unite,
che, peraltro, in materia di art. 2 c.p. e successioni di norme
extrapenali nel tempo ha ripreso un orientamento già manifestato
dalle stesse Sezioni Unite con sentenza 27.9.2007 – 16.1.2008,
secondo il quale deve ritenersi inapplicabile il principio previsto
dall’art. 2, c.p., qualora si tratti di modifiche della disciplina
integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla
struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una
variazione del contenuto del precetto delineando la portata del
comando, lasciando integro il disvalore sociale della condotta, che

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19601 del 28.2.2008, rv 239398, che ha statuito il diverso

non è venuta meno con la nuova normativa, essendosi il
legislatore limitato a modificare i presupposti per l’applicazione
della norma incriminatrice penale, per cui appare del tutto
irragionevole ritenere che siffatte modifiche retroagiscano (cfr.
In relazione poi al terzo motivo di ricorso, va osservato che la
rituale comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento al
fallito, presupposto del reato di cui all’art. 220, legge fall.,
contestato nel capo b) dell’imputazione, da cui decorre il termine
di legge entro il quale occorre provvedere al deposito della
documentazione indicata dall’art. 16, n. 3, legge fall. (cfr., ex
plurimis, Cass., sez. V, 30.6.2005, n. 40816, Infantino, rv
232801), si è regolarmente compiuta, risultando dagli atti
(consultabili dal Collegio, attenendo la relativa censura ad un
error in procedendo) che la sentenza dichiarativa di fallimento
della ditta individuale pronunciata dal tribunale di Palermo è stata
notificata alla Cristina il 16.7.2004 presso lo studio dell’avv.
Francesco Paolo Di Trapani, ubicato in Palermo, alla via Dante, n.
55, dove l’imputata era elettivamente domiciliata, nonché a mani
della stessa il 27.7.2004, per cui la doglianza difensiva sul punto
appare infondata.
Con riferimento, poi, all’ulteriore rilievo prospettato sempre con il
terzo motivo di ricorso, se ne deve rilevare l’inammissibilità, in
quanto con esso le ricorrenti prospettano una diversa lettura degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata,
sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti, preclusa in sede di giudizio di cassazione
(cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507;

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Cass., sez. V, 21/09/2011, n. 40324, C.G. e altro).

Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass.,
sez. III, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).
Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di
legittimità, pur dopo la novella dell’art. 606, c.p.p., ad opera della

deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata
pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente
unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della
motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del
giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione
o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione
e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256,
Bosco, rv. 234148).
Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito, con motivazione
approfondita ed immune da vizi, hanno evidenziato come, sulla
base di una pluralità di elementi probatori puntualmente
individuati e valutati, si sia verificata una sostanziale continuità tra
l’attività della ditta individuale “Ada Negri” della Cristina Maria,
dichiarata fallita, e quella della scuola materna ed elementare
“Ada Negri di Di Liberto Fiorella”, figlia della Cristina, ubicata
presso gli stessi locali della ditta fallita, dove venivano utilizzati i
beni strumentali facenti parte del patrimonio della scuola fallita
(banchi, lavagne, sedie, armadietto, cattedra, computer con
stampante, fotocopiatrice), rinvenuti nelle singole aule e nella
segreteria della nuova scuola (cfr. pp. 6-7 della sentenza di primo
grado e pp. 5-7 della sentenza della corte di appello).
Quanto alle plurime doglianze prospettate in ordine al trattamento
sanzionatorio con il quarto motivo di ricorso, si osserva che quella

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I. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di

relativa all’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio
riservato alla Di Liberto, secondo la prospettazione difensiva non
giustificabile, “sia in termini assoluti, sia in relazione al confronto
con la pena dell’altra imputata”, in considerazione del ruolo di

Non può non rilevarsi, infatti, che la motivazione in ordine alla
determinazione della pena base ed alla diminuzione o agli aumenti
operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti, è
necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore
alla misura media edittale. Fuori di questo caso anche l’uso di
espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congrua
riduzione”, “congruo aumento” o il richiamo alla gravità del reato
o alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far
ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure
globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 c.p. per il corretto
esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine
al “quantum” della pena (cfr.,

ex plurimis,

Cass., sez. V,

29/08/1991, Ormando).
Orbene nel caso in esame la corte territoriale, nel confermare
anche sotto questo profilo la sentenza di primo grado, si è
puntualmente attenuta a tale criterio, in quanto, tenuto conto che
la pena base per il delitto contestato alla Di Liberto è stata
individuata dal giudice per le indagini preliminari in anni tre mesi
quattro di reclusione, in misura, quindi, prossima al minimo
edittale previsto dall’art. 216, co. 1, legge tali., in anni tre di
reclusione, il giudice di primo grado ha più che adeguatamente
motivato l’esercizio, sul punto, del suo potere discrezionale,
ritenendo adeguata siffatta pena, dopo avere concesso alla Di
Liberto le circostanze attenuanti generiche ed avere escluso nei

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extraneus svolto dalla Di Liberto, appare infondata.

suoi confronti la circostanza aggravante di cui all’art. 219, legge
fall. (cfr. p. 7 della sentenza impugnata e pp. 7-8 della sentenza
di primo grado).
Infondata si appalesa anche la censura difensiva in ordine al
riconosciute alla Cristina e la circostanza aggravante di cui all’art.
219, legge fall., svolto in termini non di prevalenza, come preteso
dalla ricorrente, ma di equivalenza.
Infatti, in tema, di valutazione dei vari elementi per la
concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al
giudizio di comparazione delle circostanze, nonché per quanto
riguarda in generale la dosimetria della pena, è da ammettere
anche la cosiddetta motivazione implicita o con formule sintetiche
(tipo “si ritiene congrua”), ma anche quando si impone un obbligo
di motivazione espressa, le statuizioni relative al giudizio di
comparazione tra le circostanze e, quindi, alla quantificazione
della pena, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133
c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di
mero arbitrio o di ragionamento illogico (cfr. Cass., sez. IV,
08/04/2008, n. 25279, G.; Cass., sez. VI, 08/07/2009, n. 30346,
A. e altro).
In questo caso il giudice per le indagini preliminari, con
motivazione fatta propria dalla corte territoriale, ha
adeguatamente giustificato la sua decisione sul punto,
evidenziando come sulla base della valutazione della gravità dei
fatti e della personalità dell’imputata, le circostanze attenuanti
generiche devono considerarsi equivalenti alla ritenuta circostanza
aggravante di cui all’art. 219, legge fall. (cfr p. 7 della sentenza di
primo grado).

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giudizio di comparazione tra le circostanze attenuanti generiche

t

In relazione, poi, all’invocata applicazione della circostanza
attenuante di cui all’art. 219, co. 3, legge fall., si tratta di una
doglianza inammissibile, perché generica, in quanto le ricorrenti
ne giustificano il riconoscimento in considerazione della “rilevante

essere stato cagionato alle ragioni della curatela” (cfr. p. 23 del
ricorso), mentre, assumendo valore decisivo ai fini della
valutazione del danno arrecato dal reato di bancarotta nelle sue
diverse manifestazioni, che rappresenta il presupposto necessario
per il riconoscimento della sussistenza della circostanza
attenuante di cui si discute, secondo il costante orientamento del
Supremo Collegio, la diminuzione patrimoniale cagionata
direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta e, con particolare
riferimento alla bancarotta documentale, la differenza che la
mancanza dei libri o delle scritture contabili ha determinato nella
quota complessiva dell’attivo da ripartire tra i creditori, avendo
riguardo al momento della consumazione del reato (cfr. Cass., sez
V, 13.2.1986, n. 8244, Pilon, rv. 173567; Cass., sez. V,
28.1.1977, n. 6522, Spreti, rv. 135980), sarebbe stato onere
delle ricorrenti individuare specificamente gli elementi su cui
fondare la valutazione del danno derivante dai diversi fatti di
bancarotta per i quali hanno riportato condanna in termini
compatibili con la previsione normativa di cui al citato art. 219,
co. 3, legge fall.
Deve considerarsi infondata, infine, anche la doglianza sulla
mancata riduzione della durata della pena accessoria inflitta alla
Cristina, in quanto, come chiarito da tempo dall’orientamento
prevalente in sede di legittimità cui questo Collegio rithie di
aderire, la pena accessoria che consegue alla condanna per il

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tenuità del danno patrimoniale che eventualmente si ritiene possa

delitto di bancarotta fraudolenta ai sensi dell’art. 216, ultimo
comma, legge fall., è indicata in misura fissa e inderogabile dal
legislatore nella durata di anni dieci quindi, a prescindere dalla
durata della pena principale, con conseguente inapplicabilità

altri, rv 253318; Cass., sez. V, 10.11.2010, n. 269, Marianella, rv
249500; Cass., sez. V, 18.2.2010, n. 17690, Cassa di risparmio di
Rieti s.p.a. e altri, rv 247319), orientamento che non risulta
disatteso da un recente intervento della Corte Costituzionale,
sollecitata a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale della
disposizione normativa di cui al citato art. 216, ultimo comma,
legge NH., dai giudici di merito e dalla stessa Corte di Cassazione,
avendo il Giudice delle leggi, con sentenza n. 134 del 2012,
dichiarato inammissibili le prospettate questioni di costituzionalità,
in quanto relative a materia riservate alla discrezionalità del
legislatore, risolvendosi le suddette questioni in una richiesta di
pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto
nell’interesse di Cristina Maria e di Di Liberto Fiorella va, dunque,
rigettato, ai sensi dell’art. 615, co. 2, c.p.p., con condanna di
ciascuna delle ricorrenti, giusto il disposto dell’art. 616, c.p.p., al
pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna ciascuna ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 10.10.2012

dell’art. 37, c.p. (cfr. Cass, sez. V, 30.5.2012, n. 30341, Pinelli e

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