Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 7223 del 15/12/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 7223 Anno 2016
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– SANDRI VINCENZO, n. 25/02/1942 a Marsala

avverso la sentenza della Corte d’appello di L’AQUILA in data 9/04/2014;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. R. Aniello, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

Data Udienza: 15/12/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 9/04/2014, depositata in data 7/05/2014, la
Corte d’appello di L’AQUILA, in parziale riforma della sentenza del tribunale di
CHIETI del 12/07/2012, rideterminava la pena inflitta a SANDRI VINCENZO in 6
mesi di reclusione ed € 1200,00 di multa per il reato di omesso versamento di

come commesso dal marzo 2007 al dicembre 2007, nonché dal febbraio al marzo
del 2008, secondo il prospetto allegato all’imputazione.

2.

Ha proposto ricorso SANDRI VINCENZO a mezzo del difensore fiduciario

cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deduce tre motivi, di
seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173
disp. att. cod. proc. pen.:
a) violazione della legge processuale (art. 606, lett. c), c.p.p.) sotto il profilo
della violazione della disciplina in tema di messa alla prova, in relazione agli
artt. 168 bis cod. pen. e 464 bis cod. proc. pen. come introdotti dalla legge n. 67
del 2014);
b) violazione di legge (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.) in relazione all’art. 2
della legge n. 638 del 1983;
c) violazione di legge (art. 606, lett. b), cod. proc. pen.) in relazione all’art. 2709
cod. civ.

2.1. In ordine al primo motivo, sostiene il ricorrente che, essendo entrata in
vigore la nuova normativa sulla c.d. messa alla prova successivamente alla
conclusione del giudizio di appello, in assenza di disciplina transitoria per i
processi già conclusi in fase di merito, si verificherebbe una macroscopica ed
ingiustificata disparità di trattamento; chiede peraltro sollevarsi la questione di
costituzionalità dell’art. 552, lett. F), cod. proc. pen. nella parte in cui non
prevede che l’avviso di cui alla lett. f) debba essere esteso anche all’ipotesi
prevista dall’art. 168 bis cod. pen., nonché all’art. 464 bis cod. proc. pen., nella
parte in cui non prevede che per i procedimenti pendenti, ove risultino superati i
termini di cui agli artt. 421, 422 e 491 cod. proc. pen., debba essere notificato
all’imputato un avviso contenente un termine entro cui potersi avvalere del
nuovo istituto ex art. 168 bis cod. pen., ovvero non prevede quanto meno la
facoltà per il medesimo di esercitare tale possibilità nella prima difesa utile e,

2

ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2, legge n. 638 del 1983), contestato

dunque, nella prima udienza successiva all’entrata in vigore della norma per tutti
i processi non ancora definiti con sentenza irrevocabile.

2.2.

In ordine al secondo ed al terzo motivo, che possono essere

congiuntamente illustrati attesa l’omogeneità dei profili di doglianza mossi, il
ricorrente censura l’affermazione della Corte d’appello secondo cui i modelli
DM/10 fanno piena prova contro l’imprenditore ex art. 2709 cod. civ.; la difesa

dell’avvenuta corresponsione della retribuzioni; richiamando alcune disposizioni
civilistiche (artt. 2216 e 2421, cod. civ.), sostiene il ricorrente che il DM/10 non
rientri nella previsione normativa dell’art. 2709 cod. civ.; in ogni caso, si
sostiene in ricorso, le scritture contabili fanno piena prova contro l’imprenditore,
qualifica che l’imputato non rivestirebbe in quanto organo della cooperativa,
sicchè le scritture non poteva essere utilizzate come prova nei suoi confronti
quale persona fisica, ma solo nei confronti dell’imprenditore che rappresentava.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è inammissibile.

4. Ed invero, quanto al primo motivo, è ormai pacifico nella giurisprudenza di
questa Corte che nel giudizio di impugnazione davanti alla Corte d’appello o alla
Corte di cassazione, l’imputato non può chiedere la sospensione del
procedimento con la messa alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen., perché il
beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova,
presuppone lo svolgimento di un “iter” processuale alternativo alla celebrazione
del giudizio (da ultimo, v. Sez. 5, n. 35721 del 09/06/2015 – dep. 26/08/2015,
Gasparini e altri, Rv. 264259 che ha evidenziato peraltro che la mancata
applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla
prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore,
stante l’assenza di disposizioni transitorie, non determina alcuna lesione del
principio di retroattività della “lex mitior”).
Questa Corte ha, poi, dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 464 bis, comma secondo, cod. proc. pen., per
contrasto all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione
dell’istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al
momento dell’entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, quando sia già
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aveva sostenuto a tal proposito come non fosse stata raggiunta la prova

decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa
istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e
non palesemente irragionevole, come tale insindacabile (Sez. 6, n. 47587 del
22/10/2014 – dep. 18/11/2014, Calamo, Rv. 261255).
Da ultimo, e conclusivamente, va qui sottolineato che la stessa Corte
costituzionale, con recentissima decisione (sentenza n.240 del 26/11/2015,
pubblicata nella G.U. 02/12/2015, n. 48) ha dichiarato non fondate le questioni

impugnato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, e 117, primo comma, Cost., nella
parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l’ammissione
all’istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova introdotto dalla legge n. 67/2014 – ai processi pendenti in primo grado, nei quali
la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima
dell’entrata in vigore della nuova norma.
I Giudici costituzionali – confermando l’interpretazione di questa Corte Suprema
– hanno ricordato che l’istituto della sospensione del procedimento con messa
alla prova pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato,
è connotato comunque da un’intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò
si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la
richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Il legislatore,
infatti, gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina di nuovi istituti
processuali, a condizione che ciò non sia manifestamente irragionevole. La
disposizione impugnata, inoltre, attesa la sua prospettiva processuale, è regolata
dal principio tempus regit actum, e non già dal principio di retroattività della lex
mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice
e la pena. Sono state ritenute prive di fondamento, infine, le asserite violazioni
del diritto di difesa e del giusto processo, giacché sollevate nell’erroneo
presupposto che nei processi in corso al momento dell’entrata in vigore della
norma censurata dovrebbe riconoscersi all’imputato la facoltà di scegliere il
nuovo procedimento speciale, del quale, invece, è stata legittimamente esclusa
l’applicabilità da parte del legislatore.
Trattasi di motivazione che, attesa l’omogeneità dei profili di censura sollevati
dal ricorrente, ben si attagliano alla tesi prospettata nel presente giudizio,
estensibili quindi anche alla norma tacciata di sospetta incostituzionalità dal
ricorrente (art. 552, lett. f), cod. proc. pen.).

5. Quanto al secondo ed al terzo motivo di ricorso, già congiuntamente illustrati,
sono manifestamente infondati.
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di legittimità costituzionale dell’art. 464- bis , comma 2, del cod. proc. pen.,

Ed invero, pacifica è la giurisprudenza di questa Corte nel senso che in tema di
omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, la presentazione
da parte del datore di lavoro degli appositi modelli attestanti le retribuzioni
corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto previdenziale
può essere valutata come prova piena della effettiva corresponsione delle
retribuzioni stesse solo in assenza di elementi contrari (Sez. 3, n. 37330 del
15/07/2014 – dep. 09/09/2014, Valenza, Rv. 259909).

corresponsione della retribuzioni, ma la mera labiale affermazione del ricorrente
in tal senso non è sufficiente al fine di assolvere all’onere probatorio ad esso
incombente. Ed infatti, questa Corte ha già affermato che in materia di omesso
versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di
lavoro, l’onere incombente sul pubblico ministero di dimostrare l’avvenuta
corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori dipendenti è assolto con la
produzione del modello DM 10, con la conseguenza che grava sull’imputato il
compito di provare, in difformità dalla situazione rappresentata nelle denunce
retributive inoltrate, l’assenza del materiale esborso delle somme (Sez. 3, n.
7772 del 05/12/2013 – dep. 19/02/2014, Di Gianvito, Rv. 258851). Quanto,
infine, al presunto errore di diritto relativo al disposto dell’art. 2709 cod. civ., è
sufficiente qui ricordare come questa stessa Corte ha affermato come i modelli
DM/10

“provenienti dall’imputato hanno, invero, natura ricognitiva della

situazione debitoria esposta e fanno piena prova (art. 2709 c.c.) a carico
dell’imprenditore, il quale può evitare il procedimento penale provvedendo al
versamento di quanto dovuto entro il termine di tre mesi dalla contestazione”
(Sez. 3, n. 46451 del 07/10/2009 – dep. 02/12/2009, Carella, Rv. 245610, in
motivazione).

6. Deve, infine, rilevarsi che non incide sulla presente sentenza la legge delega
n. 67/2014, atteso che l’art. 2, comma secondo, lett. c) della stessa prevede che
l’omesso versamento non deve essere superiore a 10.000,00 per il periodo
considerato: nel caso di specie, invece, tanto per il 2007 che per il 2008 tale
soglia era stata superata, avendo omesso il versamento di ritenute per il 2007
per oltre 90.000,00 euro e, per il 2008, per oltre 19.000,00 euro.

7. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, non rilevando
pertanto l’intervenuta estinzione per prescrizione del reato relativamente ad
alcuni dei ratei contestati, atteso che – avuto riguardo già al primo di essi
(marzo 2007), la prescrizione è intervenuta in data 16/01/2015, data però
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Sul punto, il ricorrente si limita a sostenere che non vi è prova della

successiva alla pronuncia della sentenza d’appello (9/04/2014), trovando quindi
applicazione la pacifica giurisprudenza di questa Corte secondo cui
l’inammissibilità del ricorso
per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza
_
dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e
preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità
a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 – dep.

prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il
ricorso).

8. All’inammissibilità segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo ragioni
di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di
sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1000,00
(mille/00).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di C 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 15 dicembre 2015

21/12/2000, De Luca, Rv. 217266; nella specie si trattava proprio della

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