Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7615 del 30/01/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 7615 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BOVA RAOUL N. IL 14/08/1971
avverso l’ordinanza n. 518/2013 TRIB. LIBERTA’ di ROMA, del
30/07/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO;
lptte/sentite le conclusioni del PG Dott. A nrro Nì
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Data Udienza: 30/01/2014

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 2/10/2012 il Tribunale di Roma rigettava l’appello
proposto dal P.M. presso il Tribunale di Roma avverso il provvedimento con il
quale il G.I.P. presso il medesimo Tribunale aveva respinto la richiesta di
sequestro preventivo per equivalente di immobili di proprietà di Raoul Bova
indagato per sei reati p. e p. dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto),

per

passivi fittizi.
Il procedimento nasceva da un controllo della Polizia Tributaria, dal quale
era emerso che, in data 11/07/1996, era stato stipulato un contratto (poi
rinnovato negli anni successivi) tra l’attore Raoul Bova e la società “Sanmarco
s.r.l.” (le cui quote erano ripartite tra lo stesso, per il 20%, e la sorella Tiziana
Bova, per l’80 0/0; l’altra sorella Daniela Bova essendone amministratore unico, e
Chiara Maria Raffaele Giordano, moglie dell’indagato, la procuratrice), in forza
del quale il primo cedeva alla seconda i diritti di utilizzazione economica della
propria immagine dietro compenso annuale di un minimo garantito di euro
100.000; il Bova inoltre era tenuto a versare alla società una percentuale dei
compensi da lui fatturati nella misura del 40%.
Il Tribunale, pur ritenendo essersi in presenza di una fattispecie di abuso del
diritto (essendo stata la società costituita non per finalità economiche ma per
eludere le imposte dovute, attraverso una riduzione della base imponibile,
ottenuta per mezzo dell’indicazione di costi cui non corrispondeva alcun
vantaggio economico), osservava che, nondimeno, non era configurabile il reato
ipotizzato, atteso che non qualsiasi condotta elusiva può avere rilevanza penale,
ma soltanto quella espressamente prevista dalla legge, tale non potendosi
considerare l’ipotesi in esame, non potendo in particolare invocarsi l’art. 37 bis
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che riguarda il trasferimento di proprietà

avere indicato nelle dichiarazioni relative agli anni dal 2005 al 2010 elementi

(beni immobili per lo più) dal socio alla società.

2. Su ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma che rilevava, per quel che ancora interessa, che, contrariamente a quanto
ritenuto dal Tribunale, nella previsione di cui all’art. 37 bis, comma 3, lett. b),
d.P.R. cit. rientrano anche i conferimenti in società che, secondo la definizione
dettata dal novellato art. 2464 cod. civ., possono essere rappresentati da
«qualunque elemento dell’attivo, suscettibile di valutazione economica» –

la

sezione terza di questa Corte, con sentenza n. 19100 del 06/03/2013, annullava
detta ordinanza e rinviava al Tribunale di Roma per un nuovo esame.
2

7

Valutata in premessa come validamente motivata la ricostruzione della
vicenda in termini di abuso del diritto (il diritto, nella specie, di costituire una
società), essendo tale costituzione avvenuta senza che vi fosse alcuna
apprezzabile ragione economica, ma al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali,
rilevava, in conformità alle critiche svolte dal ricorrente, che l’affermazione
secondo cui una tale condotta elusiva non potesse assumere rilievo penale in
quanto

«non espressamente e tassativamente prevista come tale dalla

legislazione tributaria» oltre ad essere meramente apparente e apodittica (non

essere ricondotte all’ipotesi dei conferimenti), non teneva conto della nuova
formulazione dell’art. 2464 cod. civ., applicabile alla fattispecie essendo stato il
contratto tra il Bova e la società Sanmarco Srl (stipulato in data 11/7/1996),
comunque rinnovato di anno in anno.
Demandava pertanto ai giudici del rinvio di accertare se la ritenuta condotta
elusiva violi le specifiche disposizioni sopra richiamate.

3. Con ordinanza del 17/09/2013 il Tribunale di Roma, in sede di rinvio,
dava risposta affermativa a tale quesito rilevando che la descritta operazione non
è altro che un modo di conferire elementi dell’attivo reddituale dal Bova persona
fisica alla Sanmarco persona giuridica di cui lo stesso è socio maggioritario,
realizzando un indebito risparmio di imposta, tra la maggiore aliquota fiscale
gravante sulla persona fisica e quella del reddito delle società.
Le contrarie argomentazioni sul punto svolte dalla difesa erano disattese
sulla base dei seguenti rilievi:
– ciò che il BOVA conferisce alla società è una somma di denaro e non una
prestazione d’opera, né un diritto della personalità o quant’altro (il 40% dei
compensi ricevuti da terzi per le sue prestazioni artistiche);
– la mancanza degli adempimenti previsti in tema di conferimenti (mancata
patrimonializzazione da parte della società, ovvero, in alternativa,
incorporazione mediante emissione delle quote corrispondenti) non è di per sé
significativa, ciò discendendo dalla scelta elusiva di far apparire il versamento
come una provvigione per il servizio di consulenza che la Sanmarco avrebbe (in
apparenza) reso all’artista;
– la previsione di un compenso minimo garantito di € 100.000,00 dovuto
dalla società al Bova, per la cessione dell’esclusiva sui diritti di utilizzazione
economica della propria immagine, piuttosto che smentire rafforza l’obiettivo
elusivo, poiché tale compenso all’artista costituisce una posta passiva per la
società, di talché, in sintesi: 1. circa la metà di quel che il BOVA guadagna
come persona fisica dalla propria attività artistica, diventa una posta passiva
3

essendo stato spiegato il motivo per cui le previsioni contrattuali non potessero

perché si trasforma in una provvigione (e dunque in un costo) che egli deve
sostenere per compensare la società; 2. tale metà, a sua volta, viene decurtata
di una posta passiva che la società deve al BOVA, quale compenso a titolo di
cessione dei diritti d’immagine in una sorta di “scatole cinesi” tutte tese a
ridurre il più possibile l’imposta effettivamente dovuta;
– non vi è contraddizione tra ipotizzata simulazione della provvigione (in
quanto dissimulante un vero e proprio conferimento in società) e qualificazione
in termini di condotta elusiva dell’operazione nel suo complesso, atteso che la

degli obblighi economici assunti in contratto dal Bova nei confronti della società:
reale giustificazione la cui individuazione, secondo il Tribunale, è imposta da una
rigorosa applicazione del principio della rilevanza penale dell’abuso del diritto e
sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o
teoriche,

tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o

assolutamente irrilevanti,

rispetto alla finalità di conseguire un risparmio

d’imposta (al qual riguardo si rimarca nell’ordinanza che, come emerso nel corso
della verifica fiscale, il BOVA contrattava da solo con i terzi e non ricavava
pertanto alcun effettivo e apprezzabile vantaggio dall’incarico formalmente
attribuito alla società);
– è corretta la procedura seguita dall’amministrazione finanziaria per il
calcolo dell’imposta evasa dovendo questa calcolarsi, atteso appunto il carattere
elusivo dell’operazione nel suo complesso, come se la società non fosse mai stata
costituita.
In ragione di tali considerazioni, il Tribunale disponeva pertanto, in
accoglimento dell’appello proposto dal P.M. avverso il provvedimento del G.I.P.,
ma limitatamente alle ipotesi di reato contestate con riferimento agli anni
d’imposta dal 2006 al 2010, il sequestro preventivo per equivalente finalizzato
alla confisca degli immobili, specificamente elencati, intestati a Raoul Bova in
Roma e in Rieti, fino a concorrenza della complessiva somma di € 1.560.032,65.

4. Avverso tale ordinanza propone ricorso il Bova, per ministero del proprio
difensore, sulla base di tre motivi.

4.1. Con il primo deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 1
cod. pen. e 4 d.lgs. n. 74/2000 in relazione agli art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973 e
2464 cod. civ., con riferimento alla contestata riconducibilità della condotta in
oggetto all’istituto dei conferimenti in società.
Richiamate le considerazioni già svolte in sede di riesame al fine di
dimostrare l’impossibilità di pervenire ad una tale qualificazione (mancata prova
4

prima qualificazione si riferisce per l’appunto alla reale giustificazione negoziale

di modifiche al capitale sociale ovvero di emissione di nuove quote societarie
corrispondenti ai presunti nuovi apporti, carenze dei requisiti di forma e
pubblicità), il ricorrente censura l’argomento reiettivo utilizzato nell’ordinanza
impugnata – secondo cui si tratterebbe di conferimento dissimulato dietro
l’apparenza di provvigioni – rilevandone l’insostenibilità sia sul piano civilistico
che su quello tributario.
Dal primo punto di vista rileva che erroneamente le condizioni necessarie e
imprescindibili, secondo la disciplina codicistica in tema di S.r.l., per dar vita ad

superficiale, quali meri adempimenti formali e che, peraltro, realmente le
provvigioni asseritamente simulate transitavano sul conto della Sanmarco e
andavano a formare una parte dei ricavi sottoposti all’imposizione fiscale.
Sotto il secondo aspetto rimarca che l’ipotizzata operazione simulatoria è
estranea sia alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74/2000 (priva
di connotati ingannatori o fraudolenti) sia e soprattutto alla ratio della previsione
di cui all’art. 37-bis, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 600/1973, che presuppone
trattarsi di conferimenti reali e palesi posti in essere in sostituzione di altro
negozio traslativo del bene conferito, al fine di beneficiare della più vantaggiosa
imposizione fiscale gravante sui primi.
Sul piano penale, una tale operazione comporterebbe – deduce ancora il
ricorrente – violazione dei principi di legalità, tassatività e determinatezza della
norma incriminatrice.
Soggiunge che il raffronto con l’ipotesi della «esterovestizione» di società,
utilizzato dal Tribunale per argomentare la riconducibilità del fenomeno elusivo
anche a comportamenti simulati, prova troppo, dal momento che in tal caso è la
stessa legge (art. 73, comma 3, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), che impone
di valutare, al fine di ricostruire la condotta elusiva, la sostanza della situazione
di fatto, mentre nel caso in esame manca un analogo riferimento normativo.

4.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, per avere
il giudice a quo erroneamente ravvisato il superamento, nelle fattispecie
considerate, delle soglie di punibilità previste dall’art. 4 d.lgs. n. 74/2000, ed
altrettanto erroneamente calcolato l’imposta evasa ai sensi dell’art. 1 del
medesimo decreto, derivandone l’erroneo riscontro del fumus commissi delicti.
Rileva che, come pure univocamente documentato in sede di riesame, la
stessa amministrazione finanziaria aveva provveduto alla ridefinizione degli
importi recuperati a tassazione per gli anni dal 2005 al 2009 (per il 2007 a
seguito di accertamento con adesione), ponendo la relativa pretesa, per ciascun
anno di imposta, al di sotto della soglia di rilevanza penale.
5

un conferimento, vengono nell’ordinanza sottovalutate, in modo sbrigativo e

Aveva infatti ritenuto, ad emenda degli erronei criteri adottati dalla Guardia
di Finanza, che il recupero fiscale dovesse essere limitato al disconoscimento del
risparmio d’imposta ottenuto dal contribuente con l’operazione posta in essere e
dunque procedendo anzitutto a quantificare l’imponibile non dichiarato nella
differenza tra i costi dedotti (ossia le somme corrisposte anno per anno dal Bova
alla Sanmarco S.r.l.) e i compensi corrisposti dalla società (già dichiarati e
tassati dall’artista) e, di seguito, applicando all’imponibile così calcolato l’aliquota
del 10%, ossia la differenza tra l’aliquota prevista per i redditi della persona

L’Agenzia delle entrate aveva inoltre espressamente escluso doversi
procedere a recupero ai fini Irap e Iva, non essendovi alcuna differenza di
aliquota tra l’imposta che, sull’imponibile non dichiarato, avrebbe dovuto
corrispondere il Bova e quella invece effettivamente corrisposta dalla Sanmarco
S.r.l..
Quanto all’anno d’imposta 2010, rileva il ricorrente che, come pure
documentato in sede di riesame, essendo l’avviso di accertamento ancora in fase
di elaborazione da parte dell’Agenzia delle entrate, egli aveva presentato
dichiarazione integrativa del modello Unico 2011/2010 e del modello Irap
2011/2010, nei quali veniva evidenzia, in base ai medesimi criteri già recepiti
dall’amministrazione finanziaria per gli anni precedenti, una maggiore imposta
non pagata di C 46.235,00, anch’essa inferiore alla soglia di punibilità.
Alla luce di tali premesse, censura l’affermazione contenuta nell’ordinanza
impugnata secondo cui l’imposta andrebbe calcolata come se la società non fosse
stata costituita, rilevando in sintesi che:
l’errore

nel

calcolo

delle

imposte

era

stato

riconosciuto

dall’amministrazione finanziaria, tanto che la stessa aveva, come detto,
proceduto al ricalcolo degli importi recuperati a tassazione;
– l’assunto secondo cui il calcolo dell’imposta andrebbe operato come se la
società non fosse stata costituita, si pone in contrasto con quello secondo cui
andrebbero nella specie ravvisati dei veri e propri conferimenti in società, ciò
postulando l’esistenza reale di una società;
– è vero che il giudice penale non è vincolato dall’accertamento in sede
tributaria, ma egli tuttavia non può prescindere dalla pretesa tributaria
dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 – dep.
14/02/2012, Manco, Rv. 251892);
– anche con riferimento all’accertamento per adesione posto a base del
nuovo calcolo dell’imposta per l’anno 2007, se è vero che esso non ha efficacia
vincolante per il giudice penale, tuttavia per disconoscerlo e aderire alla
quantificazione iniziale, sarebbe necessario indicare concreti elementi di fatto che
6

fisica (43%) e quella prevista per i redditi della persona giuridica (33%).

rendono quest’ultima più attendibile rispetto alla rideterminazione negoziale;
– il ragionamento seguito dal Tribunale omette, infine, di considerare che la
Sanmarco, lungi dal potersi considerare come se non esistesse, ha
effettivamente versato le imposte calcolate sui ricavi derivanti dal rapporto
contrattuale con il Bova, sicché il criterio di calcolo ipotizzato nell’ordinanza
porterebbe a una duplicazione delle stesse imposte (una prima volta pagate dalla
società, una seconda volta dal Bova).

applicazione degli art. 322-ter cod. pen. e 1, comma 143, legge 24 dicembre
2007, n. 244 (legge finanziaria 2008).
Lamenta che il Tribunale ha omesso di considerare la documentazione
comprovante i piani di ammortamento e i relativi pagamenti già effettuati per
tutte le annualità, compreso l’anno di imposta 2010 in conseguenza della
dichiarazione integrativa del modello Unico 2011/2010. Posto che, secondo
indirizzo della giurisprudenza di questa Suprema Corte, il sequestro preventivo
ex art. 322-ter cod. pen. non può riguardare beni di valore eccedente il profitto
del reato, da identificare per altrettanto pacifico indirizzo, nel caso di reati
tributari, con l’ammontare dell’imposta evasa, deduce che di tali pagamenti
avrebbe dovuto a tal fine tenersi conto.

5. Il ricorrente ha depositato in data 9 gennaio 2014 memoria con la quale
viene proposto nuovo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 311, comma 4, cod.
proc. pen. (richiamato dall’art. 325, comma 3, cod. proc. pen.).
Con esso deduce l’illegittimità del sequestro preventivo nella misura in cui è
riferito alle imposte in ipotesi evase per l’anno 2006, in quanto operato in
applicazione retroattiva della norma di cui all’art. 1, comma 143, legge 24
dicembre 2007, n. 244 (che ha esteso ai reati tributari la confisca del
equivalente cui detto sequestro è finalizzato) a fattispecie perfezionatasi anzi
anteriormente alla sua entrata in vigore: ciò in violazione del principio di
irretroattività della norma penale (art. 2 cod. pen.), cui deve ritenersi soggetta
anche la norma suindicata, per il carattere prettamente afflittivo e
consequenziale al reato della confisca predetta.

Considerato in diritto

6. I ristretti confini del sindacato consentito in questa sede – da un lato in
ragione dei limitati vizi deducibili, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., riguardo
a provvedimenti in tema di misure cautelari reali, dall’altro per i vincoli derivanti
7

4.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce inosservanza ed erronea

dal precedente annullamento di questa S.C., dovendosi tener conto al riguardo
delle questioni esplicitamente o implicitamente già decise dalla terza sezione con
la sentenza sopra citata – impediscono la valutazione della fondatezza del primo
motivo di ricorso.
Ed invero, quanto alle preclusioni derivanti dal precedente decisum, non può
non rilevarsi che la terza sezione, con la richiamata pronuncia già resa sul caso
in esame, nell’annullare la prima ordinanza che aveva escluso potersi ravvisare
nella specie un conferimento in società per ragioni legate a presunti limiti

non più sussistere alla luce del nuovo testo dell’art. 2464 cod. civ.), ha
implicitamente avallato i passaggi argomentativi necessariamente presupposti da
quella statuizione (ancorché reiettiva) del Tribunale, e tra essi in particolare
quello che ritiene astrattamente idoneo ad integrare la previsione di cui all’art.
37-bis comma 3 lett. b) d.P.R. n. 600/1973 (e, con ciò, a soddisfare il principio
di legalità e determinatezza della previsione incriminatrice così come ricostruita
dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento alle condotte elusive), anche
un conferimento dissimulato dietro l’apparenza di diversa operazione negoziale.
Le restanti censure sono invece precluse dall’art. 325 cod. proc. pen.,
risolvendosi esse nella prospettazione di un vizio motivazionale in relazione alla
invero dubbia configurabilità nella fattispecie di una

simulazione relativa

(affermata in ragione della supposta identificabilità di un dissimulato
conferimento in società, dietro l’apparenza di un contratto di scambio che obbliga
l’odierno ricorrente alla cessione dei diritti sulla propria immagine ed al
versamento di una percentuale dei ricavi ottenuti dalla propria attività artistica,
verso il pagamento di un corrispettivo annuo non inferiore a € 100.000,00).
Non appare dubbio invero che una tale ricostruzione, nonostante
l’intrecciarsi in essa di questioni di fatto e di diritto, configura nella sua essenza
una valutazione anche di merito, come tale, non sindacabile in questa sede,
restando per il resto preclusa una sua rivisitazione dai vincoli derivanti dal
precedente annullamento.

7. Il ricorso si rivela tuttavia fondato in relazione al secondo motivo, di
rilievo assorbente e non soggetto ad analoghe preclusioni, trattandosi di
questione non esaminata, nemmeno per implicito, dalla precedente citata
pronuncia e certamente impingente l’osservanza di precisi e univoci limiti
normativi posti alla punibilità delle ipotizzate fattispecie criminose.
7.1. Ed invero, premesso che la condotta punita dall’art. 4 d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74, consiste nella indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o
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qualitativi dei beni suscettibili di conferimento (limiti che la S.C. ha evidenziato

sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di
elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o, come nella
specie, di elementi passivi fittizi (c.d. dichiarazione infedele), occorre
rammentare che, per espressa previsione contenuta nella stessa norma, essa è
però penalmente rilevante solo quando, congiuntamente:
a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole
imposte, a C 103.291,38 (per i reati consumati anteriormente al 17/09/2011:
nella specie capi da A ad E) o a C 50.000,00 (per i reati consumati

apportata dall’art. 2, comma 36 vicies semel, lett. d), d.l. 13 agosto 2011, n.

138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148);
b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione,
anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per
cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione,
o, comunque, è superiore a C 2.065.827,60 (per i reati consumati anteriormente
al 17/09/2011: nella specie capi da A ad E) o a C 2.000.000,00 (per i reati
consumati successivamente a tale data: nella specie capo F, per effetto della
predetta modifica).
Il superamento della soglia rappresentata dall’ammontare dell’imposta
evasa costituisce dunque una condizione oggettiva di punibilità (Sez. 3, n. 25213
del 26/05/2011, Calcagni, Rv. 250656), in mancanza della quale (ossia al di
sotto della predetta soglia) l’interesse dell’amministrazione finanziaria
all’esattezza delle dichiarazioni annuali dei redditi e dell’IVA è presidiato dalle
conseguenze civilistiche della violazione dell’obbligo posto a carico del
contribuente (interessi di mora e sanzioni).
Deve certamente ribadirsi che, ai fini dell’individuazione del superamento o
meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito
di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta
evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare
in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice
tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n.
36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008,
De Cicco, Rv. 239984).
È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione
finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al
giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che
possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di
fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento
diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere
9

successivamente a tale data: nella specie capo F; ciò per effetto della modifica

l’ammontare dell’imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio
tributario.
È ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e
congrua motivazione.
Con la precisazione peraltro che i possibili esiti del giudizio tributario, che
può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato
ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria che fissa il
limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all’accertamento

dell’amministrazione finanziaria (così Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 – dep.
14/02/2012, Manco, Rv. 251892).
L’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano
sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che
poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale
concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale
non è vincolato all’imposta così “accertata”; ma per discostarsi dal dato
quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale
per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione
finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 citato,
occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente
attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta.

7.2. Nella specie, a fronte della documentata esistenza, per gli anni di
imposta 2006, 2008 e 2009 di avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle
entrate chiaramente indicanti una rideterminazione della imposta evasa in
misura nettamente inferiore non solo a quella indicata in imputazione ma anche
alla soglia di punibilità predetta, il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli
elementi da essa emergenti, giustificando il proprio convincimento della
sussistenza, anche sotto tale preliminare profilo, del fumus commissi delicti, con
l’affermazione secondo la quale l’imposta evasa andrebbe nel caso di specie
calcolata «come se la società non fosse mai stata costituita»:

affermazione

evidentemente apodittica, che non tiene conto del ben diverso criterio di calcolo
seguito dall’amministrazione finanziaria e della relativa determinazione finale
(che pure, come detto, costituisce invece dato dal quale il giudice penale non
può prescindere) e che si pone anche in palese contrasto con il disposto dell’art.
37-bis comma 2 d.P.R. n. 600/73, a mente del quale le imposte evase attraverso
la condotta elusiva vanno rideterminate e applicate dall’amministrazione
finanziaria «al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento
inopponibile all’amministrazione».
10

del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria

7.2.1. Analogo rilievo vale anche per l’imputazione di cui al capo F
(dichiarazione relativa all’anno d’imposta 2010).
Se è vero che, per tale anno, manca ancora un ricalcolo da parte
dell’Agenzia, ma vi è solo dichiarazione integrativa presentata dal contribuente in
data 24/04/2013, è anche vero però che tale dichiarazione integrativa giunge a
calcolare una maggiore imposta dovuta per C 46.234,00 (al di sotto dunque della
più severa soglia di punibilità dettata dalla nuova formulazione dell’art. 4 d.lgs.
n. 74/2000) sulla base di criteri di calcolo in apparenza corrispondenti a quelli

In mancanza di controllo da parte dell’Agenzia delle entrate, il giudice
penale può ovviamente discostarsi da tale unilaterale indicazione, ma deve
tuttavia motivare specificamente sul punto illustrando le ragioni per le quali
dovrebbe invece pervenirsi al calcolo di una maggiore imposta evasa, ragioni che
non possono essere rappresentate dall’assunto predetto secondo cui
occorrerebbe nella specie operare «come se la società non fosse stata mai
costituita»,

in quanto privo di fondamento logico e normativo (ma anzi

contrastato dal dato positivo sopra evidenziato) e smentito dal criterio
costantemente adottato dalla stessa amministrazione finanziaria per gli anni
precedenti.

8. Resta assorbito l’esame del terzo motivo di ricorso, dovendosi invece
rilevare l’inammissibiltà del motivo aggiunto in quanto mirato a introdurre una
questione di fatto (la data di commissione del reato contestato al capo B, diversa
da quella indicata in rubrica) che non risulta sia stata sottoposta al Tribunale del
riesame, ma che per la prima volta viene dedotta in questa sede.

9. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio al Tribunale di
Roma per un nuovo esame dell’appello proposto dal P.M., nel condurre il quale i
giudici del rinvio valuteranno, tenendo conto dei rilievi e dei principi sopra
enunciati, se le contestate condotte elusive superino le soglie di punibilità dettate
dalla citata norma nella formulazione tempo per tempo vigente.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo
esame.
Così deciso il 30/01/2014

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