Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7339 del 04/02/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 7339 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso
la corte d’appello di Napoli;
avverso la sentenza emessa il 25 settembre 2012 dal giudice del tribunale
di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di Ayakwa Joseph;
udita nella pubblica udienza del 4 febbraio 2014 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Fulvio Baldi, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria e individuazione della stessa
nella pubblicazione sul sito del Ministero della giustizia;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Santa Maria Capua
Vetere dichiarò Ayakwa Joseph colpevole del reato di cui all’art. 171 ter della
legge 22 aprile 1941, n. 633, per avere detenuto per la vendita 186 supporti magnetici privi del contrassegno Siae, e lo condannò alla pena sospesa di mesi 8 di
reclusione ed E 3.000,00 di multa.
Il Procuratore generale della Repubblica presso la corte d’appello di Napoli
propone ricorso per cassazione deducendo violazione dell’art. 171 ter, comma
4, lett. a), b), c), della legge 22 aprile 1941, n. 633, per avere il giudice omesso
di disporre la pena accessoria della pubblicazione della sentenza.
Motivi della decisione
A seguito del ricorso del Procuratore generale, si è regolarmente instaurato
il rapporto processuale di impugnazione dinanzi a questa Corte.
Va quindi osservato in via preliminare che, pur essendo stato contestato
all’imputato di aver detenuto per la vendita supporti magnetici illecitamente du-

Data Udienza: 04/02/2014

plicati e privi del timbro SIAE, l’imputato stesso è stato condannato esclusivamente perché «deteneva per la vendita — immettendo in circolazione — supporti
audiovisivi privi del contrassegno apposto dalla Società italiana degli autori ed
editori, avendo commesso il fatto per uso non personale». L’imputato, dunque,
è stato condannato unicamente per il reato di cui all’art. art. 171 ter, lett. d), della legge 22 aprile 1941, n. 633, consistente nella detenzione ai fini di vendita di
supporti privi del contrassegno Siae.
Ciò posto, la sentenza impugnata deve essere annullata d’ufficio, senza
rinvio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., in quanto dallo stesso testo della
sentenza emerge in modo evidente che il fatto per cui è intervenuta la condanna
non sussiste.
Va invero ricordato che la Corte di Giustizia europea – con sentenza resa ai
sensi dell’art. 234 del Trattato CEE, emessa 1’8 novembre 2007 nel procedimento C-20/05, Schwibbert, sulla questione relativa alla compatibilità della
normativa italiana che prevede l’apposizione del contrassegno Siae con la direttiva europea 83/189/CEE del 28 marzo 1983, la quale aveva istituito una procedura di informazione obbligatoria nel settore delle norme e delle regole tecniche
– ha statuito che l’obbligo di apporre sui dischi compatti contenenti opere d’arte
figurativa il contrassegno Siae in vista della loro commercializzazione nello
Stato membro interessato, rientra nel novero delle «regole tecniche», ai sensi
della suddetta normativa, che devono essere notificate dallo Stato alla commissione delle Comunità europea, la quale deve poter disporre di informazioni
complete al fine di verificare la compatibilità dell’obbligo con il principio di libera circolazione delle merci, con la conseguenza che qualora tali regole tecniche non siano state notificate alla Commissione non possono essere fatte valere
nei confronti dei privati e devono essere disapplicate dal giudice nazionale.
Di conseguenza, la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato
che la sentenza Schwibbert stabilisce un principio generale, secondo il quale la
violazione dell’obbligo di comunicare alla Commissione ogni istituzione di
contrassegno Siae successiva alla direttiva 83/189/CEE per supporti di qualsiasi
genere (cartaceo, magnetico, plastico, ecc.) e di ogni contenuto (musicale, letterario, figurativo, ecc.), rende inapplicabile l’obbligo del contrassegno stesso nei
confronti dei privati (ex plurimis, Sez. III, 12.2.2008, n. 13816, Valentino; Sez.
VII, 6 marzo 2008, Boujlaib e tutte le altre successive). Nell’ordinamento italiano l’obbligo di apposizione del contrassegno Siae per i supporti non cartacei
è posteriore alla istituzione, con la direttiva 83/189/CEE, della procedura di
comunicazione. Lo Stato italiano aveva comunque un obbligo di nuova notifica,
ai sensi dell’art. 8 della direttiva 98/34/CEE, a seguito della modifica apportata
al progetto di regola tecnica ed alla inclusione di nuovi supporti nell’ambito
dell’obbligo originario di apposizione del contrassegno. Conseguentemente, in
quanto disciplinato da norme comunque successive al 31 marzo 1983, l’obbligo
del contrassegno Siae doveva essere previamente notificato alla Commissione
europea, il che invece all’epoca dei fatti contestati notoriamente non era avvenuto.
L’obbligo di apposizione del contrassegno Siae, pertanto, non poteva essere fatto valere nei confronti dei privati e deve perciò essere disapplicato dal giu-

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dice nazionale. Deve quindi ritenersi che, non essendo in vigore un obbligo di
apporre sui supporti il contrassegno Siae, la detenzione, commercializzazione,
noleggio, ecc. di supporti privi di detto contrassegno non costituiva illecito e
non aveva rilevanza penale.
In particolare, la giurisprudenza ritiene che dalla imputazione di cui all’art.
art. 171 ter, lett. d), della legge 22 aprile 1941, n. 633 per fatti commessi prima
della notifica della regola tecnica alla commissione europea (avvenuta nel 2009)
l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste.
La sentenza impugnata va dunque annullata senza rinvio con questa formula in ordine al reato di cui all’art. 171 ter, lett. d), della legge 22 aprile 1941, n.
633, per il quale soltanto è intervenuta condanna.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 4
febbraio 2014.

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