Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7387 del 03/12/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 7387 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: LEO GUGLIELMO

SENTENZA

sul ricorso proposto dal difensore di fiducia nell’interesse di
Pompei Vincenzo, nato a Roma il 17/02/1963

avverso la sentenza della Corte di appello di Roma in data 16/05/2012

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta in pubblica udienza dal consigliere Guglielmo Leo;
udito il Procuratore generale, in persona del sostituto dott. Roberto Aniello, che
ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il Difensore dell’imputato, avv. Giuseppe Cincione, in sostituzione dell’avv.
Giovanni Aricò, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4141/12 del
16/05/2012, con la quale Vincenzo Pompei è stato ritenuto responsabile del
delitto di associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico (art. 74 del
d.P.R. 09/10/2013, n. 309), e condannato, in parziale riforma della sentenza di
primo grado e previa riconoscimento di attenuanti generiche, alla pena di anni
sette e mesi sei di reclusione. Con la stessa sentenza è stata dichiarata
l’improcedibilità dell’azione contro il Pompei per un delitto aggravato e

Data Udienza: 03/12/2013

continuato di importazione di stupefacenti (capo 5 della rubrica), essendosi i
reati estinti per intervenuta prescrizione.
Secondo la ricostruzione dei fatti accolta nella sentenza impugnata, Domenico
Pompei era stato partecipe di una organizzazione capeggiata da Gennaro Senese
(poi deceduto) e dedita all’importazione ed al commercio di cocaina ed hashish
(capo

1 della rubrica: fatto accertato in Roma «fino al 1997»). Stando

all’originaria imputazione, l’organizzazione annoverava tra gli ulteriori partecipi,
oltre a persone non identificate, anche tali Mattarrese, Piscitelli, Turchetta.

per narcotraffico nei confronti di tali Fabietti, Pietro e Sandro, nonché tali
Maddalena e Viganò, i quali per altro, secondo detta contestazione, avevano
agito «in concorso con Pompei» e «stabilmente coadiuvando» lo stesso Pompei.
Il fatto sarebbe stato accertato in Roma, tra il maggio ed il settembre 1997.
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 27 maggio 2009, aveva condannato
per l’associazione di cui al capo 1 il solo Pompei, e per l’associazione di cui al
capo 2 il solo Viganò, prosciogliendo tutti gli ulteriori imputati. Nel corpo della
motivazione, per altro, si legge che le contestazioni avrebbero in realtà
riguardato un solo ed unitario fenomeno associativo.
La sentenza di appello ha confermato la pronuncia resa nei confronti del
Pompei, assolvendo invece il Viganò, per non avere questi commesso il fatto
ascrittogli.

2. Con atto depositato il 13 luglio 2012, il primo dei due difensori di Pompei, avv.
Giovanni Aricò, ha proposto ricorso contro la sentenza indicata.
Con un primo motivo si denuncia, a norma dell’art. 606, comma 1, lettere c)
ed e), cod. proc. pen., carenza assoluta di motivazione in ordine alla decisione di
conferma della pronuncia di condanna. Il Giudice di appello avrebbe
semplicemente ripreso le argomentazioni di quello di prime cure, senza
aggiungere alcuna valutazione critica, avuto in particolare riguardo alle censure
proposte con la relativa impugnazione.
Con un secondo motivo, proposto ex art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc.
pen., si denuncia la violazione dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Dopo aver
ricordato l’intervenuta assoluzione di tutti i presunti partecipi delle associazioni
indicate ai primi due capi dell’imputazione, la difesa dell’imputato osserva che la
«unificazione» delle due contestazioni associative avrebbe rappresentato un
espediente al fine di «introdurre» nella prima associazione – quella contestata al
Pompei – persone non identificate che avrebbero potuto al più militare nella
seconda, «ritagliata» sul compendio delle intercettazioni ambientali, dalle quali

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La rubrica del provvedimento, al capo 2, reca una contestazione associativa

soltanto si desume l’esistenza di partecipi di singole operazioni compiute
dall’odierno ricorrente.
In ogni caso, le sentenze di condanna non darebbero conto di alcuno stabile
collegamento tra i vari interlocutori del Pompei, ed enfatizzerebbero senza
giustificazione la valenza associativa di episodi evocati da poche intercettazioni
(due riguardanti «Marcolino», una concernente «Lello» o «Lele», pochissime
relative a «Fabrizio»).
Con un terzo ed ultimo motivo, il ricorrente deduce carenza assoluta di

scelta di applicare la diminuzione di pena connessa alle riconosciute attenuanti
generiche in misura inferiore, sia pure di poco, al massimo consentito.

3. Con ricorso depositato in data 01/10/2012, il secondo difensore di Pompei
deduce in primo luogo, a norma dell’art. 606, comma 1, lettera e) cod. proc.
pen., mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
La sentenza impugnata non avrebbe offerto risposta alcuna alle censure già
mosse, con i motivi di appello, alla inammissibile operazione di «accorpamento»
tra le contestazioni associative condotta dal Giudice di prime cure, pervenendo al
risultato, ritenuto paradossale, di affermare l’esistenza di una associazione
criminale con un solo componente identificato. Illegittimamente, poi, sarebbero
state superate le contraddizioni nel racconto del collaboratore Raul Riva, senza
alcuna risposta ai rilievi in proposito compiuti coi motivi di appello.
Con un secondo motivo si denuncia, a norma dell’art. 606, comma 1, lettera
c), cod. proc. pen., l’inosservanza degli artt. 521 e 522, comma 2, cod. proc.

pen. Pompei sarebbe stato in sostanza condannato per il reato associativo di cui
al capo 2 sebbene lo stesso non gli fosse mai stato contestato: reato, per altro,
commesso nell’asserita qualità di concorrente ex art. 110 cod. pen. di soggetti
tutti e contemporaneamente assolti.
Il terzo motivo di ricorso prospetta carenza assoluta di motivazione, rilevante
a norma dell’art. 606, comma 1, lettera

e), cod. proc. pen., circa l’asserita

violazione dell’art. 649, comma 1, del medesimo codice, in relazione all’art. 54
della «Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14.06. 1985.
La difesa del Pompei ha dimostrato come quest’ultimo, arrestato in Spagna
nel marzo del 1989 con l’accusa di aver detenuto un ingente quantitativo di
cocaina, fatto che si ritiene compreso nell’imputazione di cui al capo 5 della
rubrica, fosse stato definitivamente assolto dalla stessa accusa con sentenza
dell’Autorità giudiziaria iberica in data 09/04/1989. La decisione impugnata non
avrebbe tenuto alcun conto della circostanza, limitandosi a rilevare l’intervenuta
prescrizione del reato.

3

tte–

motivazione, rilevante a norma della lettera e) del comma 1 dell’art. 606, circa la

Carenza assoluta di motivazione, infine, anche riguardo all’intervenuta
prescrizione del reato associativo di cui al capo 1, che era stata esplicitamente
dedotta con i motivi di appello. Dopo aver contestato la quantificazione dei
periodi di sospensione operata dalla Corte territoriale al fine di verificare
l’estinzione del reato di cui al capo 5, il ricorrente assume che, comunque, il
termine prescrizionale risulterebbe decorso tanto alla luce della disciplina
originaria degli artt. 157 e seguenti cod. pen., tanto in applicazione del testo
introdotto con le modifiche recate dalla legge n. 251 del 2005, a maggior ragione

generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Deve essere valutata, in primo luogo, la pretesa violazione del principio di
correlazione tra accusa e sentenza, che la Difesa del ricorrente ha prospettato
con riguardo alla «unificazione» dei due capi d’imputazione concernenti i delitti
associativi, dalla quale sarebbe derivato che Pompei, accusato del fatto di cui al
capo 1, sarebbe di fatto stato condannato per il reato sub 2.
Il motivo è infondato, anche dal punto di vista sostanziale (cioè a
prescindere dal rilievo che la condanna è stata testualmente inflitta in relazione
al capo 1). Non v’è dubbio infatti che – sia pure per mezzo di capi d’imputazione
piuttosto generici e per qualche verso anomali – Pompei sia stato posto fin
dall’inizio in grado di difendersi da un’accusa che lo poneva al centro di un
gruppo riferibile a Senese, e impegnato in relazioni concernenti il narcotraffico
con le persone indicate al capo 2.
Assente dall’elenco degli accusati anteposto alla seconda imputazione,
Pompei è formalmente menzionato nel testo della medesima, ed è anzi indicato
come centrale elemento di collegamento tra i due contesti. Dunque, alla luce dei
noti principi di elaborazione giurisprudenziale sui parametri in base ai quali deve
essere ricostruita l’accusa, a fini di verifica della relazione con essa della
decisione giudiziale, il vizio denunciato non sussiste.

2. Il motivo attinente alla presunta violazione del divieto di

bis in idem

internazionale, che non risulta proposto in sede di appello, è generico e,
comunque, palesemente infondato.
È vero, stando almeno alle informazioni desumibili dalle sentenze di merito,
che Pompei era stato assolto dall’Autorità giudiziaria spagnola in relazione ad un
carico di cocaina sequestrato in terra iberica nel marzo del 1989. È anche palese,
però, che l’imputazione di cui al capo 5 della rubrica non comprendeva quel
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considerando che la Corte territoriale ha riconosciuto all’interessato le attenuanti

fatto, poiché riferita a partite di droga puntualmente giunte in Italia, sia pure
attraverso un meccanismo che presumibilmente era in atto anche quando
Pompei e Raia furono arrestati dalle Autorità iberiche.
Senza dire che il rilievo attiene ad una imputazione per la quale non
interviene condanna, essendosi definitivamente rilevata l’estinzione del reato per
prescrizione.

3. L’ultimo dei motivi proposti dal secondo Difensore, relativamente alla pretesa

generico ben oltre la soglia della inammissibilità.
Nonostante alcune osservazioni su presunti periodi di sospensione del
termine prescrizionale, il ricorrente non indica il termine di decorrenza
individuato né soprattutto la sua durata, con la conseguenza che non si
comprende quando il delitto associativo si sarebbe estinto per prescrizione.
In ogni caso, alla luce del valore edittale della pena prevista per il delitto in
contestazione (che muove da 10 anni e incontra il massimo nel limite generale di
24), ed anche considerando l’intervenuto riconoscimento delle attenuanti
generiche in sede di appello, l’effetto estintivo non potrebbe considerarsi
maturato né alla luce della disciplina vigente all’epoca dei fatti, né alla luce del
testo novellato dell’art. 157 cod. pen.

4. Il ricorso è invece fondato nella parte in cui denuncia un vizio essenziale di
motivazione. Dal compendio delle informazioni desumibili dalla sentenza
impugnata, anche in esito ad un laborioso raccordo con la motivazione della
sentenza di prime cure, non emerge infatti una giustificazione adeguata e
razionale della pronuncia di condanna deliberata nei confronti dell’imputato.

5. Giova premettere come Pompei fosse stato individuato quale narcotrafficante
grazie alle informazioni offerte agli inquirenti da un certo Raul Riva, il cui fratello
era stato assassinato nell’ambito di uno scontro tra bande nella zona di Ostia.
Secondo il collaboratore, alla fine degli anni ’80, l’odierno ricorrente aveva
ripetutamente importato cocaina dal Brasile, fino ad essere arrestato in Spagna
con un carico, venendo per altro assolto grazie all’assunzione di responsabilità
del correo che lo accompagnava (un fratello dello stesso Riva). Successivamente,
Pompei avrebbe importato, sempre attraverso la Spagna, ingenti quantitativi di
hashish. Aveva poi lasciato il gruppo dei Riva, accostandosi ad altra
organizzazione, riferibile alla famiglia Senese.
Gli elementi cognitivi utilizzati per costruire le attuali imputazioni,
comunque, sembrano provenire essenzialmente dalla intercettazione di

5

(9A,

prescrizione del delitto associativo per il quale è intervenuta condanna, è

conversazioni intrattenute da Pompei nell’abitacolo della sua vettura, a partire
dal giugno del 1997.
Si tratta di un coacervo di informazioni dal quale emerge con ottima
evidenza la dedizione dell’imputato a fatti di narcotraffico, e tuttavia – nella
rappresentazione che ne viene data attraverso la motivazione combinata delle
sentenze di merito – si presenta frammentario, privo di concludenza in ordine
alla sussistenza delle associazioni ipotizzate, alla loro struttura ed alla loro
composizione.

dato dalla conformazione, obiettivamente singolare, delle imputazioni associative
elevate dal Pubblico ministero. Come si è visto in apertura, il capo 1 (di evidente
povertà descrittiva) raffigura Pompei quale componente della organizzazione
capeggiata da Gennaro Senese, datata al 1997 anche in presumibile connessione
all’epoca in cui lo stesso Senese fu ucciso. Nella rubrica del capo 2 l’odierno
ricorrente non compare, ma sono elencate persone a loro volta accusate del
delitto associativo, per avere «concorso» nel fatto di cui al capo 1, secondo la
previsione dell’art. 110 cod. pen.. La datazione coincide con quella della morte di
Senese, e dunque sostanzialmente si sovrappone a quella che segna il primo
capo della rubrica.
Non è agevole comprendere le ragioni d’una tale articolazione degli addebiti
(e se, in particolare, ai soggetti indicati quali responsabili del fatto sub 2 si sia
inteso contestare il cd. «concorso esterno» nel reato associativo). Certo non
stupisce, però, la decisione assunta dal Giudice di prime cure. Dopo uno
stringato e non chiarificatore riferimento ad un rapporto di successione
cronologica tra le fattispecie associative, il Tribunale di Roma ha rilevato: «è
agevole osservare, tuttavia, come le due compagini associative descritte nei capi
1 e 2 di rubrica possano essere in realtà ridotte ad un’unica organizzazione, nella
quale il Pompei svolgeva il ruolo di trait d’union tra i diversi membri».
Si tratta, a prescindere dalle carenze argomentative e dal mancato
ancoraggio a fonti di prova specificamente indicate, d’una soluzione
“ragionevole”. E tuttavia, come si anticipava, questo aspetto in certo senso
preliminare della rappresentazione è già fortemente rivelatore di un quadro
fattuale non organicamente ricostruito.
5.1. La motivazione delle sentenze di condanna, del resto, è interamente
incentrata sugli esiti delle intercettazioni ambientali cui già si è fatto cenno.
È da notare subito che le risultanze in questione non riguardano i presunti
associati al Pompei secondo l’organigramma del capo 1 della rubrica, e non
riguardano neppure i «concorrenti» indicati in relazione al capo 2. Come si è
visto, il Tribunale ha assolto tutti gli imputati dei due gruppi, ad eccezione dello
6

Le,z,

Un riscontro immediato delle difficoltà di coordinamento delle informazioni è

stesso Pompei e di Roberto Viganò (dichiarati oltretutto colpevoli, nonostante la
«unificazione» in sede motivazionale, rispettivamente del reato di cui al capo 1 e
del reato di cui al capo 2 della rubrica). Anche Viganò è stato poi assolto dal
Giudice di appello per non aver commesso il fatto.
Dunque gli associati dell’odierno ricorrente, secondo la ricostruzione
desumibile dalle sentenze, erano tutti persone non identificate, tra le quali
“Marcolino”, “Lele” o “Lello”, “Fabrizio” e “Cicalone”. Ciò, naturalmente,
sempreché si trattasse davvero di associati, e non di «concorrenti esterni», come

Le conversazioni citate in motivazione sono poche e non tutte univoche.
Pare chiaro, nonostante si tratti di un paio di colloqui soltanto, che “Marcolino”
trafficava con Pompei, e che altrettanto può dirsi riguardo all’unica conversazione
riguardante “Fabrizio”, alle due concernenti “Lello” e ad alcuni scambi per i quali
l’interlocutore è rimasto privo finanche di un soprannome (meno conclusive
sembrano, per la verità, le implicazioni dei colloqui con “Cicalone”, così come
rappresentati nelle sentenze).
È ovvio, per altro, che le risultanze idonee ad una ricostruzione più o meno
sommaria di fatti di detenzione e di compravendita di droga dovevano essere
valutate per la loro capacità di dimostrare la pertinenza di quei fatti ad un
contesto organizzativo che comprendesse le persone interessate, e che avesse
caratteristiche sufficientemente determinate.
5.2. È senz’altro possibile concordare, a tale proposito, con le enunciazioni di
principio che le sentenze di merito riportano in materia di reati associativi. Per
quanto più direttamente rileva, deve ritenersi che l’associazione penalmente
rilevante non richieda necessariamente formalità costitutive, divisione formale
dei ruoli, organigramma imponente, strutture specificamente dedicate. D’altra
parte, la mancata identificazione dei componenti non impedisce, di per sé,
l’accertamento del reato associativo, quando vi sia comunque prova che almeno
tre persone si sono «associate» allo scopo di commettere delitti.
Occorre notare, per la verità, che di norma esiste corrispondenza tra qualità
del quadro probatorio e ricognizione del fenomeno associativo, nel senso che la
presenza di molti profili non svelati è spesso sintomatica, se non
dell’insussistenza del fatto, della mediocre capacità dimostrativa della prova.
In ogni caso, l’associazione per delinquere è un fatto materiale, con precise
connotazioni strutturali, al quale si connettono pertinenti profili soggettivi. Se
non sono necessarie la formalità e neppure la contestualità del patto associativo,
occorre pur sempre che quel patto esista, ed abbia ad oggetto un determinato
programma criminoso, da perseguire attraverso il coordinamento di singoli
apporti personali. Il patto genera un vincolo, che include i partecipi ed esclude
7

non sarebbe del tutto arbitrario ricavare dalla lettera della contestazione sub 2.

tutti gli altri, e determina dunque appartenenza. Al patto deve sottendere la
disponibilità di fatto delle risorse umane e materiali sufficienti per una credibile
attuazione del programma associativo. In assenza di un riconoscibile profilo
strutturaleye di una sufficiente connotazione di stabilità, le aggregazioni criminali
non esprimono quel disvalore, e quel connotato di pericolosità per l’ordine
pubblico, che giustifica, in termini di offensività e tipicità, la (rilevante)
punizione prevista dalla legge. Nei riflessi soggettivi, le condotte individuali di
partecipazione si caratterizzano per la volontà del singolo di restare stabilmente

stabile disponibilità. Il gruppo, dal canto proprio, riconosce il singolo come
intraneo, e ciò concorre a distinguere un associato (che magari non ha ancora
commesso alcun delitto) da un interlocutore abituale nella gestione dei traffici
criminali, che sia privo però di affectio societatis, e non costituisca dunque un
fattore strutturalmente riferibile al gruppo.
È ovvio che, in ogni singolo giudizio, una pronuncia di condanna presuppone
l’accertamento del fatto in tutti gli elementi essenziali, come avvenimento
storico, definito e per ciò stesso distinto da fenomeni contigui e da situazioni
penalmente irrilevanti. Non rileva la convinzione, o l’intuizione, della pertinenza
di un singolo ad un gruppo criminale strutturato, se le prove raccolte non
stabiliscono quale sia tale gruppo, e quali ne siano in concreto le caratteristiche
fondamentali.
5.3. Va notato a questo punto che, per quanto combinate, le motivazioni dei
Giudici di merito non pongono in luce effettiva il fondamento della decisione di
condanna per il reato associativo, in ordine ad alcuno dei suoi profili essenziali.
La fattispecie (molto) sommariamente delineata al capo 1 risulta di fatto
abbandonata, in favore di rilievi sui traffici con persone che dovrebbero essere
ricondotte al capo 2 (così era avvenuto per Viganò – “Cicalone”). Per altro,
l’associazione di cui al capo 2, accorpata all’altra, risulta di fatto sensibilmente
diversa da quella raffigurata dall’imputazione, visto che tutti i partecipi indicati
sono stati assolti.
Quanto agli episodi di narcotraffico che emergono dai colloqui, gli stessi
sono stati considerati in quanto tali, senza che ne fossero tratte indicazioni
concrete e complete – ammesso che fosse possibile – riguardo alla nebulosa
entità associativa risultante dalla crasi tra le due imputazioni.
Certo non può dirsi, da questo punto di vista, che gli scambi comunicativi
fossero «auto evidenti», una volta stabilita l’insufficienza strutturale dei
riferimenti all’entità del traffico che ruotava sul Pompei ed alla loro continuità.
Per quello che vale, anzi, alcuni dei colloqui evocano rapporti di contrapposizione
negoziale che non sono incompatibili con una comune appartenenza associativa,
8

(P

a disposizione dell’ente, conoscendone i profili essenziali, e con atteggiamento di

ma certo non la dimostrano. Altri colloqui inducono il Tribunale a riconoscere i
segnali d’una fungibilità di ruoli tra gli interlocutori, che a sua volta non depone,
anche se non la smentisce direttamente, per la pertinenza degli scambi ad una
comune attività nell’ambito di una organizzazione unitaria.
Ne consegue che il Tribunale, se si escludono riferimenti astratti
all’elaborazione giurisprudenziale in tema di reati associativi, si limita ad
affermare che “Marcolino” fungeva da venditore per Pompei (p. 25 della
sentenza), e che lo stesso Pompei era persona influente riguardo al mercato

Il sottinteso, tutt’altro che arbitrario, è che non fosse e non sia possibile
gestire con regolarità traffici di livello elevato se non nell’ambito di un contesto
associativo. Ma l’identificazione di tale contesto, almeno nella sua fisionomia
essenziale, è ovviamente tutt’altra cosa.
La situazione non è sostanzialmente modificata dalla sentenza di appello,
ove pure, nonostante l’integrale rinvio recettizio alla decisione di primo grado, le
osservazioni del Giudice di merito sono meglio «organizzate» al fine di
documentare l’esistenza di un fatto associativo.
Si coglie un riferimento ai segnali di abitualità che in effetti emergono dal
ridottissimo numero dei colloqui tra Pompei da una parte e “Lele” o “Marcolino”
dall’altra. Si nota come i riferimenti alla necessità di chiudere “il vecchio” e
cominciare “il nuovo” siano a loro volta sintomatici di una continuità dell’illecito
traffico e al tempo stesso di una qualche novità nella conduzione, che forse
evoca (ma non è scritto) quel passaggio di Pompei al gruppo Senese cui aveva
fatto cenno il Raia.
Tolti però tali riferimenti, privi di adeguata capacità descrittiva del fenomeno
criminale perseguito (non i “traffici”, bensì l’associazione), la sussistenza
dell’organizzazione ipotizzata dall’accusa è frutto di mera enunciazione. Così
quando si compie un riferimento alla sentenza appellata (è citata la pagina 29,
ove per vero sono solo illustrati alcuni principi di diritto riguardo ai reati
associativi), e così quando si esclude (a p. 9) un ragionevole dubbio circa
l’esistenza di una associazione che viene poi descritta unicamente enunciando gli
elementi costitutivi della fattispecie.
Perfino riguardo alla non motivata «unificazione» delle due contestazioni
associative, che aveva costituito oggetto di doglianza nei motivi di appello, si
rinviene nella sentenza impugnata un mero riferimento alla decisione in
proposito assunta dal Tribunale (p. 10): l’adesione della Corte territoriale è
giustificata, in proposito, solo attraverso i riferimenti generali altrove compiuti
alla ricorrenza dei presupposti per una conferma della decisione appellata.

9

della droga a Ostia (p. 26).

Insomma, come puntualmente eccepito dai Difensori del ricorrente, la
raffigurazione del fatto associativo nella sentenza impugnata è sfocata quanto ad
ogni profilo giuridicamente rilevante, ed è dunque radicalmente carente.
Il Giudice del rinvio dovrà valutare, attraverso un esame delle risultanze
realmente e puntualmente orientato verso una accettabile ricostruzione del
gruppo criminale e della sua fisionomia, se sia possibile o non sostenere con
motivazione completa e logica l’assunto accusatorio.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte d’appello di Roma.
Così deciso il 03/12/2013.

P.Q.M.

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